ALCARA LI FUSI – L’ITALIA DOVREBBE CHIEDERE SCUSA.
Cronaca Regionale

ALCARA LI FUSI – L’ITALIA DOVREBBE CHIEDERE SCUSA.

 

battaglia2gQuesta è la notizia:

Sabato 30 luglio alle 17,30 presso la Società Agricola di Mutuo Soccorso di Alcara Li Fusi si terrà un convegno per celebrare i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, organizzato dal Coordinamento Regionale Siciliano delle Società Operaie di Mutuo Soccorso.

Interverranno il presidente della Società Agricola alcarese, Nicolò Santoro, il sindaco di Alcara Li Fusi Giuseppe Spinello, il presidente della Provincia di Messina Nanni Ricevuto, il presidente regionale delle Società Operaie siciliane Giuseppe Ciavirella, i deputati regionali Pino Apprendi e Salvino Caputo, i docenti universitari Antonio Matasso, Michelangelo Ingrassia e Pietro Siino ed il presidente dell’Istituto nazionale per la storia del Risorgimento di Palermo Claudio Paterna.

Saranno presenti anche il presidente della Fondazione Soms del Piemonte Sebastiano Solano ed il presidente nazionale della Fimiv Placido Putzolu. Coordinerà i lavori Giovanni Milazzo.

Questa è la storia, tratta da uno scritto di Antonino Teramo pubblicato su http://nebrodinetwork.it

A volte capita di imbattersi in fatti poco conosciuti, approfonditi soltanto da pochi studiosi, eventi a volte anche tragici che vengono riproposti attraverso l’opera di alcuni scrittori che riportano in vita personaggi, sentimenti e situazioni.

E’ il caso di alcuni fatti avvenuti nel paesino di Alcara Li Fusi a partire dal 17 maggio 1860, proprio a qualche giorno dall’inizio dell’epopea garibaldina in Sicilia.

Anche nel caso dei fatti di Alcara c’è stato uno scrittore, Vincenzo Consolo, che con la sua penna ha contribuito a ricostruire quei momenti, facendo rivivere ai lettori le aspettative, le necessità e i sentimenti degli innocenti che  furono strumentalmente immolati in quei tragici giorni di centocinquanta anni fa.

La stampa nazionale negli ultimi mesi ha tanto parlato delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

L’ 11 maggio 1860 infatti Garibaldi sbarcò a Marsala e le sue azioni, spesso circondate fin da subito da una fama quasi mitica o leggendaria, hanno dato il via ad una serie di avvenimenti militari, politici e sociali che hanno portato in breve tempo alla fine del Regno delle Due Sicilie ed alla nascita di un nuovo stato unitario, proclamato solennemente il 17 marzo 1861.

Certo la storia è più complessa, Garibaldi non fu l’unico protagonista di quegli eventi, molte furono le cause e le conseguenze di quel processo unitario che ritorna d’attualità con le note polemiche lanciate da esponenti leghisti che in questo concordano con alcuni politici meridionali nel criticare a torto o a ragione quel periodo storico chiamato Risorgimento, cercando di adattare la verità storica a rivendicazioni politiche o propagandistiche, non sappiamo se a scopo demagogico ma certamente portando alla luce ferite ancora aperte e questioni non ancora chiarite.

A questo punto sarebbe opportuno riflettere sull’utilità della storia1 come magistra vitae, anzi come magistra hominis, ponendosi di fronte anche a quei fatti sconosciuti o tragici che la storiografia risorgimentale ha spesso tralasciato per sottolineare e celebrare altri aspetti ritenuti più importanti. Lo studio della storia, mettendo l’uomo di fronte alla realtà dei fatti, può assumere un importante ruolo pedagogico: educa a capire la complessità del reale, mette di fronte alla realtà spesso tragica della vita e soprattutto permette di non dimenticare, di capire e di andare avanti.

