CULTURA E TERRITORIO – Alla ricerca di Solusapre
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CULTURA E TERRITORIO – Alla ricerca di Solusapre

Uno studio di Michele Manfredi-Gigliotti

 

Non sono certamente pochi gli studiosi  di storia patria che hanno soffermato la loro attenzione sul toponimo Solusapre e che hanno ritenuto, di primo acchito, che esso si riferisse ad una città scomparsa della Sicilia, anche se non si hanno elementi per  potere affermare di quale epoca fosse, di quale consistenza demografica, a quale etnia appartenesse, di quale storia fosse stata protagonista e, infine, elemento necessario e imprescindibile per la sua apprensione conoscitiva, quale fosse la sua effettiva appostazione topografica.

Come si vede, ci si trova di fronte ad un vero e proprio fantasma del passato, una sorta di ectoplasma  storico  (anche se non si può categoricamente escludere che esso abbia  soltanto una semplice natura mitologica, in quanto si basa su una singolare tradizione documentaria che non ha avuto, finora, alcun riscontro oggettivo), di cui si è appresa l’esistenza perché è stato ricordato, solamente sotto un  mero aspetto onomastico e, inoltre, solo da alcune isolate fonti documentarie, mentre la maggioranza di quelle storicamente accreditate dimostra di sconoscerlo, come illustreremo di seguito.

Ciò su cui la maggioranza degli studiosi sembra avere raggiunto una opinione condivisa, fatta salva qualche singolare eccezione,  é costituito dal fatto che si ritiene che il toponimo si rapporti, a guisa di una specie di parentela, con Caronia, antica città della Sicilia, oggi appartenente alla città metropolitana  di Messina.

Come abbiamo sopra accennato, le fonti letterarie, le quali ci hanno tramandato il toponimo  in modo assolutamente laconico, si possono enumerare impegnando solo due dita della mano.

La prima di tali fonti è costituita dall’Itinerarium provinciarum Antonini Augusti, sezione prima, così titolato in quanto la sua compilazione è generalmente attribuita all’imperatore Antonino Augusto, meglio conosciuto come Antonino Caracalla  (sec. III)  o ad  altro personaggio appartenente alla medesima famiglia degli Antonini. Sono in molti, però, gli studiosi che pensano che la redazione della raccolta di questi itinerari, guidata dai quali viaggiò la stragrande maggioranza del mondo antico romano  (nella sopra richiamata  prima sezione sono ricompresi quelli terrestri, mentre la seconda sezione si occupa di quelli  marittimi), sia opera di più autori sconosciuti che hanno operato tra il IV e il V secolo d. C., assemblando singoli materiali provenienti da epoche precedenti.

La seconda fonte è costituita dalla Divalis sacra ad donum PPdirecta, comunemente attribuita a Giustiniano che l’avrebbe scritta nel 538 d. C., all’indomani, cioè,  della conquista della Sicilia da parte dei Bizantini, con l’evidente finalità di ribadire, confermandone in tal modo il contenuto, la donazione elargita al fondatore dell’Ordine monastico dei Benedettini, da parte di Tertullio, appartenente ad una famiglia patrizia romana di rango consolare e padre di San Placido. Sembrerebbe, a prima vista, che l’autore del documento avesse lo scopo di preservare determinati  beni immobili, che vengono enumerati e  descritti nella Divalis, da eventuali appropriazioni indebite da parte dei nuovi conquistatori venuti dall’oriente, oppure di appropriarsi (cosa che costituisce l’altra, necessaria faccia del problema), approfittando della confusione del momento, dei beni immobili nominati nel documento, tramite la creazione fittizia di un titolo di proprietà.

La notizia che precede denuncia  ex se  tutta la sua singolare eccezionalità. Infatti, di tutti gli storici, geografi, letterati nonché compilatori  di planimetrie geo-topografiche e cartografi dell’antichità che si sono occupati della Sicilia, solo due fonti documentarie (di cui una, precisamente la seconda, in forte odore di apocrificità) riportano  onomasticamente il toponimo in rassegna senza alcun corredo di note esplicative di qualsiasi natura.

