di Ornella Fanzone
Tra poesie e ricordi, la drammatica consapevolezza che su quei luoghi a così alto rischio sismico, sta per realizzarsi quella che è stata definita “l’Ottava Meraviglia”della terra. Per noi,certamente la progettazione più insensata del secolo.
Una poesia per non dimenticare,
quella del messinese Filippo Faillaci, fisioterapista di professione e amante della poesia per passione, certamente una tra le più belle scritte sul disastro tellurico, che il 28 dicembre del 1908, distrusse Reggio Calabria e Messina. Una lirica emozionante, sincera e ricca di pathos, nella quale il poeta rammenta lo sgomento di quei giorni e conferisce significato profondo a quelle pietre provenienti dalle macerie del devastante sisma, che sono state utilizzate per edificare il muro di cinta dell’ospedale Piemonte.
Giovanni Pascoli, scrisse: “Qui dove tutto è distrutto, rimane la poesia. »
Questa è la poesia con cui la scrittrice Ada Negri esortò la popolazione ad aiutare i superstiti:
“ Fratelli in Cristo destatevi dal sonno andate a soccorso con zappe e leve con pane e vesti.
Nelle lontane terre dell’arsa Calabria crollano ponti e città i fiumi arretrano il corso sotto le case travolte le creature sepolte vivono ancora chissà.
Batte la campana a stormo.
Pietà fratelli, pietà. “
Ditemi o stelle, se lo sapete, cosa sta succedendo all’universo:
è l’ira divina o una congiura della terra per castigare l’uomo?
Dio mi perdoni, non è l’una né l’altra, ma la natura stessa delle cose:
nel ventre della terra c’è un tumulto che sprigiona e sconvolge il mare ed il vulcano.
O Signore, qual è lo scampo se mare e terra congiurano contro l’uomo?
Temevo mari, poiché la morte attendeva anche una minima distrazione del capitano:
eccola insinuarsi sotto di noi, sovrastarci, avvolgerci, ora più prossima ora più lontana.
Dunque la terra e il mare hanno per sorte entrambi di tradirci.
Cos’è successo a Messina, doppiamente uccisa nel fiore della sua gioventù?
Le sue incomparabili bellezze sono venute meno all’avvento delle due calamità.
In un attimo è stata risucchiata dal suolo e ricoperta dalle acque,
la sua beltà è perita d’un tratto, si è compiuto il suo fato.
Magari le avessero concesso almeno il tempo di congedarsi dagli amici e dai vicini,
lasciando ai compagni la gioia di incontrarsi, agli amanti di riunirsi.
Terra e monti hanno prevaricato su di essa
e con quale prepotenza l’ha fatto il mare!
Il suolo scoppia di rancore contro di lei
e si spacca da tanto e ribolle.
Le montagne rispondono lanciando pietre, lapilli e fumo,
i mari a loro volta ingaggiano eserciti di onde tumultuose.
La morte assume diversi colori: qui nero fitto, là rosso vermiglio.
Ha reclutato acque e terra per distruggere tutti e si è fatta aiutare dalle fiamme.
Ha convocato anche nubi possenti che asservono una schiera di fulmini.
Fuggire è impossibile, regna la disperazione e svanisce il coraggio dei valorosi.
La morte si è vendicata di quelle anime che l’avrebbero sprezzata,
se l’avessero affrontata in battaglia.
E dov’è Reggio, dove i suoi bei palazzi, le sue donne avvenenti?
In modo simile alla sorella è stata colpita all’improvviso,
con lei è stata colta dalle stesse catastrofi.
Forse un bambino è stato inghiottito nel ventre della terra
invocando l’aiuto della madre e del padre,
una fanciulla divorata dalle fiamme, straziata dalle ustioni,
un padre sconvolto è andato indomito verso il fuoco,
le braccia tese, cercando figlie e figli, il passo lesto, l’animo turbato,
divorato dal fuoco da cui non si è sottratto e non gli ha dato tregua.
La terra si è ingozzata ed anche il mare è sazio,
tante sono le vittime che han ingoiato.
La balena ha lanciato un lamento ai falchi
che allo stesso modo hanno risposto:
l’una e gli altri si sono accaniti sui corpi
ed ora, satolli, gemono per quel feroce pasto.