Le celebrazioni per l’Unità d’Italia diventano quindi occasione per rivedere quel periodo storico tanto discusso, e risanare a distanza di cento anni, quelle ferite che si rivelano ancora aperte e completare quindi un processo di “purificazione della memoria2” che forse non è mai iniziato. Partendo quindi da queste ferite ancora attuali si può procedere a ritroso andando a riscoprire il passato, e capire, anche analizzando i fatti più crudeli e meno sconosciuti come era l’Italia  e come erano gli italiani centocinquanta anni fa.

Quello che accadde in Sicilia allo sbarco di Giuseppe Garibaldi è difficile da descrivere: il mito che fin da subito circondò la figura dell’Eroe dei due mondi si ingrandì giorno dopo giorno toccando non solo le gesta riguardanti le battaglie ed i fatti militari ma  penetrando persino nella profonda religiosità della popolazione. Il popolo vedeva il Generale addirittura come provvisto di poteri soprannaturali3 e si verificò un singolare sincretismo che riusciva ad unire la tradizionale religione della popolazione con il laicismo garibaldino.

Lo stesso Garibaldi, nonostante le sue note posizioni anticlericali, sfruttò a suo vantaggio il sentimento religioso della popolazione. Un esempio su tutti: alla festa di S.Rosalia a Palermo presenziò alla solenne cerimonia come “difensore della fede e della Chiesa” sedendo sul trono della cattedrale con tanto di poncho e camicia rossa4. In molti casi l’assonanza tra i nomi Rosalia Sinibaldi (cioè Santa Rosalia) e Giuseppe Garibaldi era più che sufficiente alla popolazione per tributare un vero e proprio culto all’ Eroe dei due mondi5. Anche in questo caso la situazione è molto complessa, vi furono anche spontanee reazioni alle contraddizioni proprie di tale situazione ed il sincretismo tuttavia attecchì nella mentalità degli strati più umili della popolazione. Il basso clero, che fin dagli anni ’20 dell’ottocento aveva in parte iniziato ad aderire alla carboneria6, favorì il progetto garibaldino.

Oltre all’aspetto religioso non si possono ignorare le rivolte scoppiate quasi ovunque alla notizia dell’imminente arrivo di Garibaldi, ribellioni politiche ma con carattere soprattutto di rivendicazione sociale, dettate dalla situazione di indigenza in cui si trovavano spesso gli strati più umili della popolazione rurale. Si trattava quindi di rivolte contro il governo borbonico ma che in alcuni casi si verificarono, in modo ormai disilluso, sotto la dittatura garibaldina che non aveva risolto di fatto le problematiche sociali. In ogni caso le ribellioni furono represse nel sangue in modo esemplare, segnando alcune tra le pagine più nere del processo di unificazione d’Italia. Pagine che meritano certamente di essere portate alla luce. Il più noto di questi avvenimenti, ma non certamente il solo, è l’eccidio di Bronte reso celebre anche da una novella di Giovanni Verga. Si tratta di fatti tragici, eppure accaduti realmente, conosciuti dagli storici ma che solo raramente vengono portati alla conoscenza dei più.

Uno di questi tristi e tragici avvenimenti si verificò, come già accennato, ad Alcara li Fusi. Si tratta di momenti difficili da decifrare, i fatti si susseguirono con una certa velocità. Il 15 maggio 1860 a Calatafimi i garibaldini si scontrarono con l’esercito borbonico, restarono sul campo di battaglia 127 garibaldini e 111 borbonici. Mentre l’esercito del Regno delle due Sicilie si ritirava Garibaldi proseguiva per Alcamo attestandosi sopra Monreale. Mentre il Generale avanzava erano giorni di grande fermento, e proprio in quei momenti i Nebrodi si infiammano: il 13 maggio a Mistretta era stato dato alle fiamme il municipio ed era stato devastato il Casino dei Nobili ed in genere tutti i paesi furono in subbuglio.