Occorre precisare subito che la fonte originaria, primaria sotto il profilo cronologico, è costituita dall’ Itinerario dal quale riteniamo, con il supporto di molta e fondata probabilità storica, che la Divalis abbia tratto e riportato la notizia in modo pedissequo e acritico.

L’Itinerario menziona il toponimo una volta soltanto, quando inserisce nella elencazione delle distanze tra i vari centri urbani della regione, la distanza intercorrente tra Solusapre e Caronia. Così si apprende che Solusapre è situata a circa nove m.p. (la distanza miliare, nella misurazione chilometrica odierna, corrisponderebbe  a poco più di tredici chilometri, avendo la misura itineraria romana il valore di 1481 metri)  dal centro conosciuto più vicino che, all’epoca, era denominata  Calacte (kale=bella; akte=spiaggia), la città fondata da Ducezio, re dei Siculi, nell’anno 447 a. C., ai nostri giorni identificabile con Caronia (quest’ultima, attuale denominazione, proveniente dalla lingua greca, é composita, essendo formata da cairws=casa  e neos=nuovo e, quindi, nuova casa). Si ricorda, in proposito, che i tempi della fondazione di Caronia montana sono quelli delle scorrerie dei legni barbareschi, quando le popolazioni costiere dell’Isola, a salvaguardia della loro incolumità, erano costrette a ritirarsi sui monti abbandonando gli insediamenti marini. E’ necessario attendere il periodo   postunitario, per assistere al fenomeno demografico inverso, ovverosia l’abbandono delle antropizzazioni montane e il ritorno alle marine, determinato dalla insorgenza di molteplici fenomeni dipendenti principalmente dall’economia e dal lavoro: i pericoli connessi alla pirateria erano diventati ormai un ricordo lontano.

Caronia, annoverata tra le città marittime (paraqalattioi poleis) dell’Isola, era, ai tempi del nostro riferimento storico, solo Calacte, non esistendo ancora il centro montano.

In altro luogo letterario, abbiamo concluso, sempre sul piano ipotetico, che il toponimo, considerata l’eccezionale vicinanza al centro abitato, dovesse trovarsi allocato nell’ambito di esercizio della giurisdizione di Calacte  o, quanto meno, entro i limiti del suo contado geografico (cwra): solo in questo modo si può superare l’ostacolo rappresentato dall’assoluto silenzio delle altre fonti letterarie, altrimenti inspiegabile. Infatti, se si ipotizza che l’esistenza di Solusapre sia stata (ritenendola, quindi, più che una Città [polis], soltanto una Terra [cwra] di una città e, precisamente della città di Calacte), semplicemente complementare e deutragonistica rispetto al nucleo urbano capofila, solo così si può giustificare il silenzio storico, essendo logico e naturale che il toponimo abbia necessariamente condiviso origine, vicende politiche e storiche con il nucleo-madre.

L’ipotesi sembra vieppiù supportata dalla considerazione secondo la quale la dichiarata distanza di Solusapre dallo storico centro abitato di Calacte è da considerare anch’essa nella sua eccezionalità in quanto misura, come già detto, soltanto 9 m.p.

Era, infatti, considerata prassi inderogabile da parte del mondo dei Romani l’osservanza della norma regolatrice degli intervalli interurbani e, in genere, di quelli itinerari: le mansiones, le stationes, le mutationes  venivano poste, soprattutto quando esse erano servite da una via pubblica (e, per la loro stessa natura, dovevano esserlo quasi sempre), ad una distanza mediamente di venticinque miglia romane (m. 37.025), una dall’altra. La ragione di tale scelta pressoché inderogabile si fondava sulla circostanza che tale distanza rappresentava, per i tempi ai quali ci riferiamo, la distanza normalmente percorribile con una giornata di cavalcatura. I Romani, come si sa, erano restii, tranne casi di estrema necessità o forza maggiore, a viaggiare di notte e ciò per motivazioni facilmente intuibili con riferimento alla incolumità e alla  sicurezza personali, in quanto non tutti potevano permettersi, per motivi di censo dai quali dipendevano i loro status economici, i viaggi notturni.

