DICIANNOVE ANNI, TALENTO, CREATIVITA’ E TANTA VOGLIA DI METTERSI IN GIOCO
Andrea Speranza, in arte “Hope” è nato a Messina nel 1999. Diplomato al Liceo Classico “Francesco Maurolico”, coltiva da sempre grande passione per l’arte e in particolare per la pittura, verso la quale ha una vocazione spontanea che produce frutti davvero interessanti. Nato come inclinazione giovanile particolare, quest’ultima trasformata poi in passione in virtù di un impegno mantenuto in maniera costante e di quella cura che altrimenti ne avrebbe impedito la manifestazione ed espressione nella sua forma migliore, il “genio” artistico di Andrea Speranza adesso ha deciso di uscire dalle mura dello studio, per mostrarsi al pubblico, riscontrando già a primo acchito, un apprezzabile successo di critica.
Il giovanissimo artista messinese ha, infatti, già esposto le sue opere in occasione di alcune mostre che si sono svolte, nel corso dei mesi passati, in ambito cittadino. Due di queste, nello specifico, si inseriscono nel circuito di esposizioni del progetto Be Art, nato da un’idea di Silvia Russo, di cui si richiama un’interessante iniziativa del 3 aprile scorso, ovvero una mostra realizzata in un appartamento disabitato del centro città, nell’ambito della quale Speranza ha avuto la possibilità, per la prima volta, di esporre i suoi bozzetti. A questo evento ha fatto seguito un secondo appuntamento culturale, stavolta a Mortelle. Di carattere più specifico è stata invece l’ultima esposizione, “Studio Aperto”, allestita in località Contemplazione dal pittore Simone Caliò, dove oltre alle tele di Speranza erano presenti anche quelle di Carla Siracusano e le fotografie di Davide Caliò.
Non si è in errore ad affermare che Andrea ha trovato nell’espressione artistica la sua strada. E sul suo talento artistico ha deciso di investire un capitale di importanza unico: il suo tempo. E, vale a dire, il suo futuro. Ha deciso infatti, pur consapevole del fatto che, come dice – “ancora non sa a cosa o dove questa strada lo porterà” – di frequentare la prestigiosa NABA di Milano. Acronimo di Nuova Accademia di Belle Arti, si colloca in vetta alle classifiche degli istituti universitari dell’alta formazione artistica. Un avvenire all’insegna dell’arte, dunque, per Andrea, che comunque, nonostante i fisiologici miglioramenti e affinamenti che lo studio e le applicazioni pratiche possono portare, si sta già dimostrando un artista di belle “speranze”. Andiamo adesso a conoscere, nello specifico, quelli che sono i caratteri generali, ma anche le sfumature, le sfaccettature del suo modo di fare arte.
È opportuno, prima di elaborare qualsiasi considerazione, chiarire e specificare che in realtà non è possibile incasellare lo stile di Andrea in una corrente o in un ventaglio di espressioni artistiche legate da un unico comune denominatore. Quella di Andrea è un tipo di arte indefinibile (ma non indecifrabile), ed è l’artista in prima persona ad affermarlo, facendo soprattutto riferimento al fatto che dovrebbero essere invero gli altri a dare un’interpretazione della stessa, o comunque una parvenza di definizione. Andrea Speranza non si ispira a nessuna corrente artistica o artista specifico del passato e anche del presente; il suo stile è dunque personale, singolo, e fa unico riferimento alla dimensione strettamente personale. Diciamo che, in maniera neanche troppo azzardata, si può parlare di “Hope-art”, per coniare una forma di espressione artistica del tutto nuova e dipesa esclusivamente dall’artista.
Sia quando viene esercitata en plein air (esperienza che tra l’altro ha svolto nel corso di un evento nella suggestiva cornice di Villa Roberto, Ganzirri), assimilando le vibrazioni atmosferiche del paesaggio, sia nella prossimità emotiva di una riflessione umana, la pittura di Andrea Speranza si presenta come un insieme equilibrato di sollecitazioni, alcune provenienti dalla dimensione personale e altre derivate da fattori esterni.
Tutti questi caratteri e spunti si sono riversati nel genio creativo dell’artista. Prescindendo interamente dalla dimensione di questa stratificazione complessa, la sensibilità visiva di Speranza si aggiorna ad ogni situazione e subisce gli influssi delle figure che incontra e che costituiscono parte del suo vissuto. Già, perché “il suo forte” sono invero i ritratti.
