Tra poco uscirò per andare al concerto – scriveva nel 2011, era dicembre, Gabriele Adinolfi – indetto per il trentesimo anniversario della morte di Alessandro Alibrandi (il 5 dicembre 1981)
La notizia non è circolata molto, non l’ho trovata in giro tra forum e facebook.
I soliti noti, i soliti di allora, solo loro sembrano essersene voluti occupare.
Pare quasi un incontro clandestino, che si tiene alla chetichella.
Non per colpa della vecchia guardia, sia chiaro, la quale si è limitata ad essere discreta come al solito, perché se ben la conosci ti accorgi che non è per nulla esibizionista.
La colpa di quest’atteggiamento che rende “sconveniente” andare ad onorare un camerata caduto in uno scontro a fuoco con la polizia non è affatto dei vecchi, è collettiva.
Collettivamente c’è un po’ troppo la tendenza a sbandierare, fino all’eccesso, ciò che non comporta imbarazzo ma ad evitare di contro ciò che non si sa bene come assumere.
I camerati caduti allora si ricordano anche con toni elevati, anche con emozione ma, senza rendersene conto, si ha la tendenza a discriminarli secondo la convenienza del ricordo. Così, se da una parte è prevalsa la “vittimizzazione” dei Caduti, riducendone di fatto la portata dello stesso martirio, dall’altra si sono operate tutta una serie di selezioni.
Un esempio per tutti.
Quando si parla della strage di Acca Larentia il pensiero comune va agli assassini rossi di Franco e Francesco; non altrettanto frequente è il ricordo della matrice statale dell’uccisione di Stefano compiuta da un ufficiale dei Carabinieri.
Ma poiché Stefano fu ucciso a freddo, senz’armi, ancora ancora si riesce a ricordarlo perché rientra comunque nello schema “uccidere un fascista non è reato”.
“Volemmo dimostrare che sì non era reato ma perlomeno era pericoloso” ebbe un giorno a spiegare Mario Tuti in televisione. Ma ciò, che è un dato reale, dai più viene sottaciuto, ignorato. Questo perché nel non voler essere rigettati, nel cercar di essere compresi, è dura spiegare che dei giovanissimi morirono con le armi in pugno.
E anche quando lo si fa si tende non a spiegarne le scelte ma a giustificarle. Il che può anche avere un senso ma non è giusto. Si può, sia chiaro, avere una valutazione personale in merito. Anche se mi par difficile assai che essa abbia un fondamento se non si è vissuto quello che si pretende di valutare. Sulla base della propria immancabile valutazione è comunque lecito poi sia rivendicare, sia esaltare, sia criticare, sia rifiutare la lotta armata. Ma quale che sia la propria convinzione essa non ha assolutamente il diritto di pesare sul sentimento e, soprattutto, sull’imperativo di onorare chi cadde.
Volerlo imitare, caricaturare, utilizzandolo come un ologramma che li aiuti a scaricare idealmente la rabbia è, tra i meno di quarant’anni, ormai un fatto di pochi, comunque distorcente, ingannevole, pericoloso ed inconsapevolmente insultante. Fischiettare, guardare altrove, evitando di enfatizzarne la figura rispetto ad altre, è invece un fatto di molti ed è inconsapevolmente – e a volte addirittura consapevolmente – insultante. In ambo le aberrazioni c’è la traccia di una violenza psicologica e culturale subita che dev’essere rigettata, una violenza che implica il processo (sia per assolvere che per condannare) di chi non è soggetto a processo.
Non solo per aver agito con amore, magari con troppo amore, e che come tale, ci spiega Brasillach, non è soggetto a processo, ma anche perché non vi è proprio chi sia all’altezza di giudicarlo. E’ con questa consapevolezza che andrò stasera a ricordare Alì, nell’intento d’intraprendere una battaglia per la memoria e per la dignità che liberi dall’apartheid i nostri Cuori Dimenticati.
Che poi è anche una battaglia per la dignità e per la consapevolezza di quelli che sono vivi, anche di quelli nati molto dopo le loro morti. Che a volte non si sono ancora accorti di essere nati.
Un’altra testimonianza su Alibrandi viene fuori dall’articolo apparso su Lunedì, Dicembre 05, 2011
Trent’anni Dopo, Alibrandi nel Ricordo Di Fioravanti E Di Claudia Serpieri
Ed infine: Carminati riapre il caso Alibrandi «Fu fuoco amico»
In pratica Alibrandi, ricostruiscono i Ros commentando l’intercettazione, avrebbe iniziato la sparatoria «con l’equipaggio della volante nel momento in cui i compagni avevano già attraversato la strada e, per un caso fortuito, si erano trovati la visuale di quanto accadeva coperta da un mezzo pesante». Così i compagni di Alibrandi, «una volta uditi gli spari e aggirato l’ostacolo, aprirono istintivamente il fuoco all’indirizzo dell’autovettura di servizio, colpendo tuttavia il loro amico che pure aveva efficacemente contrastato e colpito i poliziotti».
Ed ecco in che modo Carminati racconta al bar la sua versione della sparatoria al Labaro. «Il cinque dicembre col fuoco amico… Lo hanno ammazzato i compagni stessi suoi (…) è successo al ristorante… Al ristorante gli hanno sparato (…) Che poi l’hanno ammazzato i tuoi, però è passato tra i compagni tuoi eh… Non è che… I poliziotti lui li aveva addobbati tutti e due!». Quindi il «cecato» illustra la dinamica per cui Alibrandi sarebbe stato colpito «per sbaglio»: «Praticamente lui stava dalla parte della strada… E gli altri avevano attraversato (…) È passato un camion in mezzo, una volante è uscita dal Labaro, è andata verso, diciamo, verso il raccordo, poi a un certo punto ha fatto retromarcia… (…) Come hanno sentito il botto… Ci stava il coso in mezzo, hanno fatto tutto il giro… Il tempo di fare il giro… Hanno cominciato a sparare addosso alla macchina… Lui che stava nascosto dietro la macchina… Lui che ha fatto? Nascosto dietro la macchina, capito?». Carminati conclude ricordando che il dettaglio della morte per fuoco amico «a me me l’ha detto Lorenzo Lai che stava là… Peraltro non è mai uscita la cosa». E stigmatizzando il comportamento del resto del commando: «Lì loro sono saliti sulla volante e lui l’hanno lasciato là… Non lo dovevano lascia’…».