Per potere viaggiare nottetempo era indispensabile essere un dominus in grado di potersi permettere la presenza di una scorta e dell’altrettanto indispensabile servus prelucens, al quale ultimo veniva delegato il compito di precedere, correndo e tenendo in mano una fiaccola, la cavalcatura o la lettiga del padrone con la funzione di illuminare il percorso stradale.

Agglomerati urbani così contigui come Calacte e Solusapre, o erano alleati, o finivano, per interessi concorrenziali, con lo scontrarsi, rilevando che sotto quest’ultimo profilo non possediamo alcuna notizia storica.

L’eccezionale, minima distanza tra Calacte e Solusapre induce a propendere per ritenere quest’ultimo toponimo un contado della città, sebbene, anche così, permane senza una logica soluzione, l’enigma secondo cui non si riesce a spiegare per quale motivo l’Itinerarium introduce, nella lunga teoria di toponimi urbani della costa settentrionale della Sicilia, uno che non rappresenterebbe una città, ma semplicemente una terra.

Calacte, così come si verifica  anche ai giorni nostri, comprendeva un vasto territorio pertinenziale, delimitato, ad ovest, da quello di Halesa Arconidea (Tusa) e ad est da quello di Apollonia (San Fratello) e rappresentava uno degli sbocchi sul mare Tirreno (c.d. caricatoi, tra i quali importantissimo era quello di Tusa) della via del grano proveniente dall’interno dell’Isola, principalmente dalle zone di  Engion  (Engio: l’identificazione del centro urbano è conteso tra Gangi e Troina) e Herbita (Herbita, da identificarsi con  altissima probabilità con il centro di Nicosia).

Malgrado l’opinione contraria di Biagio Pace (Arte e civiltà della Sicilia antica, Milano 1935), l’osservanza della canonica distanza di circa venticinque miglia è confermata da quanto può ricavarsi anche dall’ opera di ‘Al-Sharif’ al-Idrisi‘Al kitàb ‘al-Rudjari  (Il libro di Ruggero), il quale annota come  una giornata di cavallo fosse sufficiente per coprire normalmente la distanza da Palermo a Termini; parimenti era necessaria una giornata da Termini a Cefalù, da Cefalù a Tusa, da Tusa a Caronia,  da Caronia a Naso, da Naso a Milazzo e un’ altra giornata da Milazzo a Messina. Concludendo, per coprire il percorso da Palermo a Messina, tramite la Via Marine, occorrevano, secondo al-Idrisi, sette giorni.

Niente altro è dato conoscere riguardo a Solusapre, perché nessun altro autore antico ne ha mai scritto.

Tra gli autori moderni, ricordiamo  come Vincenzo Sardo-Infirri (Vagando per il Valdemone, Toponimi, Tradizioni, Scomparse Geografie, 1994)  dedichi al toponimo pochissime righe, del tutto insufficienti per diradare i dubbi che permangono. Egli, infatti, scrivendo di Agatirno,  nomina Solusapre:

Agatirno, città dei Siculi…doveva essere un grosso insediamento di quelle popolazioni un po’ ribelli a Roma, che vi istituì una guarnigione di soldati, per cui la troviamo segnata sugli itinerari militari romani a circa 42 chilometri da Tindari ed a 31 da Solusapre, una antica città scomparsa di incerta ubicazione, la quale, secondo quanto a me sembra probabile e della quale parlerò in seguito, sorgeva alla Croce Divina presso Tortorici”.

Come si può constatare le notizie tràdite da  Sardo-Infirri, le quali contraddicono in modo sostanziale, addirittura stravolgendoli, i valori miliari espressi nell’Itinerario, non sono altro che punti di vista personalissimi, che esorbitano addirittura dall’area delle ipotesi riferibili ad elementi fondatamente seri, al punto che viene omessa l’indicazione della fonte nominativa dalla quale la distanza riferita è stata tratta  e, al posto dell’evidente omissione, non si fa altro che effettuare semplicemente un riferimento a generici itinerari militari  romani.

Un altro studioso dell’età moderna, Pietro Fiore (Ducezio-Calacta-Caronia, Venticinque secoli di storia,1994) si è occupato più volte del problema. Egli, oltre a sostenere la tesi dell’autenticità e fondatezza della notizia tràdita dall’Itinerario, afferma che il toponimo si riferisca ad una città, a proposito della quale aggiunge che doveva trattarsi non di una città costiera, ma situata a sud di Caronia, nell’immediato suo entroterra, che egli crede di avere individuato  nel modo come vedremo da qui a poco.