Ciò che è comunemente inteso come “ritratto” consiste, come è noto, nella riproduzione delle fattezze di una persona. Tuttavia, l’idea di base non concepisce il ritratto come una fotografia, e ammette la possibilità che la riproduzione non sia meccanicamente fedele alla realtà. E allora cos’ha di più un ritratto rispetto ad un’immagine qualsiasi? La risposta è semplice: un ritratto integra le sembianze del soggetto con quelli che sono i tratti della sua anima, intercettati dal pittore. Così la magia dei ritratti si esprime proprio in una triangolazione di sguardi, che possono essere sbiechi, indiscreti o clementi, concessi o negati.
Tuttavia, rintracciare tali segni materiali, di per sé, non dice però nulla sulle intenzioni dell’artista. Si possono solo azzardare ipotesi soggettive per cercare d’intuire il principio costruttivo che lega l’idea all’immagine finale e su cui l’artista ha incardinato la composizione. La sua è una pittura frutto di un’operazione intellettualistica e problematica, la cui ricerca resta sempre però molto fisica.
La “Hope-art”, così la chiameremo d’ora in poi, è caratterizzata, anzi potremmo affermare a ragion veduta, si fonda, su un dialogo serratissimo quanto carico di preziosi contenuti, tra le immagini desunte dal vissuto dell’artista e la sua dimensione psicologica. Al limite tra il surreale e il realissimo, essa si articola secondo una concezione personalissima dello stesso Andrea a proposito del modo di interpretare e contestualizzare i soggetti che lui dipinge. Questo surrealismo, pur non essendo latente, si coglie in un secondo momento, non a prima vista. Soggetti evanescenti che al posto del capo presentano le nuvole di un temporale, o mezzi busti i cui indumenti si estinguono in gocce d’acqua sono i tipi più caratteristici di questo linguaggio espressivo quasi metafisico. È un’arte intelligente, che fa riflettere, stimola l’osservatore all’indagine psicologica e maneggia con assoluta padronanza dei materiali che non sono quasi mai trasferibili sulla tela in maniera totalmente fedele: noi possiamo chiamarle, se vogliamo, per usare le parole di Lucio Battisti, emozioni. Non mancano comunque soggetti di forte legame con la realtà: persone, volti e storie contenute in un viso che “chissà cosa ha dietro”. Gente comune, che si incontra casualmente per la strada e che comunica qualcosa, senza effettivamente proferire parola alcuna.
Così è l’arte di Andrea: ha qualcosa da dire, da comunicare. Non è la rappresentazione sterile e morta di un paesaggio o di una natura, di soggetti che non hanno vita. È l’esatto opposto: i personaggi in questione, non solo hanno, ma sono vita. Sono la dimostrazione che effettivamente può esistere ed esiste una manifestazione concreta di un’emozione e di un qualcosa da raccontare.
Si tratta dunque di un’esperienza universale che tuttavia, per non essere illogica, il soggetto può compiere e osservare solo dentro di sé. Grazie alla sua mediazione artistica, il pittore ci offre la possibilità unica di vedere esteriorizzato e reificato questo «dato immediato della coscienza», altrimenti confinato in una dimensione puramente psicologica. Ne deriva che in un dipinto di Andrea sarebbe estremamente difficile, se non addirittura impossibile, ricostruire in maniera scientifica e puntigliosa la matrice di riferimento alla molteplicità d’immagini che arricchiscono il suo archivio interiore: oltretutto tale ricerca risulterebbe priva di effettiva utilità.
Inoltre, sebbene i suoi lavori non perseguano alcun intento descrittivo come potrebbe valere per la rappresentazione di un paesaggio, a un’analisi neanche troppo dettagliata si ha la sensazione che l’umanità varia che Speranza rappresenta nei suoi ritratti derivi dagli spunti di tante storie frammentarie entrate che potrebbero in un certo qual modo aver toccato le corde giuste della sua sensibilità.
Tuttavia, dopo aver affrontato queste riflessioni, sorge spontaneo un interrogativo: come si origina la fiamma dell’ispirazione nella dimensione psicologica dell’artista? È lo stesso Speranza a rendere chiara questa incognita, spiegandoci che i suoi quadri “nascono dalla mente, che li partorisce direttamente, se così si può dire. Capita però che a volte non abbia l’intenzione di dipingere un soggetto, il quale invece nasce spontaneamente dalla mano, mentre l’idea sviluppata nella mente viene manifestata altrove”. La scintilla per una nuova opera, come appunto spiega l’artista stesso, scaturisce sempre da un sentimento di attenzione per una persona reale e per ciò che essa po’ comunicare, pretesto per «rendere visibile l’invisibile» attraverso la pittura.
