A volte spero davvero che il commediografo ateniese abbia ragione; spero davvero che ci sia un posto, oltre la morte, dove i torti, il dolore e le ingiustizie subite in questa vita vengano in qualche modo azzerate e ripagate.
E’ questa, difatti, la sola tenue speranza che ci porta a ricordare e commemorare una lunga serie di eventi della storia dell’uomo, dalle stragi più atroci ed indiscriminate che hanno colpito intere popolazioni fino a delitti molto meno sanguinosi, ma non per questo meno crudeli.
Il 28 febbraio 1975, quarantadue anni fa, a Roma il primo Caduto per arma da fuoco di quella che fu davvero una guerra civile fu lo studente greco Mikis Mantakas, come un segno perché il sangue irrorasse le radici grecoromane su cui è nata e vivrà l’Europa.
Oggi, in particolare, – scriveva Andrea su uno dei tanti blog che in questi giorni sono pieni del triplice “presente” o dei ricordi di quegli anni – il nostro anelito di speranza è dedicato al ricordo di Mikis Mantakas, che come tanti atri ragazzi, sì, prima ancora che militanti persero la vita in quegli anni, e primo fra tutti i ricordi vanno a Francesco Ciavatta, Stefano Recchioni e Franco Bigonzetti: avrebbero avuto tutta la vita davanti, un’intera esistenza che a loro è stata negata dal bruciante gelo delle pallottole.
Dobbiamo sperare che per loro ci sia stato un futuro migliore in un altro luogo, lontano dall’orrore che ha segnato la loro morte, decretata solo per il fatto di essere militanti del MSI, militanti fascisti.
Il 26 febbraio 1975, a via Ottaviano, Roma, veniva ferito Mikis Mantakas, ventiduenne studente greco, figlio di antifascisti che hanno abbandonato il proprio Paese, ma nondimeno aveva fatto altre scelte e si era iscritto prima in medicina poi al Fuan. Morì due giorni dopo. Il 28 febbraio di 42 anni fa.
In quei giorni era in corso il processo di primo grado contro Achille Lollo, uno degli assassini dei fratelli Mattei, arsi vivi nella strage di Primavalle.
Un massacro aberrante commesso da figli dell’alta borghesia romana nei confronti di un ragazzo e di un bambino di un quartiere popolare, colpevoli di essere fascisti e, in quanto tali, degni di essere eliminati. In nome, ovviamente, della “lotta di classe” e della “dittatura del proletariato”.
Nei giorni precedenti, l’aula del tribunale in cui si celebrava il processo era stata contesa tra gli amici delle vittime e i sostenitori dell’assassino.
Un plotone di fuoco si presentò a prima mattina davanti a piazzale Clodio, sede del tribunale, e sparò sui G.O. di via Sommacampagna ma miracolosamente senza fare vittime.
L’azione si ripeté poco dopo davanti alla sede del Msi Prati; i difensori della sezione assalita dai complici di Lollo, usciti per fronteggiarli, vennero bersagliati da colpi di pistola. Mikis fu colpito alla testa, il proiettile gli esplose il cervello.
Uno dei partecipanti all’omicidio, Fabrizio Panzieri, fu catturato praticamente sul posto; ma la magistratura di allora, fedele alla linea che andava di moda, lo rilasciò.
Più tardi Panzieri verrà condannato per l’appartenenza alle formazioni armate dell’Ucc ma riparerà in Africa e poi in America Centrale.
Con Panzieri, condannato in contumacia ad una pena irrisoria anche per “conocorso morale” per l’assassinio di Mikis, sarà identificato e condannato, sempre in contumacia, Alvaro Lojacono che, intanto, è passato alle Brigate Rosse e che sarà poi condannato, sempre in contumacia, all’ergastolo per la strage di via Fani.
Lojacono se la caverà in quanto, come cittadino svizzero, non verrà estradato in Italia né dalle autorità elvetiche né in seguito da quelle francesi.
Una decina d’anni orsono, mentre si trovava in stato di fermo in Corsica, lasciò trapelare che poteva rilasciare qualche “rivelazione” scomoda su figure prestigiose.
Lasciò infatti comprendere che sarebbe stato aiutato a lasciare l’Italia, via l’Algeria, da stretti ed influenti amici di suo padre, alto dirigente napoletano del partito comunista.
