Onore ai caduti
E ci piace rammentare anche i caduti di Kindu e chi scelse la strada solitaria di render loro omaggio
Ricorrevano ieri i 13 anni dall’attentato terroristico che costò la vita a 19 soldati italiani in Iraq. Sono passati ormai 13 anni da quel novembre del 2003 quando un camion bomba devastò la base militare italiana di Nassiriya, uccidendo 17 soldati e 2 civili tricolori. Ma ieri si sono spese più parole, sui media nazionali, tv di stato compreso, per ricordare altre stragi, altri morti, non meno importanti, ma forse meno scomode.
In un Paese normale sarebbe stato “normale” ricordare, poi anche dopo l’ossequio a chi è morto, confrontarsi o dire come la si pensa su quelle divise, sull’uso delle armi, sul significato, l’utilizzo, i perchè, di quelle missioni di pace.
Per i caduti di Nassirya, come per tanti altri militari tornati dal fronte con la bandiera tricolore avvolta sulla bara, dopo i funerali di Stato è rimasto poco o nulla.
Di loro non si parla, a loro son dedicate poche piazze e pochissime vie.
Nel decennale ci fu anche una polemica sul mancato conferimento delle medaglie al valor militare.
Imbarazzante capitolo di una vicenda grottesca: anche chi ha un nome e un cognome finisce nel calderone – di fatto – dei militi ignoti.
Nel senso che nessuno fa memoria di loro.
I carabinieri: Massimiliano Bruno, maresciallo aiutante. Giovanni Cavallaro, sottotenente.Giuseppe Coletta, brigadiere. Andrea Filippa, appuntato. Enzo Fregosi, maresciallo luogotenente. Daniele Ghione, maresciallo capo. Horacio Majorana, appuntato. Ivan Ghitti, brigadiere. Domenico Intravaia, vice brigadiere. Filippo Merlino, sottotenente. Alfio Ragazzi, maresciallo aiutante. Alfonso Trincone, Maresciallo aiutante. I militari dell’esercito: Massimo Ficuciello, capitano. Silvio Olla, maresciallo capo. Alessandro Carrisi, primo caporal maggiore. Emanuele Ferraro, caporal maggiore capo scelto. Pietro Petrucci, caporal maggiore. I civili: Marco Beci, cooperatore internazionale. Stefano Rolla, regista.
In questo contesto ci sembra umano, coerente, ricordare altre vittime quelle che l”11 novembre del 1961 atterrando all’aeroporto di Kindu, non lontano dal confine con il Katanga, la regione dalla quale è dilagata la sanguinosa guerra civile che minaccia la giovane repubblica africana, proclamata appena il 30 giugno 1960, vennero trucidati.
I due aeroplani sui quali viaggiavano gli italiani trasportano rifornimenti per i “caschi blu” malesi della guarnigione di Kindu.
Una missione come tante almeno fino a quando non si consuma la tragedia.
Terminate le operazioni scarico dei due C-119, i tredici uomini (due equipaggi completi più un ufficiale medico) escono dall’aeroporto per portarsi presso la vicina mensa della guarnigione ONU.
Gli aviatori italiani non hanno armi al seguito e vengono sorpresi mentre pranzavano da militari congolesi ammutinatisi.
Nell’aggressione uno degli ufficiali, il medico, viene ucciso, gli altri sono trascinati nella prigione della città.
Lì saranno brutalmente trucidati.
E ci fu chi, come Fabio Leva, scelse la via del “mercenario” per vendicare quell’eccidio.
Così lo ricorda Gabriele Adinolfi nel suo libro Io fascista ricercato.
I mastini della guerra
Fabio è un triestino gioviale; ha una dozzina d’anni più di me. Lo incontro tre o quattro volte.
A fine maggio del 2014 sono a Trieste, la sua città, per presentare Quella strage fascista. Così è se vi pare. Lo chiamiamo per sapere se verrà all’Istituto Panzarasa dove avrà luogo l’incontro.