La ragione di tale convinzione risiede in una circostanza che il Fiore ha tratto dallo studio dell’Itinerario.

Quando l’Itinerario, infatti, elenca le distanze tra le varie città della Sicilia settentrionale, scrivendo di Calacte, per prima riferisce la distanza intercorrente tra questa città e Agatirno (Capo d’Orlando), indicandola in venti m.p. e, solo successivamente, riprendendo, quindi, il toponimo di Calacte, indica la distanza tra quest’ultima e Solusapre che è, come è stato detto sopra, di nove m.p.

La circostanza secondo cui Solusapre viene nominata dopo Agatirno, pur non essendo successiva a quest’ultimo, rappresenta, secondo il Fiore, la prova provata che Solusapre non fosse ubicata nell’intervallo topografico e, quindi, in posizione intermedia  tra Calacte e Agatirno, ma al di fuori di esso e, conseguentemente, non sulla costa tirrenica. Come  ulteriore conseguenza, il Fiore riteneva che Solusapre non fosse raggiunta dalla via Valeria-Pompeia che invece, congiungeva Calacte ad Agatirno.

Tale convincimento induce il Fiore a ritenere che la città di Calacte fosse collegata a Solusapre da una viabilità locale e, dunque, secondaria, diversa dalla nominata e importante via Valeria-Pompeia. Più precisamente, l’autore ritiene che Solusapre si trovasse sulla strada per Capizzi (Capitium) e si potesse raggiungere attraverso un diverticulum (diramazione viaria) che fungeva quale emissario della via Valeria-Pompeia. Se fosse stata una città costiera, conclude il Fiore, l’Itinerario ne avrebbe fatto cenno prima di Agatirno  e, anziché riportare la distanza tra Calacte e Agatirno, avrebbe dovuto riportare quella tra Calacte e Solusapre e, conseguentemente, l’altra tra Solusapre e Agatirno.

Anche se viene ribadito che la prospettazione testé enunciata altro non è che una mera ipotesi,  il Fiore ritiene di avere individuato il sito di tale città, la quale viene da lui collocata, in un primo tempo, al Piano della Chiesa  e, successivamente,  al Piano Ciaramiraro nell’ex feudo Saraceno, località entrambe situate nell’ambito del  territorio di Caronia.

Quest’ultimo sito sarebbe ancora di più confermato, sostiene sempre il Fiore,  dalla circostanza che la distanza tra Caronia Marina e il Piano Ciaramiraro è di sette chilometri  che è, grosso modo, sostiene ancora, la distanza indicata dall’Itinerario: il che, però, come appare di tutta evidenza, non è coincidente, ma contraddice la distanza riportata nell’Itinerario che è di 9 m. p. (metri 13.329), mentre la distanza indicata dal Fiore in sette chilometri (metri settemila) finisce con il sottrarre ben sei chilometri a quella dichiarata nell’Itinerario.

Per quanto ci riguarda, la tesi del Fiore non appare condivisibile, non solo per le distanze itinerarie che sono ingiustificate, ma, soprattutto, in quanto è proprio la premessa che risulta essere indimostrata e cioè che Solusapre fosse effettivamente una Città e non già una Terra. A tale proposito,  precisiamo che l’onere probatorio per sostenere la natura cittadina è molto più impegnativo e specifico di quello che comporta l’affermazione che si tratti solo di una Terra.

Il dubbio che Solusapre sia veramente una città sorge legittimo, in quanto nessun altro autore, come si diceva, ne parla, non solo qualificandola come città, ma neppure quale semplice toponimo. Ora, che alla distanza di nove m.p. da Calacte sorgesse un’altra città e che nessuno degli autori che si sono interessati delle cose di Sicilia, e tra di essi moltissimi geografi, ne abbia mai, dico mai, parlato e scritto, appare molto improbabile. Del resto anche l’unica fonte sinora trattata, l’Itinerarium Antonini, non ne parla in modo esplicito come città. Ciò stesso ci induce a ritenere quanto meno azzardato il sostenere che di città si tratti, senza che tale affermazione sia supportata da alcuna minima testimonianza, storico-letteraria o archeologica che possa seriamente riscontrarla.

