ANNIVERSARIO 2 – Dal socialismo alla rivoluzione secondo Che Guevara
Cronaca Regionale

ANNIVERSARIO 2 – Dal socialismo alla rivoluzione secondo Che Guevara

Che_motoANNIVERSARIO – 44 anni fa moriva il “Che”

Il 9 Ottobre 1967, Ernesto Guevara, detto il “Che” (per la sua abitudine di pronunciare questa breve parola in mezzo ad ogni suo discorso, una specie di cioè), veniva assassinato da un gruppo di militari boliviani dopo la sua cattura. Alla scoperta del suo fascino d’eroe maledetto.

Dopo aver partecipato da protagonista alla rivoluzione cubana, dopo aver spostato il movimento castrista e lo stesso Fidel Castro su posizioni vicine al comunismo, aveva abbandonato i suoi incarichi di governo e aveva cominciato una nuova impresa rivoluzionaria in Bolivia.

Un tentativo disperato compiuto con un gruppo ristretto di seguaci senza alcun sostegno da parte di Cuba e del movimento comunista internazionale.

Forse la ricerca di una morte gloriosa che ponesse fine alle sue contraddizioni di rivoluzionario davanti ai problemi del socialismo reale.

La sua morte e la sua figura sono un mito per i giovani di tutto il mondo.

Aldilà delle ideologie ha rappresentato e rappresenta l’inquietudine, il coraggio e la romantica sfortunata disperazione di chi si trova ad affrontare una morte precoce per rendere immortali i suoi principi.

E’ opportuno parlare,  anche oggi che la caduta del muro e la rottura degli schemi allontana molti da quella politica fatta di sezioni, ideali, bandiere e simboli, dell’icona ormai quarantennale di Che Guevara?

E comunque, in caso di risposta affermativa, come parlarne?

In mille modi, da sinistra, da desta, da giovani e da ragazzi, da sognatori o disincantanti, come del resto sono le immagini che lo raffigurano e spesso usate dalla pubblicità dissacerante militante, a quella serie o commerciale che lo vuole su bandiere, poster e felpe, con una potenza che nell’immaginario globale collettivo ha reso dell’icona pop Che Guevara, simbolo giovanile dell’avventuriero moderno, non dovesse riguardare soprattutto chi ha la pretesa di intercettare – e comprendere fino in fondo – i fermenti esistenziali delle nuove generazioni di oggi (e dell’altro ieri).

Del resto a più di 40 anni della sua disperata morte in Bolivia: il 9 ottobre 1967, all’età di soli trentanove anni, film, libri, recensioni, articoli, tesi di laurea,  hanno il grande pregio di rispondere alla perfezione a queste due domande, senza dogmi e senza retorica.

Certo che dobbiamo parlare di Che Guevara, perché così generazioni distanti da loro, nei tempi e nei ceti sociali, di estrazioni politiche e culturali distanti, riescano a capire meglio un fenomeno di costume che solo in apparenza e superficialmente appartiene a una tradizione culturale totalmente altra, da chi la guarda superficialmente. Ma che unisce anima, cuore, fantasia, ideale.

Perché conoscendo questa figura di eroe ed antieroe insieme si riesce a capire certi segreti intrecci dell’anima e dell’immaginario che, invece, categorie tutte ideologiche e dogmatiche non riescono a penetrare e si riesce a capire quanta passione politica si possa esprimere anche dentro l’orizzonte della modernità.

Lasciamo stare la pigrizia mentale delle catalogazioni da salotto politichese e cerchiamo piuttosto di arrivare, col racconto e un approfondimento per connessioni, ai significati profondi che Che Guevara, come uomo e come mito dell’immaginario collettivo, porta con sé: significati che si innestano in una tradizione culturale non certo terzomondista ma tutta, tutta europea.

