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5 DICEMBRE 1981 –  La “bella morte” di Alessandro Alibrandi

A trentasei anni dalla sua morte guerriera in un conflitto a fuoco rileggendo quanto scritto su di lui su No Report, Fioravanti, Nicola Rao ed alla ultime “verità” di Carminati, che non levano nulla alla nostra Storia, si comprende meglio quale clima, e gli stati d’animo, di una gioventù che a Roma, vivendo consapevolemente “dalla parte sbagliata”, fecero scelte di vita senza ritorno. Riflessioni necessarie, spontanee, nell’anniversario della scomparsa di Alibrandi, anche per analizzare un periodo nero, buio, tutto da leggere, degli anni di piombo in Italia, nella “cometa” della lotta armata, a destra. Riflessioni anche alla luve di una militanza politica, che anche senza conseguenze estreme, era ben diversa da  quella di oggi e diventato, per una generazione, semplicemente ridicole le parole di Giorgia Meloni quando afferma “Saranno tutti bene accetti, soprattutto i ‘patrioti’, ma no a traditori, riciclati, trasformisti, perchè non sappiamo che farcene. Non siamo disposti a diventare una discarica, no ai rifiuti tossici, solo materiali di pregio”. Ma che ne sa lei… ma lei che c’entra?

dal sito alessandroalibrandi.blogspot.it
Quando i giovani del Movimento Sociale Italiano e del Fronte della Gioventù, incominciarono a cadere sul selciato, sotto il fuoco della sinistra extraparlamentare, nel 1975, a Roma nel quartiere Trieste, sorsero i Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar), come segno di risposta politica.
Erano gli anni in cui nella Capitale, ma anche in altre città italiane, gli scontri tra fascisti e comunisti erano all’ordine del giorno.
A Salerno, nel luglio del 1973, fu accoltellato Carlo Falvella, studente e militante del Fuan. A Padova, nel giugno del 1974, furono uccisi nella sede del Movimento Sociale Italiano, a colpi di pistola, Gianluca Giralucci e Giuseppe Mazzola.
A Roma, nel febbraio del 1975, fu ucciso Mikis Mantakas, studente greco e militante del Fuan. A Milano, nel marzo del 1975, fu ucciso a colpi di chiave inglese, Sergio Ramelli, studente e militante del Fronte della Gioventù. Ancora a Roma, nell’ottobre dello stesso anno, fu ucciso a fucilate, Mario Zicchieri, studente e militante del Fronte della Gioventù, davanti alla sezione “Gattamelata”.
Tra i militanti romani più attivi si fecero notare Giuseppe Valerio Fioravanti, detto “Giusva”, Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi.
In seguito si aggiunsero altri esponenti di spicco. I Nuclei Armati Rivoluzionari furono divisi in tre gruppi principali per ottenere il controllo del territorio. Il quartiere Monteverde, fu affidato ai fratelli Fioravanti e Alessandro Alibrandi.
Il quartiere Eur, invece, fu affidato ai fratelli Bracci e Massimo Carminati. Infine, il quartiere Prati, fu affidato a Dario Pedretti e Mario Corsi.
Alle sbarre anche Alessandro Alibrandi, figlio del Magistrato Antonio Alibrandi, che negli anni settanta fu Giudice Istruttore presso il Tribunale di Roma.
Accusato di ingerenza nei processi a carico del figlio e del gruppo Nuclei Armati Rivoluzionari, fu molto discusso per la posizione delicata in cui si trovava all’interno della Magistratura e per la sua adesione al partito di Giorgio Almirante.

Alessandro Alibrandi, invece, militò prima nel Fronte della Gioventù, poi, nel Fuan di via Siena, e infine, abbracciò lo spontaneismo armato diventando uno dei fondatori dei Nuclei Armati Rivoluzionari.

