di Ferdinando Latteri
Unità e federalismo sono due componenti di un processo di organizzazione e riorganizzazione permanente di una Nazione ricca di specificità e fortemente legata alla sua identità millenaria, alla sua omogeneità linguistica, alle sue tradizioni culturali. Unità e federalismo, tuttavia, sono valori che tendono, per definizione, a imporre soluzioni, percorsi istituzionali, modelli di governo che, quasi mai, coincidono con il livello di maturazione e di condivisione delle scelte da parte del Popolo e, soprattutto, delle istituzioni storicamente esistenti.L’affermazione dell’Unità d’Italia, nel 1860, fu una trasformazione profonda, una rivoluzione liberale, una trasformazione forzosamente imposta da una parte del Paese (in senso culturale e politico, ancor prima che geografico) all’intera Nazione. Probabilmente, la coscienza popolare del valore dell’Unità non era ancora talmente consolidata da accettare con serenità il processo. Prova ne è che all’apparente fine delle operazioni belliche con l’incontro di Teano, seguì una sorta di guerra civile, forse ancora non adeguatamente studiata.
L’Unità fu realizzata secondo un modello senza equilibrio, incapace di vedere le opportunità che venivano dal Mediterraneo, incapace di far crescere una autonoma capacità di promozione economica, incapace di valorizzare risorse e potenzialità culturali, sociali e produttive che avrebbero potuto segnare positivamente l’intero processo di sviluppo nazionale.
Con la costruzione di alleanze arretrate e parassitarie si frenò lo sviluppo del Meridione e si impedì la nascita di potenziali concorrenze. Servizi, trasporti, sistemi di comunicazione crebbero con ritmi diversi, aggravando le difficoltà di un sistema sempre più orientato ai rapporti con l’Europa centrale e non con il Mediterraneo
È certo che il modello unitario si impose e, alla fine, fu accettato. È certo, pure, che l’effettiva unificazione (giuridica, istituzionale, economica) avvenne solo molto più tardi, con un processo lungo e costellato di difficoltà. In particolare, l’intreccio di tensioni culturali, istituzionali, politiche produsse un modello di Stato nazionale molto diverso da quello che poteva aver immaginato Cavour.
È certo, altresì, che gli indubbi benefici dell’unificazione furono pagati col doloroso prezzo di gravi rinunce a modelli di vita, a tradizioni, a valori e, spesso, con il sacrificio di vite umane.
Il Meridione e la Sicilia contribuirono con la propria gioventù alla formazione dell’Italia unita, con la partecipazione alle forze armate nazionali, con la formazione dei quadri essenziali della produzione industriale, con l’apporto qualificato alla formazione dei ceti professionali e dirigenziali.
Il Meridione e la Sicilia, da più di un secolo, hanno contribuito, con le proprie risorse, in maniera decisiva alla formazione del risparmio nazionale e alla formazione del mercato per gli investimenti industriali e le opere pubbliche.
Il ritorno in termini di apporti e investimenti, sia pubblici che privati, è stata ampiamente deficitaria. In particolare, non è stata garantita alla Sicilia neppure la concreta attuazione delle prerogative autonomistiche che le avrebbero potuto consentire di equilibrare i rapporti sociali ed economici.
La scelta di quegli anni fu tutta orientata verso una soluzione unitaria sia sul piano dell’identità politica, sia sul piano dell’organizzazione statale. Gli appelli al federalismo che provenivano da Rosmini e da altri grandi filosofi della politica restarono inascoltati e la logica dell’organizzazione prefettizia fu imposta prima dalla cultura piemontese e poi dalla reinterpretazione crispina.
Quel processo di unificazione si impose ad un Meridione impreparato, che non lo aveva voluto, almeno in quei termini, e che, comunque, lo accettò con un onesto contributo di operosità e di lealtà.
Dopo più di cento anni da quei processi, ci ritroviamo a discutere degli stessi problemi, affrontiamo il problema dell’unità nella (innegabile) pluralità, nonostante il prezzo enorme delle migrazioni, delle integrazioni amministrative, dei tentativi di perequazione economica.
Il rischio grave, che si avverte in certe estemporanee prese di posizione, è quello di tentare di cancellare, ancora una volta di colpo e forzosamente, i risultati di più di un secolo di sacrifici, per tornare, ora e dopo la consumazione dell’unificazione funzionale alle logiche di certe parti politiche, culturali, economiche, alla strategia della differenziazione.