Per quanto attiene, poi, alle altre fonti che si occupano di distanze itinerarie esse dimostrano di sconoscere del tutto il toponimo o, rectius, non vi fanno alcun cenno.

Così, la Tabula Peutingeriana non elenca il toponimo, rappresentando sul punto geografico in argomento, la seguente teoria sequenziale: Cephaledo, Halesa, Agatirno, Tindareo.

Altrettanto dicasi per l’ Anonimo di Ravenna, il quale, nella sua Cosmografia,   percorre l’itinerario con direzione inversa (ossia, partendo da Tindari, fa susseguire l’elenco in direzione di Palermo) e non solo non include nelle tappe miliarie il toponimo di Solusapre, quanto nell’elencazione corrompe quasi tutti i toponimi riportati: Tindareon, Agathinon, Calao (Calacte), Alesa, Capaiolo (Cephaledo).

Anche in Guido da Pisa, che incorre nella medesima deformazione testuale, è dato rinvenire questa sequenza: Acatinon, Colan, Abesa, Kephaludin, al posto di Agatirno, Calacte, Alesa, Cephaledo.

Solusapre non è nominata.

E continua a non essere nominata in autori quali Stefano Bizantino, Gregorio di Cipro, ‘Al-Sharif’ al-Idrisi, Ptolomeus.

Possibile che solo l’autore dell’Itinerarium avesse una vista geo-topografica così acuta  e che tutti gli altri fossero degli ipovedenti?

Lascia alquanto perplessi, poi, che nessun avvenimento storico sia riconducibile a tale presunto nucleo urbano, che non appare in nessuna delle nomenclature politico-amministrative di Roma, sicché si sconosce, ad esempio,  che tipo di rapporti avesse con la capitale e che tipo di tributi fosse tenuto a corrispondere, tranne che non si voglia, per questo, presumere che fosse da annoverare tra le civitates liberae et immunes. Ipotesi, quest’ultima, del tutto  illogica, e per questo da scartare, in quanto, se la sostenessimo, dovremmo concludere che Solusapre avesse una importanza politico-amministrativa molto più autorevole e importante di quella goduta dalla confinante Calacte.

La seconda (e, anche, conclusiva) fonte letteraria che cita il toponimo è rappresentata dalla Divalis sacra, costituzione dell’imperatore Giustiniano del 538 d. C., che sarebbe il titolo giuridico in base al quale il Monastero benedettino di Montecassino ebbe in passato a vantare molteplici e svariati diritti e pretese su vasti cespiti immobiliari siti in Sicilia. Tra gli innumerevoli titoli vantati, il Monastero annoverava un documento, fondantesi sulla predetta costituzione Divalis, per mezzo del quale esso riteneva di essere abilitato a esercitare un diritto potestativo su Solusapre.

Ora, è appena il caso di evidenziare come, non solo il testo giustinianeo non possegga  alcun valore storico-giuridico nel confermare le donazioni ottriate ai monaci dal patrizio romano Tertullio,  quanto gli stessi documenti del Monastero, in base ai quali Tertullio avrebbe ad esso donati vasti possedimenti in Sicilia, risultino essere dei falsi storici per essere stati palesemente contraffatti allo scopo di giustificare certe pretese, assolutamente infondate della Chiesa di Roma, su effimeri beni terreni.

Posta nei termini che precedono, la vicenda ci porta, necessariamente, a rievocarne altra analoga che vide coinvolta sempre la Chiesa di Roma, e ciò sino ai tempi del Risorgimento italiano (si rammenta l’ incidente diplomatico di Porta Pia), e inconsapevolmente anche Costantino, imperatore e santo.

Ci riferiamo, ovviamente, alla cosiddetta  Donazione di Costantino (Constitutum Constantini del IX secolo), documento riproducente  un editto palesemente apocrifo,  tramite il quale Costantino I  avrebbe attribuito su vasti territori alcune concessioni  ritenute la base giuridica giustificatrice e fondante il potere temporale della Chiesa.