E in primo luogo, allora, si capisce come le magliette con l’immagine del Che in Europa non siano affatto un’appropriazione indebita, non siano solo moda globalizzata e, soprattutto, non siano per niente ideologia.

“Il non-europeo Guevara – scrisse Ludovico Incisa – non si presenta infatti come una figura del Terzo Mondo, ma come una figura occidentale senza riscontro in aree extraeuropee, dal mondo arabo all’Africa, alla Cina, al Vietnam, all’India” e continuando “Sul piano storico-politico la figura del Che si comprende meglio all’interno della tradizione culturale che affonda le sue radici nelle intemperie incandescente e immaginifica del Novecento, nel quadro, cioè, di “quel volontarismo europeo, di una giovane borghesia volontarista, disposta a vincere o a perdere, pronta nella guerra o nell’insurrezione a giocare il tutto per tutto e specialmente se stessa, l’élite dei reparti d’assalto”.

Che Guevara, insomma, come l’erede legittimo del mito dell’esperienza della guerra come catarsi esistenziale ed esperienza di liberazione individuale, che ha affascinato, come lo descrive Gorge Mosse, i volontari delle guerre europee.

che_spiegelche_timeGuevara erede, si potrebbe aggiungere, di quella Generazione ’14 magicamente descritta da Robert Wohl nel suo Storia di una generazione e cantata da Ezra Pound già nel 1920: “Audacia mai veduta, scempio mai veduto. / Sangue giovane e sangue nobile, / Rosee guance e bei corpi; / vigore mai veduto / sincerità mai veduta, / disinganni mai detti in passato / isterismi, confessioni di trincea, / risa di vetri morti. / Morirono a migliaia, / e i migliori, fra quelli, / per una vecchia cagna sdentata, / per una civiltà rattoppata…”.

Il Che rifiuta a ogni costo un monologo intellettuale già sbiadito, respinge la decadenza e dimostra un assoluta ripugnanza per effetti letterali e gesti teatrali, ma è capace con la sua immagine di cancellare ogni sconfitta, di affascinare e commuovere.

Questo comunista atipico “senza tessera, malvisto da Mosca e da Pechino, non apparteneva alla stirpe dei Lenin, degli Stalin e tanto meno dei vecchi burocrati dell’ultimo ciclo sovietico. La sua stirpe, per vederla con un taglio europeo, era quella dei Marinetti e dei Papini, dei Drieu La Rochelle e dei Louis-Ferdinand Céline, degli Ernst Jünger, dei Giuseppe Prezzolini.

Quello stesso Prezzolini che, ancora negli anni Sessanta, riusciva a interpretare le insofferenze dei nuovi “barbari”:

“La gioventù di oggi che si riunisce in bande, che veste in modo strano, con una specie di uniforme del ‘vizio’ e si arruola subito in qualunque disordinata attività, non è attratta da assicurazioni sociali, da posti garantiti, dalla carriera…

E’ una gioventù che anela all’avventura, cerca un mondo dove non ci sia sicurezza ma rischio, dove quello che avverrà quando ci si entra è sconosciuto, misterioso, pericoloso, e perciò grandemente attraente”.

In buona compagnia di Prezzolini, ha ragione Incisa di Camerana secondo il quale Che Guevara “era rimasto per sempre giovane lettore di Salgari”.

Forse è per questo che ormai il Guevara che attrae di più – anche all’inizio del Ventunesimo secolo – è quello dei suoi viaggi in motocicletta per l’America Latina. Profondamente europeo, proprio per questo “il Che ha chiesto a una giovane generazione della classe media latinoamericana un compito impossibile: la mobilitazione delle masse e la formazione di un esercito rivoluzionario.

