Una serie di interventi, tanta musica, i testi delle canzoni, i gruppi musicali per ricordare Fabrizio De Andrè. Tutto questo è stato a Brolo, una settimana fa. Proponiamo i testi degli interventi. Ecco quello della professoressa Marisa Miragliotta.
Ci voleva un esempio…..
La manifestazione è stata organizzata da un gruppo di giovani con il patrocinio dell’amministrazione comunale nella sala multimediale “Rita Atria”.
L’intervento della professoressa, al liceo “Lucio Piccolo” di Capo d’Orlando, Marisa Miragliotta,
In un’intervista, rilasciata a V. Mollica , alla domanda “Di che cosa ha paura oggi Fabrizio De André?”, il poeta risponde: “ Sicuramente della morte. Non tanto della mia, che in ogni caso, quando arriverà, mi farà provare la mia buona dose di paura – quanto la morte che ci sta intorno, lo scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili, che si ammazzano per dei motivi sicuramente più futili di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo.”
La morte è una delle cifre che contrassegnano il pensiero, la vita e le opere del poeta Fabrizio de André.
Insistita, modulata, cantata in modo asciutto, crudo, senza elaborazione del dolore e del lutto,senza conforti o contrappunti religiosi, la morte è a volte rancorosa, altre virile,perché accettata, e ancora beffarda, sorridente o ridente.
La morte sentimentale, psicologica, morale, mentale,fisica, ultimo tabù non rimosso dalla società occidentale è, nell’opera di De André, espressione del tragico. L’essenza del tragico non sta tanto nella sofferenza e nella morte dei singoli, ma nella necessità della loro morte, affinché si generi vita in una danza da capogiro. Fabrizio ha vissuto la circolarità della felicità e della gioia della vita inseparabile dal dolore e dalla morte che l’annienta,la vita della natura che, per vivere, esige la morte dei singoli e il singolo che,per vivere, aborre la
morte.
Suicidi, impiccati, drogati, “sommersi”, bambini violati, impazziti,trucidati, soldati, diseredati: tutti confluiscono nell “umano desolato gregge” che popola l’epica Tutti morimmo a stento, cantata in si minore per solo, coro e orchestra (1968), una sorta di girone della desolazione espresso con lucidissima solitudine; viaggia “in direzione ostinata e contraria” al cospetto della divinità soverchiante de La buona novella (1970) o si apre nella sincerità totale, immediata, priva di ipocrisia e vigliaccheria dei morti “sulla collina” de Non al denaro non all’amore né al cielo” (1971) di contro ai “ventri obesi” della borghesia dai “cuori a forma di salvadanai” e dai “signori benpensanti”,dalle “ mani sudate” “sui coglioni” o alle “troie di regime”.
Un mondo tetro a un primo ascolto, un affresco cupo e inquietante,musicato con archi, ottoni, fiati, voci bianche del coro, un universo filtrato dagli occhi dell’anima e restituito alla luce dalla voce baritonale, calda, vitale di Fabrizio che, consapevole del sentimento di implicazione, del nesso di continuità tra l’universo e l’uomo, intuisce, sin da bambino, come le individualità possano talvolta collegarsi le une alle altre, da qui il suo peculiare sentimento di “pietas” verso l’umile, il vinto, il disfatto o l’ escluso, verso tutti i “disobbedienti” dagli “occhi troppo belli”.
“Io mi ritengo religioso, e la mia religiosità consiste nel sentirmi parte di un tutto, anello di una catena che comprende tutto il creato, e quindi nel rispettare tutti gli elementi, piante e minerali compresi, perché secondo me l’equilibrio è dato proprio dal benessere diffuso in tutto ciò che ci circonda”. Solo la morte smantella ogni certezza acquisita. Chi lo esperisce,come Fabrizio, può incarnare l’ atteggiamento, il modo di essere,pensare e di esistere di chi non è allineato e poco si cura dei percorsi già battuti o delle risposte che altri hanno approntato, come pure del ruolo che la divisione in classe gli affiderebbe dalla nascita.
Davanti a sé Fabrizio traccia due vie : fuoriuscire dalla propria classe di appartenenza per aderire e riconoscersi nella classe antagonista, il proletariato, in una logica di “engagement” ; oppure trovarsi, sentirsi nella condizione di essere eretico,oltre le classi , oltre il regno della quantità, dei numeri della massa, fuori dalle “ leggi del branco”.
Già, l’anarchia è prima di tutto un modo di essere, un fatto esistenziale, e non o solo politico. L’anarchico vuole abbattere il potere costituito per impadronirsene; l’anarca, invece, è interessato solo dal potere e dall’autorità che egli stesso esercita su se stesso, supponendo che lo stesso valga per gli altri. “Direi d’essere un libertario, una persona estremamente tollerante. Spero perciò d’essere considerato degno di poter appartenere ad un consesso civile perché, a mio avviso, la tolleranza è il primo sintomo della civiltà, deriva dal libertarismo. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine negativo, addirittura orrendo…anarchico vuol dire senza governo, anarche… con questo alfa privativo, fottutissimo… vuol dire semplicemente che uno pensa di essere abbastanza civile per riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia (visto che l’ha in se stesso), le sue stesse capacità”.