Quale che sia la consistenza della “rivelazione” minacciata da Lojoacono, di sicuro c’è che gli assassini di Mikis Mantakas, come quelli dei fratelli Mattei, come quelli di Ciavatta, Bigonzetti e Recchioni, come quelli di Zicchieri, come quelli di tanti altri, praticamente di tutti i fascisti, sono rimasti impuniti.
Per avere un’idea del come e del perché è indispensabile leggere “Acca Larentia quello che non è stato mai detto” ad opera di Valerio Cutonilli e Luca Valentinotti, per le edizioni Trecento.
E’ infatti importante oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, ristabilire una verità storica: quella che asserisce che se la classe dirigente del Msi fosse stata ascoltata attentamente dai vertici dello Stato italiano, probabilmente nel nostro Paese non ci sarebbe stata la stagione del terrorismo armato, gli anni di piombo, e anche le Brigate Rosse sarebbero state stroncate sul nascere e comunque molto ridimensionate.
Libri
Luca Telese ricostruisce in «Cuori neri» i ventuno delitti di cui furono vittime giovani di destra
L’altro Sessantotto.
La faccia nascosta degli anni Settanta.
La metà taciuta della memoria intera.
Cuori neri, monumentale libro da 800 pagine e tre anni di lavoro, è un’opera sotto certi aspetti definitiva: le storie dei ventuno militanti del Msi assassinati tra il 1970 — Ugo Venturini, colpito alla testa da una bottiglia mentre proteggeva Almirante in un comizio a Genova («forse l’ho tirata io» racconta ora Carlo Panella, giornalista Mediaset ed ex dirigente di Lotta continua) — e il 1983 — Paolo Di Nella, fascista ventenne assistito in agonia dal presidente partigiano Pertini— vi sono ricostruite fin nei minimi dettagli.
Sotto altri aspetti, però, Cuori neri riapre un capitolo ancora da scrivere.
Perché getta una luce talora inquietante sulla disonestà intellettuale e sull’oblio, su ventuno morti «demonizzati dai loro nemici e dimenticati da tutti gli altri», spesso vittime anche di un’accurata opera di rimozione e talora mistificazione, di cui l’autore accusa una parte non secondaria della sinistra: l’assassino non può essere un compagno, dev’essere stata una faida interna tra fascisti (accade per i fratelli Mattei, per Carlo Falvella, per Graziano Giralucci eGiuseppe Mazzola prime vittime delle Br, per Mario Zicchieri, per Mikis Mantakas). E a rendere se possibile più interessante il quadro è il fatto che l’autore non ha ancora 36 anni, quindi non appartiene alla generazione di cui scrive, né condivide la formazione intellettuale e politica dei «cuori neri».
Luca Telese ha invece una storia di sinistra, è stato capufficio stampa di Rifondazione, ha scritto sul manifesto e sull’Unità, ora lavora al Giornale ma i suoi due primi libri sono biografie di Cofferati e di Lula.
Dalla campagna innocentista per Lollo, Sclavo e Grillo condotta da intellettuali talora consapevoli della loro colpevolezza per il rogo di Primavalle, a quella meno nota ma altrettanto incredibile — riletta con gli occhi di oggi —in favore dell’assassino di Carlo Falvella, che mentre è in carcere per omicidio vince il premio Viareggio per le sue poesie politiche (e viene accostato da Giorgio Caproni, Camilla Cederna e Alberto Moravia ora a Ungaretti, ora a Gozzano, ora a Gramsci); dal surreale dibattito seguito alla morte di Stefano Cecchetti, figlio di comunisti, reo di frequentare il bar dei neri (i militanti scrivono a Lotta continua o telefonano a Radio Onda Rossa: «Chi se ne frega se era o no fascista, lui lì non ci doveva stare»), alle solidarietà che ancora a fine anni Ottanta vengono riservate agli assassini di Ramelli.
«Fantasmi del passato: arresti in Dp per l’antifascismo di dieci anni fa» titola Reporter. Il manifesto ironizza sul giudice Salvini, oggi molto apprezzato a sinistra ma di cui allora Giovanna Pajetta scrive che «su Salvini circola una battuta: è occupato, sta firmando un mandato di cattura contro se stesso». E il mite Mario Capanna: «La mobilitazione antifascista di quegli anni è troppo importante per poter essere lasciata stravolgere da un’inchiesta giudiziaria».
Indimenticabile poi l’arringa dell’avvocato Pecorella, oggi legale e deputato di Berlusconi, che difendendo uno degli aggressori del bar Porto di Classe (il gruppo è lo stesso dell’omicidio Ramelli, che stavolta ha lasciato sul terreno un ragazzo destinato a restare paralizzato) sostiene: «Togliere spazio e agibilità ai fascisti non è un reato,ma una legittima applicazione di un principio costituzionale (…).