Sulle apocrificità e falsità del documento non residua, oramai, alcun dubbio da quando Lorenzo Valla, nell’anno 1440, dimostrò, con metodo filologicamente ineccepibile, che il latino, tramite il quale il documento linguisticamente si esprime, é antipodicamente dissimile e, quindi, non riconducibile, alla lingua  che si parlava nel IV secolo.

Ritornando alla Divalis, si osserva e ribadisce che essa non può produrre alcun effetto giuridico, limitandosi a riportare letterariamente (senza, quindi, alcun imprimatur di nessuna natura, che possa attribuirgli la necessaria  sacralità del principio di conformità all’originale), una semplice e generica volontà concessoria.  In ogni caso, il testo della Divalis presenta contraffazioni talmente evidenti, che si colgono ictu oculi, al punto che anche i nominati beneficiari del presunto atto di liberalità hanno ritenuto più opportuno abbandonare ogni tentativo di attuarlo.

Viene meno, così, la serietà e conseguente credibilità di tale fonte letteraria alla quale si fa risalire l’esistenza stessa del toponimo.

Abbiamo affermato supra che le fonti che ci hanno tramandato il toponimo sono due. Per quanto ci riguarda e, dopo un esame attento dell’intera vicenda, ci sentiamo nella condizione di avanzare una ipotesi, la quale ha il solo torto di essere una ipotesi che, però, rispetto alla fondatezza dei due ultimi documenti esaminati, ha perlomeno il vantaggio di non essere un falso: potrà essere, solo, contraddetta.

Riteniamo, cioè, che, il punto letterario, nel quale la Divalis inserisce il toponimo di Solusapre, altro non sia se non una copiatura, riportata, sic et simpliciter, senza alcuna attenzione critica, del toponimo stesso estratto  dall’Itinerario: essa, infatti, nella sua laconicità, nulla aggiunge a quel pochissimo contenuto nell’Itinerario che possa far pensare ad una conoscenza, originale ed autonoma, del toponimo medesimo.

L’ipotesi così avanzata  con attinenza al secondo documento esaminato, la Divalis, ci  costringe a porre sul tappeto un ulteriore problema consistente negli interrogativi che seguono:

In che modo è stato possibile individuare, di fatto, i beni immobili ritenuti oggetto della falsa donazione sconoscendone la loro reale ubicazione?

Quale era, nella sostanza e praticamente, il bene sottostante al toponimo nel riferimento dell’atto di liberalità?

La risposta che ci siamo dati ha natura biforcuta così come le domande e cioé:

a) La rivendica dei beni, oggetto della presunta donazione, è avvenuta a livello generico e cartaceo senza alcun riferimento geo-topografico;

b) Dopo avere escluso l’ipotesi che entrambe le fonti, Itinerario e Divalis, abbiano potuto inventare di sana pianta il toponimo, confermando, quindi, che esso sia realmente esistito sub specie di Terra (non sembra praticabile ritenere possibile la donazione di una Città), è molto probabile, nonché verosimile, che la denominazione del toponimo sia stata dagli interessati appresa in loco, cioè dagli stessi indigeni, quale demotica toponimia: ipotesi, quest’ultima, che potrebbe spiegare, anche, l’origine della menzione effettuata dall’Itinerario stesso.

E’ stata, anche, avanzata l’ipotesi secondo cui il termine  toponomastico sarebbe di origine fenicia, ma a supporto di tale tesi, non solo non esistono riscontri di tipo semantico o di alcun altro genere, quanto essa è palesemente contrastata dal dato oggettivo in base al quale la colonizzazione fenicia, come fenomeno programmaticamente colonizzatore, non abbia riguardato le coste settentrionali della Sicilia con la deduzione di importanti insediamenti antropici come, al contrario, è avvenuto per le coste meridionali.

Comunque sia e volendo dare certezza  all’esistenza originale del toponimo così come attestato dall’Itinerario, nulla prova, si ribadisce ancora una volta, che si tratti di una città. Se il toponimo è autentico (nel senso che non si tratti di un nome di fantasia, ma di qualcosa di reale, la cui esistenza fosse nota solo a determinate persone, tra le quali l’autore  dell’Itinerario), riteniamo che sia più credibile e fondata l’ipotesi che la toponimia si riferisca, non già ad una città, ma ad una Terra del contado calactino.

