Istituzioni

ALBERTO – Ucciso da un poliziotto per ‘eccesso colposo di legittima difesa’

Dopo tanti anni, da quel 10 gennaio del 79, quando una mano assassina rimasta impunita ha spento la tua giovinezza, oggi raramente si rammenta questo omicidio di stato. La sua vita per il Tribunale valeva sei mesi, quanto la condanna inflitta al poliziotto che gli sparò a bruciapelo

Lui, giovane del Fronte della Gioventù, è il quarto morto della strage di Acca Larentia, epilogo di quel tragico gennaio dell’anno prima.

In quegli anni di piombo dei quali il peggio doveva ancora venire.

Siamo a Centocelle, nel cuore, anzi nel ventre della vecchia Roma, un agente spara alla nuca del giovane militante.

Così Acca Larentia miete la sua quarta vittima. Solo dopo giorni di fango e di menzogne si fa luce sul delitto: quando gli anni di piombo uccidono due volte.

– Ma non dovevamo vederci nel pomeriggio?
– Devo andare ad una manifestazione. L’anno scorso al Tuscolano sono morti tre camerati
– … voglio venire anch’io
– Meglio di no. Aspettami qui, che poi, quando torno, andiamo al pub Panda
– Però … non so se miei mi faranno uscire … non è sabato
– Ma si, vedrai che ti faranno uscire
– Allora a dopo
– Alessandra aspetta … un bacio
– Ciao, Alberto …

Lui si allontana, lei continua a guardarlo andar via.

Lui si volta, sorride. Lei saluta con la mano. Lui si volta ancora, e ancora. Quasi a voler imprimere nella sua mente il volto di lei. Alessandra lo segue con gli occhi finché la sua figura non scompare, sulla strada.

“Ci comunicano in questo istante che il giovane Alberto Gianquinto … ah, no … Giaquinto … è morto “.

Alessandra ha appena acceso la radio, la notizia arriva come un pugno nello stomaco.

Piange, abbracciata alla mamma, mentre davanti ai suoi occhi sfilano le immagini dei ricordi con lui … quel primo incontro, le mani strette nelle sue, l’ultimo bacio,l’ultimo sguardo che sembrava non finire mai.

Acca Larentia, la quarta vittima ad un anno di distanza, l’ennesima di quei maledetti anni di piombo.

E poi le accuse, infamanti: ‘era armato, si è voltato per sparare, il poliziotto si è difeso’, le perquisizioni in casa alla ricerca di prove inesistenti.

E poi la verità, dopo giorni di fango: Alberto è stato colpito alla nuca.

Nessun’arma, niente proiettili, guanto di paraffina negativo, foro di entrata del proiettile in regione occipitale, cappuccio della felpa investito dal proiettile sul retro.

Prove incontrovertibili.

Teodoro Giaquinto, padre di Alberto, indaga per conto suo laddove la polizia probabilmente non vuole indagare.

Dopo molti anni alla famiglia viene riconosciuto un indennizzo.

La Corte Costituzionale emette la sentenza: è stato Speranza – questo il cognome del poliziotto – a sparare ad Alberto.

L’uomo non viene condannato per omicidio, ma per ‘eccesso colposo di legittima difesa’, 6 mesi.

Ecco quanto vale la vita di Alberto: 6 mesi.

Quel poliziotto si chiamava Alessio Speranza e scese dalla Fiat 128 bianca, – un’auto civetta della digos – .A bordo erano in due  Speranza  scese dall’auto e sparò al giovane Giaquinto che era di spalle, colpendolo in pieno. Giaquinto era insieme al suo amico Massimo Morsello, cantautore e poeta, che cercò inutilmente di dargli i primi soccorsi.

L’ambulanza arrivò solo 30 minuti dopo, e dopo poche ore Alberto cessava di vivere.

Molti giovani avevano visto quello che era accaduto, ma quando andarono in commissariato a testimoniare, si videro denunciati perché la manifestazione non era autorizzata.

Vergogna nella vergogna, perché – come disse alla Camera lo stesso Giorgio Almirante – il Msi aveva ben chiesto con settimane di anticipo alla questura l’autorizzazione a ricordare i morti di Acca Larenzia con un corteo silenzioso aperto dai parlamentari del partito, cosicché non ci fosse pericolo di disordini.

Ma dopo aver perso tempo per parecchi giorni, il ministro dell’Interno aveva rimandato i missini al questore, il quale disse, all’ultimo momento, come faceva spesso, che il corteo non si sarebbe fatto.

Ma i giovani missini volevano ricordare i loro morti e protestare soprattutto perché le indagini su Acca Larenzia non decollavano

Alla fine, sull’omertà della polizia, fu Almirante che in un’interrogazione parlamentare, atto insindacabile, fornì al Viminale il nome del colpevole. Ma le denunce per i missini che si erano recati a testimoniare rimasero. Ma il peggio doveva ancora venire: Speranza fu condannato a sei mesi per “eccesso colposo di legittima difesa”. Difesa da cosa? Da un ragazzo disarmato che stava fuggendo?