Una minoranza ha aderito al suo appello, in molti casi senza credere in una possibilità di vittoria, ma cedendo al fascino delle cause perdute, delle imprese senza speranza, della bella morte, lo stesso fascino che nell’Ottocento ha attirato i fratelli Bandiera e poi i 300 di Carlo Pisacane a sbarcare in Calabria, i bersaglieri lombardi e lo stesso Garibaldi alla difesa della Repubblica romana, e nel Novecento ha provocato l’inutile e sanguinosa rivolta dei patrioti irlandesi nella Pasqua del 1915 a Dublino, i Freikorps in Germania, la Guardia Bianca in Russia e ancora l’avventura di D’Annunzio a Fiume…”.

Viene allora da pensare, oltre la storia, che la sua stirpe sarebbe piuttosto quella degli eroi senza tempo come Sandokan, Zorro o Don Chisciotte, dei nobili eroi che nei romanzi di cappa e spada combattono l’oppressione dei deboli per il trionfo della giustizia.

“L’ideale – ha potuto scrivere Stenio Solinas – il sogno, le chimere non sono ‘traducibili’ e rimandano, necessariamente, pena il fallimento, a un altro ideale, un altro sogno, un’altra chimera da seguire.

Che è poi la scoperta di se stessi. Lawrence d’Arabia termina in gloria la sua avventura araba ma si accorge che non gli è servita a nulla.

E la motocicletta di aviere sconosciuto diviene il suo cilicio e la sua tomba. D’Annunzio paga Fiume con il Vittoriale, con la condanna a essere un monumento vivente, già consegnato al passato.

Che Guevara trova, in una morte che sa più di sacrificio rituale che non di esatta comprensione delle ‘potenzialità rivoluzionarie’ esistenti in Bolivia, le ragioni per sentire, un’ultima volta ‘sotto i talloni gli zoccoli di Ronzinante; per ‘rimettersi in cammino con il suo ‘scudo al braccio’; per essere ‘un avventuriero di quelli che rischiano la pelle per dimostrare la loro verità’ e per uscirsene, a trentanove anni, da una rivoluzione nella quale per lui non vi era più posto”.

In Italia, non a caso, una delle prime canzoni dedicate a quella morte eroica fu scritta da Pier Francesco Pingitore per i “Dischi del Bagaglino”.

La cantava Gabriella Ferri:

“Addio Che / la gente come te / non muore nel suo letto / non crepa di vecchiaia … / Addio Che / come volevi tu / Sei morto in un giorno solo / e non poco per volta…”

Alla domanda “Chi ha ucciso Che Guevara?”, un suo biografo ha risposto:

“I nemici e lui stesso”. Questo significa, commenta Incisa, che il Che aveva completato con la sua morte “un percorso eroico giunto al capolinea. Sopravvivendo avrebbe dovuto ricominciare da capo”.

In fondo, la persistenza del mito del Che nell’immaginario giovanile di questo inizio millennio si spiega anche così: con il culto del cavaliere solitario, senza macchia che parte contro le ingiustizie del mondo:

“Un’immagine antica che rinasce nella modernità e che – ha spiegato l’antropologo Francesco Macello – rimanda più alla mitologia arturiana che non alla vulgata del marxismo-leninismo in cui, nel fare la storia, gli individui, sono sopraffatti dalla ineluttabilità delle masse”.

Un eroe solo, il Che, erede legittimo della cultura e dell’immaginario europeo, comunista atipico, mai burocrate, un anarco-individualista in cerca di avventura e di senso interiore, l’ultimo mito rimasto indenne dalle rovine del Novecento, figlio di D’Annunzio e Garibaldi, fratello di James Dean, con Sandokan e Zorro nella bisaccia e Don Chisciotte della Mancia itatuato a caldo in un’ “anima avventurosa”;

Che Guevara icona popolare e modernissima, una sorta di Corto Maltese vissuto realmente, che viaggia oltre le ideologie per parlare a giovani ancora capaci di continuare a sognare altri mondi, altre vite.

“E’ nata, alimentata da un’iconografia suggestiva, che documenta le sue avventure fino al martirio, una leggenda romantica o romanzesca ma svincolata da pregiudiziali ideologiche”.