La prima azione armata a cui partecipò, fu uno scontro a fuoco con la polizia a Borgo Pio a Roma nel marzo del 1977.
Accusato di aver partecipato all’uccisione del militante di Lotta Continua, Walter Rossi, la sera del 30 settembre 1977, arrestato, insieme ad altri militanti del Movimento Sociale Italiano della sezione Balduina, fu scagionato dall’accusa di omicidio volontario e processato per rissa aggravata.
Anni dopo, lo stesso Alibrandi, fu accusato da alcuni pentiti, di aver partecipato nel ruolo di esecutore materiale dell’assassinio di un altro studente di Lotta Continua, Roberto Scialabba, nel febbraio del 1978, e dei poliziotti, Straullu e Di Roma, nell’ottobre del 1981.
Per evitare la cattura da parte della Magistratura romana, Alessandro Alibrandi, decise di intraprendere la strada della latitanza.
Nel luglio del 1981, si rifugiò in Libano arruolandosi nella Falange Maronita combattendo contro i musulmani.
Intanto, prima Valerio, e poi, Cristiano Fioravanti, furono arrestati dalla polizia, e Alessandro, decise di rientrare in Italia per formare i “Nuovi Nar” insieme ai pochi superstiti.
Ma l’esperienza dei Nuclei Armati Rivoluzionari era ormai alla conclusione.
Nel giro di qualche mese fu scritta la parola fine.
Alessandro Alibrandi, il 5 dicembre del 1981, durante un assalto ad una pattuglia della Polizia Stradale della stazione di Labaro, pochi chilometri da Roma, nel conflitto a fuoco, rimase ucciso.
Francesca Mambro, invece, nel marzo del 1982, fu ferita gravemente e arrestata mentre tentava di rapinare una banca di Roma. Massimo Carminati, nell’aprile del 1982, fu arrestato al confine svizzero mentre tentava l’espatrio. Infine, Mario Corsi, sempre nell’aprile del 1982, fu condannato per l’assalto contro una scuola compiuto tre anni prima.
Nicola Rao nel suo libro Il Piombo e la celtica, edito da Sperling & Kupfer alla “bella morte” di Alessandro Alibrandi dedica un interessante capitolo che riportiamo per intero.
La morte di Alibrandi

Mentre il Sisde cerca una strada per arrivare a Vale, Alibrandi cerca disperatamente l’agente Angelino, che lo arrestò nel 1980 per l’omicidio Arnesano e che lo pestò duramente in Questura. La vendetta, insomma, continua.
La mattina del 5 dicembre 1981, con l’inseparabile Sordi e altri due reduci dell’esperienza libanese, Belsito e Ciro Lai, «Alì Babà» decide che è il giorno buono. Ma quando il commando arriva sotto casa del poliziotto, di Angelino non c’è traccia. Così i quattro se ne vanno e gironzolano per Roma. Arrivano al Labaro, una borgata sulla Flaminia.
C’è un chiosco di frutta e verdura. Si fermano e comprano dei mandarini. Poco dopo passa una pattuglia della Polstrada.
I quattro decidono di appostarsi e attendere che ripassi per disarmare gli agenti. Ma l’auto non ripassa.
Alle 12.50, mentre Alibrandi è seduto sul bordo del marciapiede a mangiarsi un mandarino, passa un’altra auto della polizia: è la volante 4, che improvvisamente fa inversione di marcia all’altezza del ristorante 4 pini e ripassa davanti ad «Alì Babà», che in un decimo di secondo decide di agire, come aveva fatto a Milano.
Gli altri tre terroristi sono seduti in macchina; Alibrandi fa un cenno a Belsito, che non capisce. Poi butta per terra le bucce del mandarino, tira fuori una calibro 38 dalla busta che ha in mano e si avvicina alla volante sparando contro gli agenti. L’autista, Luigi D’Errico, si butta fuori dall’auto, si nasconde dietro il muro della vicina stazione ferroviaria e da lì risponde al fuoco.
L’agente seduto al suo fianco, Salvatore Barbuto, viene colpito da diversi proiettili, ma riesce comunque a rifugiarsi dietro i pali dell’insegna del ristorante e ora spara anche lui. Ma l’altro poliziotto, Ciro Capobianco, seduto dietro, non ce la fa: due proiettili lo hanno colpito in pieno e si accascia sul sedile. Intanto, dopo un primo momento di sorpresa, anche gli altri Nar partecipano alla sparatoria.
Spara Sordi, spara Lai e spara Belsito.
È un inferno di fuoco. Sordi è colpito a una mano e comincia a sanguinare, mentre Alibrandi, al centro della piazzola, viene centrato alla nuca da un colpo esploso alle sue spalle da Barbuto. Sordi si volta verso l’agente e gli spara contro ripetutamente. Ma ormai bisogna scappare. Subito. Sordi entra nella volante seguito dagli altri due, e l’auto della polizia, con dentro i Nar, si lancia lungo la via Flaminia. Qui i tre terroristi abbandonano la pantera (con a bordo l’agente Capobianco, gravemente ferito), fermano un’auto di passaggio e, minacciando l’autista con le pistole, se ne impossessano e fuggono. Alle 17.20 Alibrandi, trasportato d’urgenza all’ospedale più vicino, Villa San Pietro, sulla Cassia, muore.
Aveva ventun anni. Finisce nel sangue, così come era cominciata, la vicenda terrena di uno dei più noti e amati neofascisti romani. In una giornata , così come era dicembre, quella domenica di sette anni prima, quando tutto era iniziato negli scontri di San Giovanni di Dio. Grande ammiratore della potenza militare israeliana, amico dei cristiani falangisti, appassionato di soldatini e supertifoso della Lazio «Alì Babà» resterà il «mito proibito» di generazioni di militanti neofascisti di tutta Italia.
Quando è morto, portava al collo una catenina con una svastica «solare» d’oro, quella con i lati ricurvi.
Gliel’aveva regalata un suo grande amico di cui parleremo più avanti: Elio Di Scala, più conosciuto come «Kapplerino». Due giorni dopo morirà anche l’agente Ciro Capobianco. Anche lui aveva solo ventun anni.
Da No Reporter 05 dicembre 2011
CUORI DIMENTICATI – ALESSANDRO ALIBRANDI… MUORE GIOVANE CHI È CARO AGLI DEI