Interpretata nella maniera che precede, la lezione dell’Itinerario diventa più comprensibile, spiegando come mai esso, elencando gli insediamenti antropici della costa settentrionale della Sicilia, sia proceduto per saltus nel tratto Calacte-Agatirno, dichiarando prima la distanza tra Calacte e Agatirno e, poi, quella tra Calacte e Solusapre. Non, dunque, a motivo che Solusapre, fosse ubicata  lontano dalla via Valeria-Pompeia, ma semplicemente perché non era una città, ma una Terra di Calacte, meritevole di essere menzionata, secondo il giudizio di solo due autori, per qualche motivo non dichiarato, ma intuibile e certamente riferibile alla sua importanza proprio perché ubicata in prossimità della principale arteria viaria costiera costruita da Roma per congiungere lo Stretto (Fretum) a Marsala (Lylibeum). E’ consequenziale, poi, che per raggiungere Solusapre il viaggiatore dovesse usare un diverticulum di viabilità locale.

In un nostro precedente lavoro (Dizionarietto di alcuni toponimi del Valdemone) avevamo ipotizzato che Solusapre  si potesse identificare con l’odierna Torre del Lauro, come, del resto, sostengono in  parecchi, tra cui appare doveroso ricordare Adolf  Holm (Storia della Sicilia nell’antichità) e Pierre Olivier Lapie (Obis romanus ad illustranda itineraria Antonini Tabulam Peutingerianam periplos itineraria maritima).

Sarebbe sufficiente pensare  all’importanza turistica avuta e ancora oggi presente sul territorio di Caronia, di  Torre del Lauro, per comprendere l’evocazione del toponimo ad opera dell’Itinerario. Se noi arricchissimo tale pensiero con un minimo di fantasia e immaginassimo che, al posto dell’odierno Hotel Globus, in epoca storica, poteva trovarsi allocata una mansio, una statio oppure una  mutatio  (non certo nella medesima posizione dell’albergo, in quanto  il mare aveva sull’intera costa una penetrazione maggiore di quella odierna), potremmo dare un senso più fondato all’intera ipotesi.

Se è vero che la storia, come afferma G. B. Vico, è fatta di corsi e ricorsi, non vi è niente di  nuovo sotto il sole che non sia già accaduto migliaia di anni or sono.

Se, dunque, Solusapre è una Terra, si potrebbe spiegare, altresì, come mai nessun altro ebbe a scriverne e, ancora, come mai nessun particolare avvenimento e nessun momento storico siano ad essa legati.

L’ipotesi avanzata (e ribadiamo che si tratta di ipotesi, essendo troppi i  “se”  e  i  “ma” per potere parlare di dati consacrati dalla storia) sembra ulteriormente supportata da quello che riteniamo essere l’etimo del toponimo attorno al quale si discorre.

Solusapre denuncia una semantica di chiara derivazione latina, che si basa sulla combinazione di due termini,  “solus”  e  “apre”. Da tale chirurgia etimologica si ricava la natura composita  del nome che può essere radiografata nel modo che segue:  solus deriva da solum/soli ed ha il significato di Terra, mentre apre proviene da aper/apri e si traduce con Cinghiale. Si tratta, quindi, di un termine complesso di natura zootoponimica, come tanti altri se ne contano nell’ Isola, anche se, come puntualmente  osserva  Michele Fasolo (Tyndaris e il suo territorio, vol. 1, 2013), gli zootoponimi risultano essere, complessivamente, in numero inferiore rispetto, ad esempio, agli agiotoponimi, fitotoponimi, antroponimi, idronimi.

Se l’operazione etimologica è corretta, sarebbe veramente anacronistico che si fosse denominato un insediamento urbano come Terra del Cinghiale, nella quasi totale assenza, per giunta, di una sua correlata diffusione conoscitiva almeno nelle contrade viciniori e ciò  in quanto la denominazione si confà più ad un territorio, che ad un agglomerato urbano.