Dio maledica i predatori delle vette e dell’abisso
che han divorato nobili mani, create da Dio per operare meraviglie.
Come han potuto non provarne pena, non aver riguardo per simili dita?
Che immane perdita! Eran mani di artisti imperituri,
bramose di far propria ogni bellezza,
capaci di ammaliare coi colori,
di scolpire, dipingere, edificare meraviglie,
di far parlare pietre e zittire così anche il canto degli uccelli,
tese, nel fare, a una perfezione maggiore di quella che ha il poeta nel dire,
in grado di produrre sculture lucenti come stelle
la cui bellezza il tempo non può offuscare.
Oh arte prodigiosa,
oh potenza divina ancor più grande!
Ahi, Messina, oggi ti affianchi a Pompei ch’era rimasta sola,
vai a tenere compagnia al gioiello della corona romana,
assassinata mentre era ancora intenta al diletto.
La sorte è sopraggiunta mentre la gente doviziosa era nei ritrovi
al suono della musica: amanti appassionati, gaudenti spensierati, giocatori incalliti…
Son tutti morti, così come lo sono or ora i tuoi
ed il sorriso della vita si è offuscato.
Ma tu, Messina, non scomparirai nell’oblio come a lei è toccato,
coloro che hanno edificato l’Italia son grandi costruttori,
finché sussisterà almeno uno di loro, puoi star tranquilla.
Sia pace a te nel giorno in cui sei venuta meno con la tua bellezza,
sia pace a te quando ritornerai ad essere come un tempo il paradiso d’Italia.
Un saluto da ogni essere umano della terra
per ognuno di coloro che sono scomparsi,
di coloro che il lupo ha divorato e i falchi hanno straziato,
un saluto per ciascuno di quelli che hanno versato una lacrima
e un’offerta per ricostruirti,
non elemosina ma giusto tributo di ogni uomo verso il suo simile.
Scrivete del cielo di Reggio, di Messina, della Calabria, in ogni lingua:
qui è morta ogni impresa, ogni immagine è sbiadita,
si è spento ogni pensiero, ha taciuto ogni canto.
Umberto Saba con la sua Messina (1908)
Io non la vidi mai, che d’essa noto
n’era il nome e non più. Nel mio pensiero,
quanto vedevo immaginando il vero,
è quello che distrusse il terremoto.
Vedea uno stretto da varcarsi a nuoto;
di cupe frondi un dondolio leggero:
col porto di vocianti uomini nero,
sotto un meriggio eternalmente immoto,
biancheggiar la città, vasta aranciera.
ora veggo macerie, onde la fiamma
esce, o un lungo sottil braccio di cera.
Vagano cani ritornati fiere:
mentre al bimbo che piange e chiede mamma
canta la ninna-nanna un bersagliere …
La notte, i sismografi registrarono il verificarsi di un terremoto di grande magnitudo. Il sisma è inquadrabile settorialmente in una zona probabilmente ubicata in Italia. Nessuna ulteriore informazione disponibile, solo le tracce marcate dai pennini sui tabulati degli osservatori sismici che gli studiosi cominciarono velocemente ad analizzare ed interpretare. I telegrafi cominciarono a ticchettare in attesa di ottenere e scambiare notizie. Così, prima di ottenere una qualsivoglia comunicazione ufficiale molte nazioni del mondo e l’Italia stessa, furono informate attraverso la strumentazione scientifica del terremoto del 1908 che devastò Messina e Reggio Calabria. I sismografi misero in evidenza solo la grande intensità delle scosse senza consentire però agli specialisti di individuare con altrettanta certezza la specifica localizzazione e solo di immaginare, ovviamente, i possibili danni provocati da un sisma di quella intensità. Gli addetti all’osservatorio Ximeniano annotarono: “Stamani alle 5:21 negli strumenti dell’Osservatorio è incominciata una impressionante, straordinaria registrazione: “Le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri: misurano oltre 40 centimetri. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave”
Lunedì 28 dicembre 1908 un terremoto di 7,1 gradi Richter (XI-XII Mercalli) si abbatté violentemente sullo Stretto, colpendo Messina e Reggio in tarda nottata (5,21). Uno dei più potenti sismi della storia italiana aveva colto la regione nel sonno, interrotto tutte le vie di comunicazione (strada, ferrovia, telegrafo, telefono), danneggiato i cavi elettrici e del gas, e sospeso così l’illuminazione stradale fino a Villa San Giovanni e a Palmi. Con lo strascico di un maremoto, l’evento devastò particolarmente Messina, causandovi il crollo del 90% degli edifici.