Ad Alcara il 16 maggio sera, nella chiesa di S.Michele i sacerdoti Di Bartolo e Cozzo presiedevano una riunione di  braccianti, pastori, contadini e artigiani, per discutere ovviamente di problemi locali e della vita di quei giorni. Il giorno dopo accadde la tragedia: dopo la messa la piazza della matrice si riempì di gente vociferante, mentre per la strada avanzava il popolo diretto al Casino di Compagnia, risevato a “galantuomini e civili” al grido di “W Garibaldi! W l’Italia! W Vittorio Emanuele! Morte ai cappeddi!”.

E’ difficile ricostruire lo svolgimento esatto dei fatti dato che sono andati perduti i tre volumi dell’inchiesta, il dato certo è il risultato di 11 morti ammazzati ed il paese in subbuglio fino al 24 giugno.

La prima parte della tragedia si era consumata ma la storia dei fatti di Alcara non era ancora finita. Prima di andare oltre bisogna soffermarsi sulle cause della rivolta: il popolo di Alcara, esasperato certamente da problematiche sociali piuttosto gravi, fu fomentato senza dubbio dalla propaganda garibaldina che intendeva spianare la strada alla venuta del Generale.

Non è difficile immaginare le prospettive promesse ai ceti più umili affinché insorgessero: l’unità d’Italia e la libertà politica erano problematiche meno immediate e la popolazione doveva affrontare questioni più concrete come la terra, il lavoro, il pane.

Si può ipotizzare quindi, a ragione, che al popolo furono promesse terre ed un  periodo di benessere con l’arrivo di Garibaldi.

Un desiderio di rinnovamento generale sempre presente che fu rinfocolato dai propagandisti e animato dagli stessi incitamenti dell’ Eroe dei due mondi. La conferma di tale ipotesi, cioè la promessa di terre, è data da un decreto che porta la data del 2 giugno seguente firmato da Crispi, che prometteva la divisione delle terre e dei demani comunali “privilegiando coloro che si sarebbero battuti per la patria”, veniva specificata anche le modalità della divisione e dell’assegnazione. Il decreto appare quindi come una conferma, una ratifica ufficiale scritta nero su bianco, delle promesse fatte alla popolazione siciliana e sembra confermare l’ipotesi della causa del moto di Alcara.

D’altronde è ragionevole ritenere che Crispi fosse a conoscenza delle aspettative concrete del mondo contadino, bisognoso di terra e lavoro. La conseguenza del moto di Alcara, e degli altri moti che si sono propagati a macchia d’olio in tutta l’isola, non voleva in realtà essere sociale ma strettamente politica: i fomentatori miravano a sfaldare l’amministrazione borghese, ad indebolire l’appartenenza al regno borbonico e quindi a preparare la venuta di Garibaldi.

Ma la tragedia ad Alcara non finì quel triste 17 maggio. L’indirizzo che seguirono Garibaldi e Crispi cambiò: le numerose rivolte, difficili da controllare, spesso si rivelarono più d’impaccio alla conquista che di supporto e quindi decisero di stroncarle.

Seguì il decreto che porta la data del 9 giugno che istituiva una commissione d’inchiesta nei 24 distretti dell’isola, incaricata dell’istruzione dei processi per i reati di strage, devastazione e saccheggio. Seguì una circolare del 24 luglio con cui si ordinava di procedere alle condanne a morte per non più di tre imputati.

Il governatore di Patti notò che tale disposizione incoraggiava la speranza di impunità dei malvagi, favorendo l’anarchia; chiedeva al contrario una punizione decisa, cioè la condanna a morte per tutti coloro che si erano macchiati di tali misfatti.

Il governatore di Patti però aggiungeva una nota molto interessante: “Il popolo vuole la divisione delle terre comunali già decretata e, non avendola attuata, crede che l’unico colpevole sia il ceto civile, con funestissime conseguenze”.