Ci risponde che non può, è degente perché gli hanno asportato un polipo maligno alle corde vocali. Con Fabrizio Cassarà andiamo a trovarlo in ospedale. La voce è un po’ roca ma non è abbattuto e non si risparmia.
A un certo punto passa un’infermiera; lascia la stanza e lui:
– Quella lì mi sa che ci sta, più tardi ci provo.
– Ma sei stato operato da poco – gli replica Fabrizio. – quando: l’altro ieri? Ieri?
– Stamattina. Mi sono risvegliato due ore fa.
Era un giovane soldato nel novembre 1961 quando a Kindu, nel Congo belga, tredici aviatori italiani furono sequestrati, torturati, fatti a pezzi e mangiati, sì mangiati, dai ribelli. Le loro parti più pregiate, come le falangi della mano, vennero vendute al mercato a prezzi altissimi.
Lo sdegno fu forte: in caserma si ripromisero di disertare e di partire mercenari per vendicare gli avieri. Fu preparato tutto ma all’appuntamento che si erano prefissati Fabio si recò solo; si erano defilati tutti all’ultimo momento, giusto un graduato si presentò, ma soltanto per passargli una pistola.
– Ci rimasi male ma la parola è parola e, pur se da solo, la mantenni.
Disertò, raggiunse il Belgio e di lì l’Africa dove servì in diverse formazioni, la migliore delle quali, se non faccio confusione, sarebbe stata quella di Bob Denard.
Come tutti i combattenti veri, benché sia loquace, non ci ha raccontato nulla di sé.
Unica eccezione l’incontro con il Che durante la fallimentare esperienza africana di quest’ultimo.
– Ci fu un combattimento rapido, più che altro una scaramuccia. Loro ebbero dei feriti ma non avevano barelle per portarli via. Gliele prestammo. Ce le restituirono dopo averle lavate.
I morti
Solo nel 1994 fu riconosciuta alla loro memoria la Medaglia d’oro al Valor Militare, e solamente nel 2007 i familiari delle vittime sono riusciti ad ottenere finalmente un risarcimento.
Ecco i nomi dei 13 aviatori morti a Kindu:
– Onorio De Luca,
sottotenente pilota, 25 anni;
– Filippo Di Giovanni,
maresciallo motorista, 42 anni;
– Armando Fabi,
sergente maggiore elettromeccanico di bordo, 30 anni;
– Giulio Garbati, sottotenente
pilota, 22 anni;
– Giorgio Gonelli,
capitano pilota, 31 anni, vicecomandante;
– Antonio Mamone,
sergente marconista, 28 anni;
– Martano Marcacci,
sergente elettromeccanico di bordo, 27 anni;
– Nazzareno Quadrumani,
maresciallo motorista 42 anni;
– Francesco Paga,
sergente marconista, 31 anni;
– Amedeo Parmeggiani,
maggiore pilota, 43 anni, comandante dei due equipaggi;
– Silvestro Possenti,
sergente maggiore montatore, 40 anni;
– Francesco Paolo
Remotti, tenente medico, 29 anni;
– Nicola Stigliani,
sergente maggiore montatore, 30 anni.
in alto i cuori!
da vedere
Recentemente nelle sale cinematografiche è uscito un film La battaglia di Jadotville racconta la storia vera di un battaglione, Forte 150, battente bandiera irlandese, composto da 150 uomini con a capo il comandante Patrick Quinlan, che viene assediato da 3000 soldati congolesi guidati dai mercenari francesi e belgi. Dietro, va da sé, ombreggiano sinistri gli interessi delle aziende minerarie.
Alle spalle dell’assedio di Jodotville (altro non è che il nome dell’attuale città di Likasi) c’è la “crisi del Congo”, espressione dentro alla quale va quel quinquennio, 1960-1965, in cui una perdurante instabilità politica portò a ripetuti tumulti nel territorio africano.
Basato su fatti tremendamente reali, il nuovo lungometraggio Netflix è tratto dal romanzo omonimo di Declan Power, che lo sceneggiatore Kevin Brodbin sottolinea specialmente nelle sue tipiche cadenze da war-drama con i rapporti e le ottiche di vita dei protagonisti ben in vista.
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