Non abbandoniamolo alle grinfie di chi ha fatto dell’ideologia una scuola di vita:

Non lasciamo marcire il mito là dove i miti non vengono capiti. Un Ernesto Che Guevara, che è impossibile considerare “dall’altra parte”, perché non ha “una parte”, viaggia ancora solo, senza briglie né sella, come scrisse Jean Cau, su strade che con l’ideologia le contrapposizioni dogmatiche non hanno nulla, ma proprio nulla, a che fare.

F. R. & M.S.M.

 

Che_GuevaraIl pensiero di Ernesto Che Guevara ha vissuto una profonda evoluzione.

Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Dalla critica crescente al modello sovietico fino all’elaborazione di una riflessione originale

Giorno dopo giorno, Ernesto Che Guevara ha abbandonato le illusioni iniziali sull’Urss e sul marxismo di stampo sovietico.

In una lettera del 1965 al suo amico Armando Hart (ministro cubano della cultura), critica duramente il «conformismo ideologico» che a Cuba si manifesta nella pubblicazione di manuali sovietici per l’insegnamento del marxismo – un punto di vista analogo a quello sostenuto nello stesso periodo da Fernando Martinez Heredia, Aurelio Alonso e dai loro amici del dipartimento di filosofia dell’Università dell’Avana, editori della rivista Pensamiento critico.

Questi manuali – che chiama i «mattoni sovietici» – «hanno l’inconveniente – scrive – che non ti lasciano pensare: il Partito l’ha già fatto al tuo posto e tu devi solo digerire la lezione».

Sempre più esplicitamente, si percepisce la ricerca di un modello altro, un metodo diverso di costruzione del socialismo più radicale, più egualitario, più solidale.
Il «Discorso di Algeri»

L’opera del Che non è un sistema chiuso, un ragionamento compiuto che ha una risposta per tutto: su molte questioni – la democrazia socialista, la lotta contro la burocrazia – la sua riflessione rimane incompleta, interrotta dalla morte nel 1967 e dunque incompiuta. Ma, a questo riguardo, Martinez Heredia fa bene a sottolineare: «L’incompiutezza del pensiero del Che (…) ha anche aspetti positivi. Il grande pensatore indica dei problemi e dei percorsi (…), pretende dai suoi compagni che pensino, studino, uniscano pratica e teoria. Se si assume il suo punto di vista, diventa impossibile dogmatizzare il suo pensiero e convertirlo in un (…) blocco (…) di proposizioni e prescrizioni».

In un primo tempo – dal 1960 al ’62- Guevara ha riposto molte speranze nei «paesi fratelli» del cosiddetto «socialismo reale». Dopo alcune visite in Unione sovietica e negli altri paesi dell’Est, e dopo l’esperienza dei primi anni di transizione verso il socialismo a Cuba, si mostra sempre più critico. Le sue divergenze sono espresse pubblicamente in diverse occasioni e in particolare, nel 1965, nel celebre «Discorso d’Algeri». Ma il suo tentativo di formulare un approccio originale al socialismo inizia negli anni 1963-’64, durante il grande dibattito economico che coinvolge Cuba.

Tale dibattito contrappose allora i fautori di una sorta di «socialismo di mercato», con autonomia delle aziende e ricerca del profitto- come in Urss – a Guevara, che difendeva la pianificazione centralizzata fondata su criteri sociali, politici ed etici: piuttosto che premi di produzione e prezzi determinati dal mercato, egli propone di rendere gratuiti alcuni beni e servizi. Una questione, tuttavia, rimane poco chiara negli interventi del Che: chi prende le decisioni economiche fondamentali? In altri termini, il problema della democrazia nella pianificazione.