Gravissimo fu il bilancio delle vittime: Messina, che all’epoca contava circa 140.000 abitanti, ne perse circa 80.000 e Reggio Calabria registrò circa 15.000 morti su una popolazione di 45.000 abitanti. Secondo altre stime si raggiunse la cifra impressionante di 120.000 vittime, 80.000 in Sicilia e 40.000 in Calabria. Altissimo fu il numero dei feriti e catastrofici furono i danni materiali. Numerosissime scosse di assestamento si ripeterono nelle giornate successive e fin quasi alla fine del mese di marzo 1909.
Molte delle monumentali costruzioni dei centri urbani subirono numerosi danni che, pur se non irreparabili, comportarono la loro demolizione per l’attuazione dei piani regolatori redatti dagli ingegneri Borzì e De Nava. Essi previdero la realizzazione di città quasi totalmente nuove, con palazzi di modesta altezza (non più di due o tre piani, anche per quelli pubblici) e lunghe strade larghe e diritte con una pianta ortogonale. Il Piano Regolatore dell’ingegnere Luigi Borzì prevedeva, per la città di Messina, un acquedotto della portata di quindicimila metri cubi d’acqua al giorno. La città veniva inoltre delimitata a ovest dalle pendici dei Peloritani, a sud dal torrente Gazzi e dalla Zona industriale, e a nord dal torrente Annunziata.
Numerose furono le costruzioni vittime dei danni del terremoto e delle successive demolizioni:
A Messina la imponente Palazzata o Teatro marittimo, lunghissima teoria di palazzi senza soluzione di continuità affacciata sul porto (opera seicentesca dell’architetto Simone Gullì e poi ricostruita, dopo il terremoto del 1783, dall’architetto Giacomo Minutoli); il ricchissimo Palazzo Municipale, opera seicentesca di Giacomo Del Duca, incluso nella Palazzata; il palazzo della Dogana, costruito sui resti del Palazzo reale, a sua volta crollato nel terremoto del 1783; tantissime chiese, tra cui quella di San Gregorio, nella parte collinare della città sopra la via dei Monasteri (oggi via XXIV Maggio), quella della SS. Annunziata dei Teatini, opera di Guarino Guarini e la Concattedrale dell’Archimandritato del Santissimo Salvatore, ricostruita nel XVI secolo da Carlo V alla foce del torrente Annunziata, sul posto dell’attuale Museo regionale; il Duomo, ricostruito poi dall’architetto Valenti secondo le linee presunte dell’originaria struttura normanna e molti edifici pubblici; la sede della storica Università, fondata come primo collegio gesuitico al mondo nel 1548.
A Reggio Calabria la lunghissima Real Palazzina, costituita da un continuo susseguirsi di eleganti edifici napoleonici, affacciata sull’antico lungomare; l’imponente Palazzo San Giorgio (Palazzo Municipale), poi ricostruito dall’architetto Ernesto Basile; l’elegante Villa Genoese-Zerbi, esempio di barocco seicentesco della città; gli importanti palazzi Mantica, Ramirez e Rettano; moltissime chiese e basiliche tra cui il ricchissimo Duomo barocco, poi ricostruito divenendo l’edificio sacro più grande in Calabria; l’antichissima basilica bizantina della Cattolica dei Greci; le fontane monumentali sul lungomare ed un gran numero di imponenti ed importanti edifici pubblici e privati.
Le due città persero così gran parte della memoria storica legata a quella che era stata l’evoluzione urbanistica nei secoli precedenti; inoltre caserme ed ospedali in entrambe le città subirono danni gravi: all’ospedale civile, su 230 malati in ricovero se ne salvarono soltanto 29. Alcuni edifici vennero letteralmente sgretolati, come polverizzati, e la popolazione che vi abitava fu colta dal sisma nelle ore notturne e non ebbe il tempo di mettersi in salvo.
Nel porto di Reggio Calabria, la linea ferrata costiera venne letteralmente divelta, molti vagoni furono ripescati in mare.
Ornella Fanzone
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