Con il nome di Walpurgisnacht è conosciuta, nell’Europa centrale e settentrionale, l’orribile notte fra il 30 aprile e il 1° maggio, in cui si pensa che il mondo si capovolga, le forze maligne si scatenino e gli spiriti dei morti possano rifluire temporaneamente sulla Terra. Allora il manto di tenebre viene rischiarato dai falò accesi e invocata la intercessione di santa Valpurga per allontanare le streghe e gli spiriti impuri.
La notte di Valpurga di Gustav Meyrink è ambientata in una Praga più fantasmatica che irreale, in cui il passato si confonde con il presente. il sogno fluttua sulla superficie della realtà, prima di soverchiarla, e i personaggi non rimangono circoscritti entro i limiti, naturali e temporali, apparenti.
Le vicende narrate cominciano nel Hradschin, dove il barone Konstantin Elsenwanger, la contessa Zahradka e il consigliere di corte Kaspar von Schirnding, articoli della avvizzita nobiltà boema, vivono come fantasmi in una sorta di coalescenza temporale.
Li frequenta il medico di corte Thaddaus Flugbeil, detto il Pinguino, il quale, pur nella sua inadeguatezza, riesce a muoversi e a muovere nella realtà altre figure dal portamento invece angusto e rattrappito. Polyxena, la giovane nipote della Zahradka, è in tutto il racconto ‘agita’ dal proprio ‘doppio’, l’antenata Polyxena Lainbua; lo stesso Ottokar, figlio illegittimo della Zahradka, sprofonda, sopraffatto dalla sua passione per Polyxena, nel proprio sottosuolo genetico.
Mentre nel Hradschin si gioca a whist, Praga viene agitata da eruzioni di ostilità popolare, favorite dalla predicazione di un nichilista russo. Per Meyrink le convulsioni sociali sono effetti di suggestioni, di possessioni psichiche collettive, suscitate da ‘infezioni spirituali’ trasmesse da elementi occulti.
A questa aggregazione di germi maligni che, insinuandosi nella vuotezza delle anime, ne sviluppano il parassitismo, l’Autore impone il nome di aweysha.
Autore: Gustav Meyrink
Titolo: La notte di Valpurga
Collana: Il Cavallo alato
Prezzo: 20,00€
Il libro può essere acquistato on line da le Edizioni di AR
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Cinquantaquattro anni di Ar.
1963. Solo diciotto anni dalla fine della guerra dei fascismi. A Padova, nel quartiere Arcella, ci sono ancora i crateri delle bombe angloamericane e il cielo ha il ricordo dei cerchi di fumo di Pippo, l’inglese spione. È l’anno del primo LP dei Beatles, del celeberrimo discorso di Martin Luther King, “I have a dream”, dei paesi sbranati dalla frana del Vajont, dell’assassinio di Kennedy. L’anno di Marcovaldo in libreria e di 8 ½ al cinema, del primo 007 e del Gattopardo. In TV c’è Mike Bongiorno con i suoi quiz di cultura generale.
Le Edizioni di Ar nascono il 9 dicembre 1963. Freda ha affittato un’ex rimessa in una strada lunga e sfatta del centro, via (nomen omen) Patriarcato, vicinissima al Liviano di Gio Ponti. Si ritrovano lì tra fuoriusciti dal MSI, per lo più ragazzi tra i diciotto e i vent’anni, insieme a un ex brigatista nero ed ex reggente di Ordine Nuovo.
La realtà è poca, ma è l’idea, secondo Freda, che deve giudicare la realtà, non viceversa. Infatti, il nome che il gruppo si dà è un’esortazione anagogica: Ar. Ar è il radicale di quei termini di origine indoeuropea che esprimono la vigoria fisico-morale (aretè, in greco, ‘aristocrazia’), fino ad arrampicarsi nelle implicazioni metafisiche di essa: i vocaboli ordine, rito.