Ora, tanto la morte del singolo quanto la morte dell’umanità che naviga su “fragili vascelli/per affrontar del mondo la burrasca” non può essere intesa soltanto nel senso fisico, biologico, proprio della medicina;infatti, per questo fenomeno si preferisce il termine decesso. L’uomo non cessa semplicemente di vivere, ma decede in quanto muore.
La concezione della morte condiziona la nostra vita ,come provato dai comportamenti religiosi in senso lato, e definisce i diversi atteggiamenti che assumiamo nei confronti dei morti e dei vivi. Non per nulla, un deprezzamento della morte a puro “decesso” comporterebbe una svalutazione del senso, del significato della vita e ignorerebbe le uniche domande serie che possiamo porre: “Che cos’è la vita? che cosa significa esistere? in che modo decidere a viversi, esistere?”.
Ciò che differenzia l’uomo dall’animale, il quale è totalmente caratterizzato dall’istinto e trascorre la sua vita – non esistenza- nell’aproblematicità, è proprio la contraddizione, il suo essere problema, enigma a se stesso.
Il nostro rapporto con la morte ci sovrasta. E’ vero che svariate cose ci sovrastano: alcune in senso minaccioso, altre in senso desiderabile. Ma queste riguardano il nostro essere con gli altri;la morte, invece, è una possibilità, anzi la possibilità più propria che ciascuno di noi assume con sé stesso e da solo, perché “quando si muore, si muore soli”.
Se la morte è la possibilità più intima, propria, di ognuno di noi, allora possiamo arrischiare di adoperarci a realizzarla,trasformarla in un fatto, farla essere qualcosa di diverso da una possibilità tra le tante: un fatto dell’esistenza. Il suicidio di Michè, Luigi dalle “labbra smorte”,Nancy… come autorealizzazione della propria fine, li ha sì sottratti al peso che comportava il quotidiano essere per la morte, ma si è trattato di una fuga, l’estrema.
Davanti ”all’odio e all’ignoranza / preferirono la morte”, già… Neppure la pura contemplazione è una risposta adeguata, perché pensare alla morte è un modo di renderla “oggettiva”, estranea, meglio esterna a noi, quasi come se fosse ciò che ci manca per essere completi! Inoltre, in quanto è la nostra possibilità più autentica, la comprensione del nostro essere per la fine, per la morte, essa ci sottrae al dominio degli altri come massa, apparato e a ogni forma di potere costituito, istituzionale, perché in essa sta la nostra libertà, il nostro potere sovrano, senza duplicato, senza doppio, potere individuale, singolare,irripetibile, senza però scadere nell’arido solipsismo. Perché questa autenticità – questa coscienza della morte – non autorizza mai l’indifferenza o la boriosa pretesa superiorità, ma implica sempre la Cura di sé e dell’Altro, in senso lato.
“Soltanto chi è davvero solo è libero” afferma Fabrizio De André, chi è libero si decide in vita per la morte, ne anticipa l’ineluttabilità, non certo ponendo fine alla propria esistenza o rifugiandosi nelle rassicuranti ideologie, credenze fisse, negli illusori paradisi artificiali, ma rifiutandoli e dotando la propria vita-morte dell’intensità consapevole del proprio progetto.
Soltanto così, agendo, orientando il proprio viaggio esistenziale, la morte diventa fonte di energia, sollecitazione per il vivente conscio di quelle “cose svanite, facce e poi il futuro”” che rende urgente ogni decisione.
Il pensiero della morte non è più motivo di sconforto, abbattimento, desolazione, ma il più fedele alleato di una vita significativa, nostra, anzi mia. Tale comprensione della morte sviluppa un’immane forza retroattiva, giacché impedisce al nulla della morte di annichilire la vita, anzi diventa il presupposto di ogni progetto che consegni “una goccia di splendore”, anche al costo di vivere da soli le proprie idee,magari supportati dall’arte della paziente ricerca inesausta dell’interiorità schiva e concreta di un altro uomo in cui riconoscersi e col quale comunicarci, condividerci.
Valgano le parole del poeta:
“Uomini, poiché all’ultimo minuto non vi assalga il rimorso ormai tardivo per non aver pietà giammai avuto e non diventi rantolo il respiro: sappiate che la morte vi sorveglia gioir nei prati o fra i muri di calce, come crescere il grano guarda il villano finché non sia maturo per la falce”.
F. De André
da Recitativo, Tutti morimmo a stento, Cantata in si minore per solo, coro e orchestra, 1968
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