Come si vede, dunque, anche assaltare un bar poteva avere un fine di alto valore morale e sociale». Telese racconta con uno stile molto personale, talora enfatico ma sempre efficace, sommando testimonianze raccolte di prima mano, cronache dell’epoca, atti giudiziari, volantini, slogan, canzoni, racconti dei protagonisti e dei loro parenti, amici, eredi. C’è Cossiga che sfugge a un’agguato dei Nar a Porta del Popolo, e rivela di aver coperto e forse salvato il capitano Sivori, l’agente che ad Acca Larentia spara sui missini in rivolta davanti ai cadaveri di due camerati e ne uccide un terzo, Stefano Recchioni (l’allora ministro dell’Interno dispone che sia mandato in vacanza per sottrarlo alla rappresaglia).
Ci sono i ragazzi neri diventati deputati di An, alcuni dei quali non hanno perso nulla dell’antica tracotanza (come l’onorevole neoborbonico Losurdo che racconta sghignazzando di quando dai tetti di Pavia sparò razzi sulla folla che ascoltava il comizio di Alekos Panagulis, avversario dei colonnelli greci).
C’è Assunta Almirante, che entra in scena nei ricordi dei militanti sbigottiti «con una specie di tunica con le frange, una roba un po’ etnica, oggi si direbbe fricchettona».
E c’è il marito Giorgio, di cui non si tacciono gli aspetti che possono apparire odiosi—a cominciare dalla spedizione contro l’università occupata nel 1968—ma che in molte pagine del libro giganteggia.
Interrompe la campagna elettorale per vegliare Venturini ferito, poi porta a vivere per anni a casa sua il figlio Walter; paga sino alla morte — e all’insaputa di donna Assunta — un vitalizio alle famiglie Giralucci e Mazzola; invita a cena i genitori di Falvella (il padre morirà suicida); il più piccolo dei fratelli Mattei e la sorella di Mario Zicchieri raccontano di lui come di una persona di famiglia; e quando all’autogrill di Cantagallo (Bologna) i camerieri comunisti si rifiutano di servirlo, mentre il seguito strepita e minaccia — e qualcuno organizzerà una spedizione punitiva — Almirante si alza senza una parola e rasserena la moglie: «È normale, è la battaglia politica».
Alla sua ombra cresce un giovane Gianfranco Fini, già allora il più intelligente, anche se ai camerati appare più che altro pavido: così lo aggrediscono quando si oppone alla rappresaglia per la morte di Mantakas.
In via Acca Larentia c’è anche lui, ma non in giaccone militare, in mimetica o in maglione come gli altri; con un impermeabile bianco (e viene colpito alla gamba da un candelotto lacrimogeno sparato dagli agenti).
Ma quando appare la firma dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari, Fini scrive sulla rivista Dissenso che «potrebbe essere una sigla inventata dal regime»; e nell’anniversario di Acca Larentia è lui, con Gasparri e Urso, a insistere per tenere comunque una manifestazione vietata, a prezzo della vita del giovane Alberto Giaquinto e contro la volontà di Fioravanti e Mambro (che racconta di aver condannato per questo Urso a morte, senza avere il coraggio di eseguire la sentenza.
«Davvero? Ma se veniva a mangiare la pasta alla norma a casa mia!», sobbalza il viceministro quando Telese intervistandolo glielo racconta).
Poi ci sono loro, i «cuori neri».
Raffigurati com’erano: talora criminali, talora innocenti; talora decisi a mimare la guerra civile dei padri, talora ansiosi di trovare un ponte con i coetanei di sinistra.
Anche perché alcuni erano cresciuti nelle loro fila. In un elenco che forse qualcuno tenterà di smentire, Telese annovera Gianni De Michelis, i deputati diessini Massimo Brutti e Vincenzo Siniscalchi, Mario Moretti, Renato Curcio, il cantante Sergio Caputo. Enrico Montesano esordisce nel «varietà di destra» di Pingitore su raccomandazione del padre, portiere nel palazzo dove ha sede l’Msi.
E Michele Placido racconta di aver fatto politica nella Giovane Italia: «Nessuno finora me l’avevamai chiesto; altrimenti avrei detto la verità».
Il libro di Luca Telese, «Cuori neri» Sperling & Kupfer
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