Da vent’anni la memoria di un uomo giusto, – dice Sonia Alfano – che rifiutò il compromesso mafioso, viene infangata senza pietà.
La vendetta mafiosa così, ancora una volta, avrà la meglio sulla verità e la giustizia.
Ho conosciuto Donatella che il giorno dell’omicidio, all’età di quattordici anni, camminava al fianco del padre; una donna di infinita dolcezza ma anche di animo battagliero alla quale esprimo tutta la mia solidarietà per il calvario che sta vivendo. Sono certa che la sua determinazione servirà a restituire dignità a Ignazio Aloisi e alla sua famiglia”.
E’ quanto afferma Sonia Alfano, Presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime della Mafia , in occasione del ventesimo anniversario dell’uccisione della guardia giurata messinese.
Ignazio Aloisi fu assassinato il 27 gennaio del 1991 nei pressi dello stadio “Celeste” di Messina per aver testimoniato al processo su una rapina al portavalori sul quale prestava servizio.
Il rapinatore, legato ad un clan messinese, grazie alla testimonianza resa da Aloisi fu condannato a 8 anni di carcere, e consumò la sua vendetta prima “causando la morte ad un valoroso testimone di giustizia – conclude Sonia Alfano – poi infangandone la memoria e accusandolo, quindici anni dopo, di essere stato complice di quella rapina”.
per saperne di più
dal sito www.ritaatria.it”
E’ una storia di tanto tempo fa ma che riguarda più che mai l’importanza della memoria e l’esigenza di fare chiarezza perché la giustizia in questo caso rischia per l’ennesima volta di commettere un errore le cui uniche conseguenze ricadranno su una famiglia già colpita dal dolore.
Il 9 febbraio ci è arrivata una email da Donatella Aloisi:
“Mio padre nel 1979 prestava servizio come guardia particolare giurata presso un istituto di vigilanza di Messina .
Il 3 settembre 1979 ,mentre era regolarmente di servizio, è stato vittima di una rapina presso i caselli dell’autostrada Messina/Palermo; gli fu rubata la pistola e la rapina fu portata a segno. Successivamente, mio padre riconobbe uno dei rapinatori ” un attuale collaboratore di giustizia e per anni appartenente ad uno dei principali clan mafiosi della mia città.
Per la testimonianza resa da mio padre questo SIGNORE fu condannato ed arrestato, ma già durante il riconoscimento in presenza del magistrato, minacciò mio padre di morte. Scontata la pena, a distanza di qualche anno, questa persona ha portato a compimento la sua vendetta uccidendo mio padre mentre, insieme a me,(che all’epoca avevo quattordici anni) uscivamo dallo stadio e ci stavamo recando verso casa. Tutto ciò è stato confermato dalle dichiarazioni di 3 collaboratori di giustizia che hanno specificato tempi, modalità e quant’altro potesse essere utile alle indagini.
Fino ad oggi non è mai stato riconosciuto il sacrificio di mio padre che ha pagato con la vita la sua collaborazione con la giustizia.”
Donatella Aolisi
per vedere le interviste a Donatella:
http://www.omniapress.net/news.asp?id=1368
Intervista/Video Corriere della Sera
Dopo quella email ci siamo incontrati con Donatella e Angelo (il marito), hanno portato tutto il fascicolo dei due processi e ovviamente le sentenze.
Ovviamente non pubblichiamo tutti gli atti ma solo le due sentenze per noi più che sufficienti per affermare che le conclusioni della seconda sentenza (quella che mette il dubbio sul’onesta di Ignazio Aloisi senza nessun tipo di riscontro se non la “parola” di un collaboratore dal curriculum ben noto) ci spingono a pensare che la giustizia ha commesso una grave ingiustizia..
Nomi e fatti (si consiglia di salvare il file):
Mi Manda RAI 3: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-f4f5da50-6594-4a66-9837-f7f27d55eefe.html?p=0
La Prescrizione reato di diffamazione contro Castorina Pasquale:
IL NUOVO CASO SCONOSCIUTO
Il “nostro” sito Rita Atria mi segnala il “nuovo caso sconosciuto” e mi chiede se mi va di scrivere due righe.
Due?
Mi verrebbe da urlarne qualche migliaio, di parole (unitamente a qualche parolaccia), dopo aver visto l’intervista a Donatella, la figlia di Ignazio Aloisi, e dopo aver letto attentamente le sentenze, in specie quella d’appello. Cercherò di contenermi.