Questa notazione conferma il fatto che Speranza non pratica affatto un’arte cosiddetta “di pancia” ma, al contrario, un tipo di pittura che è prima di tutto mentale oltre che fisica, molto meditata. La delicatezza e minutezza dei tratti, la coordinazione cromatica nonché la selezione e la rappresentazione delle figure dipinte suggeriscono la mancanza di una manifestazione istintiva dell’impulso creativo e al contempo palesano un processo di razionalizzazione di un primigenio impeto interiore.
Dal punto di vista della tecnica, il registro è di carattere differente: si è parlato poc’anzi di bozzetti. Già. Perché è proprio attraverso il disegno che Speranza si è avvicinato poi al mondo della pittura; per quanto concerne quest’ultima, la tecnica prevalentemente usata fa riferimento ai colori ad olio, che Andrea utilizza in maniera analoga, ma non ripetitiva, nella maggior parte dei suoi quadri. I ritratti sono il suo forte, si è detto, e rappresentano, si può dire, la sua cifra stilistica. Volti e busti nascono naturalmente dal suo pensiero; se il soggetto è interessante allora la vena artistica non si lascerà scappare l’idea, fuggevole e precaria per sua natura: ciò porterà ad una definizione e chiarificazione maggiori di ciò che si fa strada nella mente dell’artista, per poi essere rielaborato, codificato e, infine, trasferito sulla tela.
Nei quadri di Andrea Speranza si rintraccia, si può affermare in conclusione, un elemento di evidente essenzialità: protagonista è il soggetto ritratto, e solo lui, come dimostrato dall’assenza di uno sfondo. I protagonisti di questa carrellata di “fotografie” di umanità sembrano focalizzarsi su un pensiero univoco. Come legati tra loro da un comune filo conduttore, sono tutti assorti in espressioni di riflessione e analisi. La banale quanto azzeccata interrogazione personale: “chissà cosa gli starà passando per la testa…” nasce spontanea dinanzi alla visione del soggetto ritratto. Ma l’artista, con il suo personalissimo tocco, risponde alla domanda che si pone colui che in quel momento sta osservando il quadro e lo fa apponendo minute didascalie a fianco del soggetto ritratto, seguendone il profilo; una novità importante, soprattutto in considerazione del fatto che esse derivano direttamente da ciò che attiene alla dimensione emozionale e introspettiva in relazione alle impressioni che il ritratto stesso suggerisce: “Sarà la nostalgia”, “…Perché punto alle stelle, che i lampioni non bastano!…”, “…Tornerò” o “Bon voyage”, per richiamarne alcune. Al contempo queste fungono da titolo del quadro stesso e rispondono alla domanda – legittima – dello spettatore, che vede così sciogliersi l’enigma della sua curiosità e può meglio comprendere l’essenza più vera dell’emozione che si somatizza e prende forma nei lineamenti del soggetto ritratto, che adesso non ha più misteri. Il segreto della sua mente è stato finalmente svelato.
Osservare un dipinto di Andrea Speranza è ogni volta un’esperienza unica e sorprendente e a questo stupore concorrono anche, seppur non in egual misura, due dettagli apparentemente marginali e trascurabili, ma invero importanti: le dimensioni della tela e la potenza cromatica. Difficilmente la riproduzione tecnica, specie in formato ridotto, può trasmettere la carica energetica ed emozionale di queste opere. Sulle geometrie fisiche omogenee e coordinate dei soggetti, lo sguardo dello spettatore rintraccia un appiglio utile a tracciare uno scampolo di narrazione. Nonostante la diffusa coercizione, ormai assimilata, a presupporre soggettività o a costruirla ovunque essa sembri mancare, l’efficacia comunicativa delle opere di Andrea non perde la sua peculiare immediatezza nell’esprimere il messaggio di cui il soggetto è custode, anzi è il messaggio è il soggetto stesso.
In conclusione, proprio come, rifacendoci a Pirandello, noi siamo uno, nessuno e centomila, nessuno e tanti sono i messaggi che l’artista intende comunicare. Ma piuttosto che soffermarsi su una questione di mera quantità, ciò che per converso dovrebbe essere oggetto di attenzione da parte dell’osservatore è la qualità dei messaggi stessi. Questo ragionamento trae sviluppo dal fatto che, perché come dalla sua creatività nascono spontanei più soggetti, ciascuno dei quali è foriero di un messaggio unico e personale, ogni suo quadro può essere inteso e interpretato diversamente da osservatore a osservatore. Possono dunque rappresentare qualunque emozione e anche, contestualmente, ciò che invero il soggetto vuol lasciare immaginare.
Vittorio Tumeo