Gli elementi circostanziali sin qui esaminati, nonché la totale assenza di serie ipotesi contrarie, inducono a ritenere, con un’alta percentuale di probabilità, che Solusapre fosse una Terra e non già una Città, tranne a volere sostenere l’insostenibile, ossia che il toponimo derivi da una corruzione terminologica, essendo pacifico che, in relazione a tale ultima ipotesi, occorrerebbe, in via preliminare e prodromica, individuare quale sia il termine oggetto della corruzione : cosa che nella fattispecie difetta.

 “Terra del cinghiale”, dunque, in seno alla  quale, come può dedursi  facilmente, gli indigeni dell’epoca avranno di certo praticato la caccia. Se  ciò è fondato, all’ipotesi sopra prospettata va ad aggiungersi una ulteriore tessera di sostegno nella complessa e intricata area  museale, nell’ambito della quale, a dispetto degli svariati millenni trascorsi, ogni tessera è rimasta al suo posto: ancora oggi i boschi delle Caronie (che non possono, in ogni caso, essere comparati per verginità e ricchezza delle loro flora e fauna a quelli esistenti al tempo di kale-akte) sono ricchi di cinghiali e di suini neri entrambi i quali, per l’epoca di riferimento, dovevano certamente costituire una risorsa preziosa per la popolazione residente.

Altro errore, nel quale è inciampata la maggioranza di coloro che si sono messi sulle tracce invisibili di Solusapre, è costituito dal fatto di non avere messo in conto la comprovata diversità topografica dei luoghi che, oggi, sono radicalmente dissimili da quelli dei tempi dell’Itinerario.

Allora, il mare non infrangeva i suoi flutti laddove li infrange ai giorni nostri.  La battigia si trovava molto più in alto, a lambire il versante orografico dell’odierna Caronia, per cui l’attuale breve pianura sulla quale è allocata  Caronia Marina  era totalmente sommersa dal mare Tirreno.

Il trascorrere dei secoli ha prodotto l’arretramento delle acque e, di conseguenza, ha provocato l’emersione del fondale marino stabilizzando i luoghi così come oggi si rinvengono, sui quali hanno anche agito fenomeni alluvionali.

Conseguentemente, anche il tracciato della importante via consolare, Valeria-Pompeia si trovava ad essere allocato molto più in alto di quanto oggi si possa pensare con riferimento alla S.S. 113, come ritengo di avere dimostrato attraverso lo studio dei ponti dei quali resistono ancora notevoli e importanti tracce (Cfr. Michele Manfredi-Gigliotti, Passi perduti, alla ricerca dell’antica viabilità nei Nebrodi:la via Valeria-Pompeia, 1990;   Altri passi perduti, alla ricerca della viabilità antica nella zona dei Nebrodi Sicilia settentrionale, 2015).

Le terre di Caronia, pertinenti al versante costiero, così come appaiono ai nostri giorni, sono rappresentate da una pianura alluvionale che occupa la zona strettamente pedemontana. Abbiamo la certezza scientifica che la visione odierna di esse che noi percepiamo sia del tutto diversa da quella antica. Il mare non solo sommergeva tutta tale pianura, ma arrivava sino ad un punto alquanto elevato  della locale orografia, come hanno dimostrato alcune emergenze fossili, pertinenti alla vita del mondo marino, rinvenute in zone elevate della incipiente montuosità. La visione panoramica di allora doveva essere qualcosa di difficilmente riscontrabile, a motivo del  colore  e delle acque cristalline e incontaminate del mare, ma anche, o soprattutto, a motivo dell’affascinante e verginale foresta delle Caronie, che con il suo verde digradava fin quasi a lambire la spiaggia rispecchiandosi, a guisa di un novello Narciso, in quelle acque.

Furono, certo,  questi motivi che determinarono i Greci, notoriamente amanti e cultori della bellezza in ogni sua forma espressiva, a non esitare un istante nel denominare quei luoghi Bella Spiaggia, esaltando, così, la sua fondamentale caratteristica.

(Il presente lavoro, per l’occasione riveduto e ampliato dall’autore, è tratto da Michele Manfredi-Gigliotti, Variae Historiae Fragmenta, Palermo  2003)

28 Giugno 2022

Autore:

redazione


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