Su questo e su molti altri temi, alcuni documenti inediti di Guevara recentemente pubblicati a Cuba offrono nuove prospettive. Si tratta delle sue «Note critiche» al Manuale d’economia politica dell’Accademia delle scienze dell’Urss (edizione spagnola del 1963) – uno di quei «mattoni» di cui parlava nella lettera a Hart – redatte durante il suo soggiorno in Tanzania e soprattutto a Praga, nel 1965-’66: né un libro né un saggio, ma una collezione d’estratti dell’opera sovietica spesso seguiti da commenti acidi e ironici.

Che-Guevara-11Da molto tempo, troppo tempo, si attendeva la pubblicazione di questo documento. Per decenni è stato «fuori circolazione»: solo qualche ricercatore cubano è stato autorizzato a consultarlo e citarne dei passaggi. Grazie a Maria del Carmen Ariet Garcia del centro studi Che Guevara dell’Avana, che ne ha curato l’edizione, esso è ora a disposizione dei lettori interessati. Questa edizione aggiornata contiene d’altronde altri materiali inediti: una lettera a Fidel Castro dell’aprile 1965, che fa da prologo al libro; note su degli scritti di Marx e di Lenin; una selezione dei verbali delle conversazioni tra Guevara e i suoi collaboratori del ministero dell’industria (1963-’65) – già parzialmente pubblicate in Francia e in Italia negli anni ’70; lettere a diverse personalità (Paul Sweezy, Charles Bettelheim); brani di un’intervista con il periodico egiziano Al-Taliah (aprile 1965).

L’opera testimonia allo stesso tempo l’indipendenza mentale di Guevara, la presa di distanza dal «socialismo reale» e la ricerca di una via radicale. Essa mostra anche i limiti della sua riflessione.

Cominciamo da questi: il Che, fino a quel momento – si ignora se la sua analisi a tale proposito sia proseguita nel 1966-’67 – non ha capito la questione dello stalinismo. Egli attribuisce le impasse dell’Urss negli anni ’60… alla nuova politica economica (Nep) di Lenin! Certamente, ritiene che, se Lenin avesse vissuto più a lungo – « Ha commesso l’errore di morire», annota con spirito- ne avrebbe corretto gli aspetti più arretrati. Rimane tuttavia convinto che l’introduzione di elementi capitalistici con la Nep abbia portato a profonde derive, andando nel senso della restaurazione del capitalismo, che si osserva nell’Unione sovietica del 1963.

Tuttavia, non tutte le critiche di Guevara alla Nep sono fuori luogo.

Esse coincidono talvolta con quelle dell’opposizione di sinistra (in Urss) del 1925-’27; per esempio, quando osserva che «i quadri si sono alleati al sistema, costituendo una casta privilegiata». Ma l’ipotesi storica che rende la Nep responsabile delle tendenze procapitalistiche nell’Urss di Leonid Brejnev è evidentemente poco pertinente. Non che Guevara ignori il ruolo nefasto di Stalin… In una delle «Note critiche» affiora questa frase precisa e sorprendente: «Il terribile crimine storico di Stalin fu l’aver disprezzato l’educazione comunista e istituito il culto illimitato dell’autorità». Se questa non è ancora un’analisi del fenomeno staliniano, ne è già un categorico rigetto.

che11Nel «Discorso d’Algeri», Guevara esigeva dai paesi che si dichiaravano socialisti di sbarazzarsi «della loro tacita complicità con i paesi occidentali sfruttatori», che si traduceva in rapporti di scambio ineguale con i popoli in lotta contro l’imperialismo. La questione riappare più volte nelle «Note critiche» sul manuale sovietico. Mentre gli autori dell’opera ufficiale sottolineano l’«aiuto reciproco» tra i paesi socialisti, l’ex-ministro dell’industria cubana deve ammettere che ciò non corrisponde alla realtà: «Se l’internazionalismo proletario guidasse gli atti dei governi di ogni paese socialista (…) sarebbe un successo.