A Ostia gli è stato dedicato dal sindaco Alemanno un giardino, ma il riconoscimento più importante è venuto molti anni dopo, nel 2002: lo Stato fu costretto a riconoscere un indennizzo alla famiglia, cosa che equivale a un’ammissione di colpa e di responsabilità. La famiglia ovviamente lo rifiutò, e i soldi furono utilizzati per la tomba di dove oggi riposa Alberto.

Sul piano processuale, il 17 aprile 1988, dopo quattro processi, la Corte di Cassazione emise la sentenza definitiva, stabilendo che a sparare e a uccidere Alberto Giaquinto fu l’agente di pubblica sicurezza Speranza.

Alberto Giaquinto era nato a Roma il 5 ottobre 1962, frequentava il terzo anno del XIV liceo scientifico Peano, e fu – aggiungiamo noi –  la quinta vittima di Acca Larenzia, poiché, pochi mesi dopo la strage, il padre di Francesco Ciavatta, non potendo resistere al dolore, si era suicidato.

Alcuni brani del discorso di Almirante alla Camera su Giaquinto

“E passiamo, signor ministro, alla tragedia di Roma. Come ella ha visto, ho rinunziato a svolgere le nostre interpellanze ed ho preferito parlare in sede di replica: coltivavo una speranza. Coltivavo la speranza che ella non ripetesse quello che aveva detto qualche giorno fa al Senato. Questo, insieme a quanto ha ripetuto qui alla Camera, ci muove all’indignazione, non solo alla protesta (…) Come si fa a ripetere la versione che le hanno fatto leggere in Senato? Il questore di Roma, carico solo di acidità e di responsabilità, lo tenete ancora in servizio. Si caccia il capo della polizia perché è scappato Ventura, ma il questore di Roma, che ha tentato di infangare la figura di un giovane assassinato, il questore di Roma che avalla ed incoraggia il colpo alla nuca, il questore di Roma che è complice di un assassinio, deve stare al suo posto. Il signor ministro viene qui e ripete a pappagallo quello che gli ha detto, mentendo, il questore di Roma, e quando dico mentendo, lo dico con il concorso di tutta la stampa italiana, ivi compreso Paese Sera e tutta la stampa di regime: non c’è giornale che non abbia reagito di fronte alla madornale menzogna della questura di Roma.

Prima di passare alla ricostruzione dei fatti, vorrei, signor ministro, porre una domanda. Posso capire che all’inizio, terrorizzato per le conseguenze politiche e personali di quanto era accaduto, il questore di Roma abbia potuto diffondere una voce falsa, ma non posso capire che a distanza di due settimane si insista nella menzogna, si insista nel dire che il ragazzo aveva un’arma, si insista nel dire che il ragazzo avesse minacciato il sottufficiale che gli ha sparato, il che era impossibile stando al risultato delle perizie, ed è ritenuto impossibile da tutta la stampa italiana, da tutti coloro che si sono occupati di ciò. Perché, da parte della questura di Roma, si insiste, e, cosa più grave, si insiste anche da parte del Ministero dell’interno? Non perché si voglia coprire qualcuno, bensì perché si vuole ricattare qualcuno. Voi avete paura dell’interrogatorio dell’assassino, avete paura che per coprirsi egli scopra altri. Il questore di Roma ha paura di questo processo che si farà e nel corso del quale verrà fuori la verità. Signor ministro, so di dire una cosa atroce, che non avrei voluto dire, ma voi ci costringete a rivelare anche questo. Le dico poi una cosa ancora più grave. Mentre i familiari erano stati avvertiti ed erano corsi in ospedale, il signor questore di Roma chiedo scusa, il questore di Roma ha disposto una perquisizione in quella casa sapendo che i familiari non c’erano, era presente solo un custode, e la perquisizione è stata effettuata da un maresciallo e da due agenti, con un metodo di cui mi vergogno, io che ho sempre difeso la polizia come istituto.


Mi sono sempre rifiutato di dire «sbirri», ma questa volta lo devo dire: con un metodo sbirresco, imposto dal capo sbirro il questore di Roma hanno rovistato nella casa e mentre rovistavano ho le testimonianze dirette che porteremo avanti codesti poveri sciagurati, che adempivano un triste mestiere, telefonavano di tanto in tanto alla questura e dicevano: la pistola non la troviamo! Dalla questura si rispondeva: dovete trovarla! Cercavano una pistola, che dovevano trovare, perché doveva risultare anche questo; bisognava infangare la famiglia, non soltanto il ragazzo; bisognava dimostrare che era un pericoloso bandito. Vergogna! Ecco, signor ministro, quanto avevo da dirle questa sera con tutto il mio ed il nostro disprezzo nei confronti del Governo e anche nei confronti degli uomini che ai vostri ordini si comportano come hanno osato comportarsi nei confronti dei nostri eroici ragazzi.”

la canzone di Michele Di Fiò dedicata ad Alberto Giaquinto

fonte

http://frontedellagioventu.altervista.org/

http://www.ilgiornaleditalia.org/

Redazione Scomunicando.it

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