Ci sembra che i processi di riconsiderazione dell’Unità nazionale che si sono avviati e i tentativi di riforma in corso ci fanno correre, ancora una volta, il rischio di essere impreparati. Basta pensare alla previsione costituzionale dell’art. 117, c. 2, lett. m), che, in vista di un processo di ampliamento della sfera delle autonomie regionali e locali, impone di far salvi i livelli essenziali delle prestazioni inerenti i diritti civili e sociali. È una norma di apparente salvaguardia che denuncia tutta la gravità dei rischi di differenziazione che incombono.
Ancora una volta, come ai tempi dell’unificazione, forzare i tempi dei processi di realizzazione del federalismo, può arrecare gravi danni al Mezzogiorno. Nel momento in cui non abbiamo ancora neppure gli strumenti statistici e conoscitivi per elaborare gli standard essenziali dei diritti alla salute, all’istruzione, all’assistenza che integrano e sostanziano la cittadinanza, costruita con grandi sacrifici lungo più di un secolo, un federalismo cieco potrebbe comportare gravi rischi e aggravare le sperequazioni tra Nord e Sud.
È preoccupante constatare come ci sia una straordinaria confusione sulle stesse tecniche di valutazione e di calcolo, necessarie per costruire comparazioni e criteri di distribuzione. Nonostante tale difficoltà, registriamo cifre, parametri, misure prive di adeguato supporto giustificativo e, ancor peggio, irresponsabili accettazioni dei conseguenti giudizi. Il rischio più grave è quello di travolgere i parametri di solidarietà nazionale e di sussidiarietà, che finora hanno garantita l’unità nazionale sostanziale.
Allo stesso modo, sul terreno economico e fiscale, si corre il rischio di dimenticare che l’unificazione ha comportato distribuzione di ruoli produttivi (industrie concentrate al nord, agricoltura estensiva al sud), sacrifici in termini ambientali (ad es. raffinerie al sud, chimica avanzata al nord), equilibri dolorosi in termini di distribuzione del lavoro in ambito nazionale (lavoro contro emigrazione), utilizzazione del risparmio in sedi diverse da quelle di formazione (il sud ha risparmiato più di quanto non abbiano investito le banche raccoglitrici).
Potrebbe risultare poco conveniente agli stessi sostenitori del federalismo dimenticare molti dati economici che non si ama leggere per attribuire alle regioni del Sud molte più responsabilità di quelle che hanno.
Nessuno è in grado, ad esempio, di dire cosa succederebbe se la contabilità dei rapporti fra le varie aree del Paese esprimesse coerentemente i costi reali (ambientali, sociali, sanitari) di un’organizzazione produttiva che non coincide con la sua rappresentazione giuridica (sedi produttive e sedi legali; sedi di formazione del profitto e sedi di attribuzione delle entrate fiscali). La vicenda della devoluzione delle ‘accise’ sui prodotti della raffinazione effettuata in Sicilia è espressiva dei limiti di una legislazione che non rispetta, sia nel centralismo che nel federalismo, la logica del riconoscimento dei contributi di ciascun territorio all’economia nazionale.
Invece di un federalismo solidale, corriamo il rischio di costruire un federalismo cieco, che non conosce le realtà locali e non vede i parametri di riferimento necessari per garantire l’unità, rispettando le diversità e garantendo effettiva parità di livelli di vita sociale ed economica.
È necessario affrontare il problema con forza e con il dovuto coraggio.
In particolare, è necessario impedire che manovre prive di giustificazione e di fondamento statistico-scientifico trovino spazio per la debolezza politica della dirigenza meridionale e per facili strategie di delegittimazione.
In particolare, è necessario sviluppare un’azione politica rigorosa lungo più direttrici, per evitare che l’introduzione del federalismo non comporti, ancora una volta, come nel caso dell’unificazione nazionale, un danno per il Meridione.
È necessario approntare nuovi strumenti per il Sud e acquisire adeguata consapevolezza del quadro generale per sviluppare attente politiche sociali, economiche e amministrative, che sappiano coniugare equità, giustizia sociale, e razionalizzazione dei costi.
A fronte di un costoso sistema di sprechi assistenzialistici, è necessario promuovere un modello virtuoso di riconoscimento dei diritti e di capacità di richiedere l’adempimento dei doveri, in un quadro di mercato solidale, produttivo e innovativo.
Con la forza della reciproca collaborazione, della capacità di distribuire con giustizia sacrifici e riconoscimenti, della cultura della responsabilità e della cooperazione sarà certamente possibile affrontare le sfide del federalismo, valorizzarne gli elementi positivi di razionalizzazione ed equilibrio, impedirne le facili degenerazioni verso le chiusure egoistiche e opportunistiche.