Dieci anni. Cosa stavate facendo dieci anni fa a quest’ora? Quali stati d’animo legati a quella stagione della vita permeano ancora la vostra esistenza?
Cosa è cambiato?
Bene, se potessimo porre queste domande ad un vasto numero di persone, la constatazione dell’esistenza di tratti comuni e la costanza di alcuni elementi stessi della vita, le scelte, i rimpianti e le conferme, compenserebbero gli elementi distintivi quali le differenze di età degli intervistati, le condizioni emotive o l’esperienza, persino il modo, più lento o più veloce, più tranquillo o più ansioso, con cui interpretiamo lo scorrere del tempo.
Ritornare indietro.
Fissare in maniera quanto più accessibile ai posteri ciò che è stato, illuminandolo della luce delle “puntate successive”, una luce che in maniera quantomai casuale ravviva gli elementi che erano bui e mette in ombra ciò su cui un tempo si sarebbe puntato senza dubbio alcuno.
Questo è il viaggio più difficile, perchè più ti allontani da quelle memorie più percepisci solo un punto indistinto.
Cosa abbiamo quindi visto ieri sera al Vittorio Emanuele di Messina? In scena è andato (e ci andrà fino a giorno 6 novembre) l’opera di uno dei più interessanti fenomeni emergenti del teatro d’avanguardia in questo scorcio di XXI secolo, Takahiro Fujita, che con la compagnia Mum&Gispsy è attualmente in tourneè nel nostro paese e che giusto a quegli interrogativi tenta di dar risposta nel viaggio di “Dots and Lines and the Cube Formed. The Many Differents Worlds Inside. And Light”.
La rappresentazione proposta è una singolare esposizione di tematiche personali e sociali della vita dei giorni nostri.
Si ride molto e altrettanto ci si commuove, guardando questo lavoro, dal momento che il giovane regista allarga lo spettro emozionale avvantaggiandosi in maniera fresca e vivace del contemporaneo utilizzo di più registri artistici, riuscendo a non risultare manierista o cervellotico.
Sul palco si trova una tenda da campeggio, una scacchiera, delle telecamerine con le quali si mandano immagini in diretta sullo schermo retrostante, dei giocattoli “vintage” (macchinine, cagnolini a molla, pupazzi) ed un reticolo di linee disegnate sul terreno, sulle quali si rappresentano in una miscela tra passato (il 2001) e presente (2011) le vicende dei sei personaggi che si dibattono nel ricordo della stagione in cui sono passati al mondo degli adulti e si sono allontanati dall’epica delle compagnie liceali.
Che cos’è un punto?
E’ il nuovo neo sul braccio di Satoko, una palla da tennis, un pezzo sulla scacchiera, la visione dall’alto della tenda in cui Aya, scappando di casa proprio dieci anni prima, si era rifugiata per fuggire l’omologazione e il male di vivere tipiche della sua età; la tenda è quindi un punto se visto da lontano, da un cielo distante che riesce ad accogliere le sue negatività, ma che contemporaneamente si fa contenitore per la felicità degli uccelli che si librano leggiadri e diventano simboli, per le compagne di liceo Ayumi e Satoko, di quello che si è certi sia il futuro finito il percorso scolastico: un mistero affascinante che può soltanto evolversi in maniera “luminosamente” positiva. Sono anche punti, però, le stazioni già passate nel proprio viaggio metaforico, se viste dall’attuale fermata del treno, o l’individuo stesso quando si raccorda agli altri tramite le linee dell’amicizia, degli affetti e dell’amore, che nell’intreccio del reticolo danno a loro volta “forma” a dei cubi (la società, la rappresentazione dei microcosmi interiori).
Soffrire e ambire. Per alcuni il cubo è la sicurezza del piccolo paese, per altri è la luminosa aspirazione al grande mondo esterno della città (cosa che risulta evidente nella separazione, finito il liceo, tra le due amiche Ayumi e Satoko), per altri ancora nient’altro che una gabbia da cui fuggire o a cui ribellarsi (le considerazioni di Aya sui cubi dell’edificio e del sistema scolastico voluto dagli “adulti” o sulla loro reazione ogni qual volta, come nel caso degli avvenimenti delle Torri Gemelli – altri cubi – se ne distrugge uno) .
Lo spettacolo, nonostante le tematiche profonde e gli eventi a volte tragici (l’uccisione di una bimba di tre anni, la scomparsa di una delle protagoniste, le considerazioni su eventi di attualità come il terrorismo) risulta gradevole e leggero, servendosi di tecniche della scuola “Zero Generation” giapponese, che evita gli eccessi di certo sperimentalismo concettuale utilizzando un linguaggio comune e realistico mutuato dalla vita di tutti i giorni.
A stemperare ulteriormente il clima, poi, è la comicità espressiva della cultura manga applicata in maniera buffa e caricaturale a molti dei personaggi, le tecniche visuali di una moderna cinematografia alla Gondry, ed una colonna sonora che con la giusta dose di indie-rock (Mùm, Stafrænn Hákon, Deerhof), psichedelia (Circulatory System) , elettronica (Mister Lies, Minamo, Angy Kore) e pop-rock cantautoriale (Yes, Belle And Sebastian) partecipa alla creazione di una piacevole esperienza multisensoriale.
Il lavoro di Fujita e della sua compagnia, in definitiva, dà la possibilità di meglio interrogarsi sull’esperienza del viaggio comune a tutti gli esseri umani, nella declinazione delle scelte dell’andare/rimanere, dell’impegnarsi/disimpegnarsi, del ricordare/dimenticare.
Il tutto in 90 minuti di divertente intrattenimento: cosa si potrebbe volere di più?
Francesco Mastrolembo