Ed infine: Carminati riapre il caso Alibrandi «Fu fuoco amico»

Roma C’è spazio anche per un retroscena inedito degli anni di piombo negli atti dell’inchiesta «Mondo di mezzo».
Storie che vengono fuori dai racconti – intercettati – di Massimo Carminati, che al Bar Vigna Stelluti il 20 maggio 2013 rievoca episodi della sua militanza nei Nar. E rivela che a uccidere con un colpo alle spalle Alessandro Alibrandi nella sparatoria tra Nar e polizia al Labaro, il 5 dicembre 1981, non fu un poliziotto, come si credeva finora, ma qualcuno del commando in azione quel giorno.

In pratica Alibrandi, ricostruiscono i Ros commentando l’intercettazione, avrebbe iniziato la sparatoria «con l’equipaggio della volante nel momento in cui i compagni avevano già attraversato la strada e, per un caso fortuito, si erano trovati la visuale di quanto accadeva coperta da un mezzo pesante». Così i compagni di Alibrandi, «una volta uditi gli spari e aggirato l’ostacolo, aprirono istintivamente il fuoco all’indirizzo dell’autovettura di servizio, colpendo tuttavia il loro amico che pure aveva efficacemente contrastato e colpito i poliziotti».

Ed ecco in che modo Carminati racconta al bar la sua versione della sparatoria al Labaro. «Il cinque dicembre col fuoco amico… Lo hanno ammazzato i compagni stessi suoi (…) è successo al ristorante… Al ristorante gli hanno sparato (…) Che poi l’hanno ammazzato i tuoi, però è passato tra i compagni tuoi eh… Non è che… I poliziotti lui li aveva addobbati tutti e due!». Quindi il «cecato» illustra la dinamica per cui Alibrandi sarebbe stato colpito «per sbaglio»: «Praticamente lui stava dalla parte della strada… E gli altri avevano attraversato (…) È passato un camion in mezzo, una volante è uscita dal Labaro, è andata verso, diciamo, verso il raccordo, poi a un certo punto ha fatto retromarcia… (…) Come hanno sentito il botto… Ci stava il coso in mezzo, hanno fatto tutto il giro… Il tempo di fare il giro… Hanno cominciato a sparare addosso alla macchina… Lui che stava nascosto dietro la macchina… Lui che ha fatto? Nascosto dietro la macchina, capito?». Carminati conclude ricordando che il dettaglio della morte per fuoco amico «a me me l’ha detto Lorenzo Lai che stava là… Peraltro non è mai uscita la cosa». E stigmatizzando il comportamento del resto del commando: «Lì loro sono saliti sulla volante e lui l’hanno lasciato là… Non lo dovevano lascia’…».

http://www.ilgiornale.it

Redazione Scomunicando.it

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