Un radicale linguistico, germe intemporale di significato da completare nel tempo, da sigillare con il proprio operato. Perenne, arcaico, ma pronto a innestarsi nel nuovo presente che lo voglia e sappia assumere. Un’idea senza il confine di una parola, che chiunque sia abbastanza schietto e lucido può comprendere, indovinare e tradurre in azione (un radicale non è circoscritto: è in attesa della sua espansione). L’idea – banale, in fondo – del Bene come l’avrebbe coltivata un antico.
Ar significava stare nel tempo senza esaurirsi in esso. Coltivare, nel tempo, le migliori virtù umane (o dovremo dire aumane, tanto ci sono, qui, lontane?). Dunque, ogni sabato sera, al posto dei festini col mangiadischi, letture rituali in via Patriarcato. Nietzsche, Evola, la biografia di Federico II del Kantorowicz. A leggere è Freda, con la sua voce da basso. Altro che “così è se vi pare”: così è e così deve essere, costi quel che costi in termini di spiacevolezze. Non si poteva accettare che il mondo precipitasse verso la vita comoda, la competizione dei minimi termini, a chi si comprava prima la nuova Seicento, a chi beveva più daiquiri al tavolino di un bar. Si era alzata una nuvola di cipria che neanche l’atomica americana: si rischiava di non vedere più il sole. E Leonardo, genio riconosciuto, che in tempi non sospetti aveva proclamato: “No si volta chi a stella è fiso”. In Italia stava scoppiando mezza guerra civile il giorno in cui spararono a Togliatti: migliaia di rossi inferociti per le strade, e tutto si ricompose per la vittoria di Bartali al Tour de France. Già allora si poteva intuire come sarebbe finita. “Se si tolgono all’uomo le sue catene, si libera solo un animale” – ci ricorda l’abrasivo Nicolás Gómez Dávila, pubblicato da Ar nel 2007.
Ma le catene dell’uomo non devono necessariamente essere le lambiccate analisi del filosofo razionalista, che vuol salvare capra e cavoli mettendo insieme l’ineffabile e la sua dimostrazione. La verità è ai confini con l’irrazionale, è come un radicale linguistico, come il radicale ar: va indovinata, non può frantumarsi in porzioni di comoda ingestione. Deve turbare – sostiene Nietzsche, autore-cardine di Ar. Ma chi legge il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, primo volume pubblicato dalle Edizioni di Ar, deve sapere che non ha di fronte i discendenti degli inglesi che seviziavano i boeri nei primi campi di concentramento della storia e capire che si tratta, in fondo, di una terapia d’urto per uscire dalla palude del dopoguerra. C’è il libro e c’è il lettore: tra di loro un destino, forse, di consonanze.
“Un bosco di corna, l’umanità, più fitto del bosco della Ficuzza quand’era bosco davvero. E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo, tienilo bene a mente: i preti; secondo: i politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del popolo, tanto più gli calcano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e come te… È vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno; e chi lo porta in testa è un cornuto… La soddisfazione, sangue di Dio, la soddisfazione: mi va male, muoio, ma siete dei cornuti…”
È Leonardo Sciascia a offrirci lo scorcio perfetto della società attuale, attraverso la voce di uno di quei suoi personaggi che quando aprono bocca fanno impallidire tutti i filosofi à la page. E, a proposito di destino, e di consonanze: è sempre Sciascia, nel novembre del 1979, a sdegnarsi per come Freda è stato trascinato in Italia dal Costarica, dove si era rifugiato.
Il panorama culturale italiano è così ricco di corna, oggi, che il bosco della Ficuzza, a confronto, pare una radura. Ar splende nel suo altrove (ora una gattabuia, ora Nubicuculia) come un unicum, per libertà di pensiero e sincerità di azione. Cinquant’anni che pubblica libri per i non cornuti: “La soddisfazione, sangue di Dio, la soddisfazione”!…
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