Le sentenze, in un Paese democratico, vanno certamente applicate e rispettate, ma non per questo viene meno il nostro diritto costituzionale di libera espressione critica del nostro pensiero. Anche sul loro contenuto e sulle argomentazioni delle motivazioni.
La cosa più sconcertante di questa vicenda è che si sia data al povero Ignazio Aloisi, nella sentenza di appello, una specie di etichetta ed una patente “quasi certificata” – quasi solo perché appena abbozzata nelle motivazioni della sentenza di appello – di “basista avido ed insoddisfatto di un crimine e di complice e traditore infame” degli autori di una rapina. Uomini che egli stesso aveva contribuito a far condannare, riconoscendoli prima e confermandone il riconoscimento in dibattimento.
È una vicenda strana ed ambigua, quella che emerge da una sentenza di appello in cui gli imputati confessano il crimine dell’omicidio di Aloisi e le circostanze ignobili in cui esso si è consumato (di fronte alla figlia tredicenne, di cui pochi potrebbero intuire più di me il terrore devastante e l’incancellabile dramma della scena che si è consumata davanti ai suoi occhi e tatuata nella sua vita), ma in cui i particolari ed i moventi confessati dai colpevoli appaiono utili solo a certificare (secondo il Magistrato) “un certo ravvedimento” mentre non consentono una riduzione superiore a 4 anni (insignificanti) della durissima pena comminata in primo grado (la riduzione infatti va dai 26 anni comminati in primo grado ai 22 dell’appello).
Dunque il Magistrato vorrebbe dirci di essere arrivato al “libero convincimento” che quell’omicidio, consumato e confessato confermando tutta la mole dei particolari rivelati dai collaboratori di Giustizia dissociati dalla propria storia di collusione organica al crimine organizzato (e dalla verifica e riscontro delle cui sole dichiarazioni era stato possibile risolvere il delitto Aloisi, diversamente indecifrabile nei mandanti, negli esecutori e nei moventi), potrebbe avere una sua qualche “maggiore dignità”, diversa dalla mera vendetta contro il testimone ed accusatore degli imputati, per una loro precedente ed “antica” rapina. Tale omicidio sarebbe stato suggerito infatti dall’astio per l’Aloisi il quale sarebbe stato inizialmente il basista del colpo e dunque complice corresponsabile della rapina, per poi vendicarsi dei criminali, lui – rivelando e confermando in processo la identità degli esecutori –, essendo rimasto insoddisfatto del livello della refurtiva rivelatosi inferiore alle attese e dunque insoddisfacente per l’Aloisi stesso.
Ci chiediamo che cosa avrebbe dovuto e potuto indurre Aloisi ad esercitare quella attiva testimonianza di giustizia nel riconoscere gli esecutori della rapina, a confermarla poi in dibattimento, se solo avesse potuto temere di essere rivelato – a quel punto – quale complice e basista della operazione criminale. Quale vantaggio potrebbe essergli venuto da una testimonianza per la quale già ricevette forti pressioni (oggi confermate dagli stessi assassini) al fine di ritrattare, e pesanti minacce di morte (successivamente portate a compimento con tragica puntualità) durante il dibattimento? E perché la rivelazione della presunta complicità di Aloisi nella rapina non venne allora fatta in quel processo, dove ben difficilmente una simile “confessione” avrebbe potuto determinare una condanna superiore a quella di otto anni poi comminata dalla corte?
Si potrà dire che nel “mondo degli uomini d’onore” certe cose non si fanno, la vendetta è un piatto che si mangia freddo. Ma se ciò vale, vale sempre. E diviene difficile farci credere che per lucrare oggi quattro anni di sconto di pena su ventisei, l’onore mafioso possa essere sceso così in basso da confessare una complicità nel crimine a 16 anni dalla sua consumazione e senza reali interessi da poter lucrare con simili dichiarazioni.
Si direbbe piuttosto trattarsi di un messaggio di “stampo mafioso” ai distratti spettatori della nostra quotidianità, che siamo tutti noi cittadini. Affinché tutti sappiano che la Mafia non solo ti uccide, se tu osi ostacolarla, ma sa anche distruggere la tua reputazione. E, per quanto siamo stati educati ad essere distratti di fronte all’agire criminale che pervade società ed istituzioni, certi messaggi state pur certi che arrivano alle orecchie ed alla sensibilità di ciascuno di noi.