Ma l’internazionalismo è sostituito dallo sciovinismo (della grande potenza o del piccolo paese) o la sottomissione all’Urss (…). Questo distrugge i sogni onesti dei comunisti del mondo».

Il cesto di granchi

Qualche pagina più avanti, commentando ironicamente l’elogio da parte del manuale della divisione del lavoro tra paesi socialisti fondata su una «fraterna collaborazione», Guevara osserva: «Quel cesto di granchi che è il Consiglio di mutuo aiuto economico smentisce tale affermazione nella pratica. Il testo si riferisce a un ideale possibile solo attraverso la pratica reale dell’internazionalismo proletario, ma oggi esso è tristemente assente». Nella stessa direzione, un altro passaggio constata con amarezza che, nei rapporti tra paesi che si rivendicano socialisti, si trovano «fenomeni d’espansionismo, di scambio ineguale, di concorrenza, finanche di sfruttamento e certamente di sottomissione degli stati deboli ai forti».

Infine, quando il manuale parla della «costruzione del comunismo» in Urss, il critico pone la domanda retorica: «Si può costruire il comunismo in un solo paese?» Un’altra nota in tal senso: Lenin, constata il Che, «ha nettamente affermato il carattere universale della rivoluzione, cosa che in seguito è stata negata» – un riferimento trasparente al «socialismo in un solo paese».
La maggior parte delle critiche di Guevara al manuale sovietico corrisponde ai suoi documenti economici degli anni 1963-’64: difesa della pianificazione centrale contro la legge del valore e contro le fabbriche autonome regolate dal mercato; difesa dell’educazione comunista contro le motivazioni monetarie individuali. Si preoccupa anche dell’interesse materiale dei dirigenti delle fabbriche, che considera come un principio di corruzione.

Guevara difende la pianificazione come l’asse centrale del processo di costruzione del socialismo, in quanto «libera l’essere umano dalla condizione di cosa economica». Ma riconosce – nella lettera a Fidel – che a Cuba «i lavoratori non partecipano alla costruzione del piano».

Chi deve pianificare? Il dibattito del 1963-’64 non aveva dato una risposta. È in questo campo che le «Note critiche» del 1965-’66 presentano i progressi più interessanti: alcuni passaggi pongono chiaramente il principio di una democrazia socialista in cui le grandi decisioni economiche sono prese dal popolo stesso. Le masse, scrive il Che, devono partecipare all’elaborazione del piano, mentre la sua esecuzione è una questione puramente tecnica.

Nell’Urss, secondo lui, la concezione del piano come «decisione economica delle masse, consapevoli del proprio ruolo» è stato sostituito da un placebo, mentre le leve economiche determinano tutto. Le masse, insiste, «devono avere la possibilità di dirigere il loro destino, decidere quanto va destinato all’accumulazione e quanto al consumo»; la tecnica economica deve operare con queste cifre – decise dal popolo -, e «la coscienza delle masse deve assicurare la sua realizzazione».

Che-Guevara-Hot-Wallpapers-4il popolo deve decidere

Il tema torna a più riprese: gli operai, scrive, il popolo in generale, «decideranno sui grandi problemi del paese (tasso di crescita, accumulo-consumo)», anche se il piano sarà opera di specialisti. Una separazione così meccanica tra le decisioni economiche e la loro esecuzione è discutibile; ma, con queste formulazioni, Guevara si avvicina notevolmente all’idea di pianificazione socialista democratica. Non ne trae ancora tutte le conclusioni politiche – democratizzazione del potere, pluralismo politico, libertà d’organizzazione -, ma non si può contestare l’importanza di questa nuova visione della democrazia economica.

Queste note possono essere considerate una tappa importante nel cammino di Guevara verso un’alternativa comunista democratica al modello sovietico.

Un percorso brutalmente interrotto, nell’ottobre del 1967, da assassini boliviani al servizio della Central intelligence agency (Cia).

10 Ottobre 2011

Autore:

admin


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