Autorizzato o no il presidente della commissione, Cristoforo Gatto, fece eseguire nel piano di S. Antonio a Patti la fucilazione di 12 imputati di Alcara il 20 agosto 1860, si dice senza neppure il conforto religioso.

In quel momento l’illusione rivoluzionaria era già finita da tempo, Garibaldi ormai era lontano, quello stesso giorno varcò lo Stretto lasciando la Sicilia. Si consumò quindi tutta la tragedia ma la storia dei fatti di Alcara non si concluse qui, proseguì nelle aule dei tribunali.

Il 24 novembre seguente la Gran Corte Criminale di Messina annullò la sentenza di condanna degli imputati suddetti, a norma del decreto del 21 agosto che imponeva di non doversi procedere ad azione penale per i reati politici, ed i fatti di Alcara erano considerati tali perché si trattava di una ribellione sotto il governo borbonico. Il 14 febbraio 1861  si concluse l’ultimo atto con la sentenza della Corte Suprema che annullò per vizi di forma quanto deliberato dalla Gran Corte Criminale di Messina, dichiarando però, di fatto, la sentenza sostanzialmente valida.

Si chiude così la vicenda anche per gli altri imputati al processo, ed una delle pagine più nere del Risorgimento finiva così di essere scritta e finiva anche la grande illusione della rivoluzione che rivelava il suo vero volto ed avrebbe aperto una nuova epoca, con nuove circostanze e nuovi problemi che si trascinano in taluni casi fino ai giorni nostri.

La ricostruzione fin qui fatta7, sebbene sintetica, mette in evidenza un episodio ben noto agli addetti ai lavori ma sconosciuto e ignorato dalla maggioranza. Un fatto come tanti, messo da parte, occultato o minimizzato perché ritenuto marginale o non degno di essere raccontato. E invece anche il racconto dei momenti più tragici della storia è di grande utilità: per abituarsi alla realtà, capendo che spesso è più complessa di quanto si creda; per cercare di leggere gli avvenimenti con più precisione,  per poterli superare e poter rimarginare finalmente le ferite aperte da centocinquanta anni, senza nostalgie o pretese anacronistiche; per capire quanto sia importante non perdere la memoria. Tutto questo ci spinge a muovere dal presente, dall’Italia di oggi, dalla Sicilia di oggi, dai Nebrodi di oggi, e guardare al passato e portare alla luce la verità affinché il primo passo di una riconciliazione, cioè una memoria storica condivisa, risani quelle ferite che non hanno più motivo di restare aperte.

1 Riguardo l’utilità della storia e altre problematiche di epistemologia della storia si fa riferimento alle tesi esposte in M. TANGHERONI, Della Storia – In margine ad aforismi di Nicolàs Gòmez Dàvila, Sugarco, Milano 2008.

2 Espressione usata da Giovanni Paolo II nel Messaggio per la celebrazione della XXX Giornata Mondiale della Pace (n.3) il 1 gennaio 1997, e ripresa nel Messaggio in occasione del convegno “Leone XIII e gli studi storici” il 28 ottobre 2003.

3 A. SINDONI, Chiesa e società in Sicilia e nel Mezzogiorno – Secoli XVII-XX, Edizioni Historica, Reggio Calabria 1984, p.28

4 Ibidem

5 cfr. A. SINDONI, Dal riformismo assolutistico al cattolicesimo sociale – 2- Moti popolari, Stato unitario e vita della Chiesa in Sicilia, Edizioni Studium, Roma 1984 p.62

6 A. SINDONI, Chiesa e società in Sicilia e nel Mezzogiorno, op.cit. p .24

7 Per la ricostruzione dei fatti cfr. S. CUCINOTTA, Sicilia e Siciliani – Dalle riforme borboniche al “rivolgimento” piemontese – Soppressioni, Messina 1996 pp. 105-107

29 Luglio 2011

Autore:

admin


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