Il Magistrato ritiene invece attendibile la rivelazione di complicità dell’Aloisi nella rapina perché, afferma, non pare esservi dubbio che Aloisi ed il suo assassino si conoscessero per essere cresciuti ed abitare nei medesimi quartieri urbani. E lascia cadere senza risposte il successivo interrogativo che egli stesso va a porsi, e cioè del perché – stante questa “sicura conoscenza” – Aloisi non abbia al tempo prontamente indicato, con le sue generalità, la persona del criminale che eseguì la rapina al furgone blindato. Questa supposizione confermerebbe dunque la credibilità delle rivelazioni dei colpevoli dell’omicidio da cui essi possono lucrare solo 4 anni di decurtazione della pena!
Sorprende che il Magistrato non si chieda come mai le pur circostanziate e riscontrate rivelazioni dei collaboratori di Giustizia fondamentali all’accertamento di responsabilità dell’omicidio di Ignazio Aloisi, non avessero mai posto il problema della presunta complicità tradita dell’Aloisi, e come fosse possibile che i colpevoli oggi reiconfessi dell’omicidio, nel rivelare ai con-detenuti la loro sorda volontà di vendetta per i comportamenti dell’Aloisi non avessero mai ritenuto di riferire della sua tradita complicità e della sua funzione di basista della rapina, ma solo della sua natura di testimone non corruttibile.
È sempre possibile, certo, che esistano deviazioni anche tra i tutori dell’ordine e della sicurezza, e dunque perché no anche fra le Guardie Giurate, per vari motivi, tra cui la avidità è certamente il più determinante. Ma in questi casi esistono modi e logiche di comportamento, nel delinquere, che nel caso Aloisi appaiono tutti disattesi e rendono inspiegabili i suoi comportamenti, se davvero fosse stato basista e complice della rapina. Perché la avidità mal si concilia con la pura e semplice denuncia di responsabilità in un crimine, con il puro e semplice riconoscimento dell’esecutore, e soprattutto con il rischio che tali rivelazioni comportano. Rischio di essere svelato nella propria correità, rischio di essere esposto a feroci ritorsioni.
Quando, come Aloisi, si accetta consapevolmente il solo rischio della ritorsione (consumata freddamente ad anni di distanza e per quella protervia criminale che la sentenza di primo grado illustrava mirabilmente, pur traendone purtroppo solo motivo per escludere incomprensibilmente la premeditazione – e cioè la volontà di distruggere la vita di un uomo sotto gli occhi della propria figlia, essendo l’omicida stato costretto dalla vittima a subire una lunga detenzione e trovandosi a sua volta con un figlio non in salute come la figlia della vittima, ma costretto su una sedia a rotelle ) ci chiediamo se il semplice e libero parere di un Magistrato non suffragato da riscontri probatori possa costituire prova. In base ai dati oggettivi, suffragati da prova per noi, Ignazio Aloisi è stato solo un onesto ed esemplare Cittadino, ucciso per la sua cosciente e consapevole partecipazione ad una testimonianza di Giustizia. Abbandonato, come usa in questi casi, dallo Stato che si carica di etica solo nella celebrazione retorica dei suoi servitori morti a causa di Giustizia
Alla figlia di Aloisi vorremmo solo dire che il suo bellissimo sorriso è il segno della onestà e del senso vero della vita che le è stato trasmesso dal suo papà. La vita è sempre più forte della morte e dei suoi gabellieri, e anche solo il mostrare a costoro che, nonostante l’imperversare della loro violenza, la vita degli onesti continua nei loro figli e sa dischiudersi al sorriso ed alla gioia, è la più schiacciante condanna senza appello per ogni forma di mistificazione della Verità e di cancellazione della Giustizia.
Cerca di essere sempre forte e piena di vita, cara Donatella, e guarda negli occhi e con la schiena dritta quanti tentano di infangar la memoria di tuo padre. È nella tua vita personale e familiare che ci sarà la risposta ad ogni infamia. In fin dei conti il crimine ha un grave limite: quando ha toccato le corde più intime delle sue vittime, quando ha tolto loro ciò che avevano di più caro e non fosse riuscito a domarle è costretto a prendere atto di aver costruito esso stesso il suo più terribile avversario, quell’imbattibile moloch che lo respingerà nelle tenebre da cui era emerso. Sarà la Mafia con tutti i suoi complici sociali ed istituzionali, in ultima sintesi, ad uccidere se stessa perché costruirà essa stessa i suoi irriducibili anticorpi.
Mario Ciancarella per l’Associazione Antimafia “Rita Atria”
articolo Narcomafie Ottobre 2008