Il 9 Ottobre 1967, Ernesto Guevara, detto il “Che” (per la sua abitudine di pronunciare questa breve parola in mezzo ad ogni suo discorso, una specie di cioè), veniva assassinato da un gruppo di militari boliviani dopo la sua cattura. Alla scoperta del suo fascino d’eroe maledetto.
Dopo aver partecipato da protagonista alla rivoluzione cubana, dopo aver spostato il movimento castrista e lo stesso Fidel Castro su posizioni vicine al comunismo, aveva abbandonato i suoi incarichi di governo e aveva cominciato una nuova impresa rivoluzionaria in Bolivia.
Un tentativo disperato compiuto con un gruppo ristretto di seguaci senza alcun sostegno da parte di Cuba e del movimento comunista internazionale.
Forse la ricerca di una morte gloriosa che ponesse fine alle sue contraddizioni di rivoluzionario davanti ai problemi del socialismo reale.
La sua morte e la sua figura sono un mito per i giovani di tutto il mondo.
Aldilà delle ideologie ha rappresentato e rappresenta l’inquietudine, il coraggio e la romantica sfortunata disperazione di chi si trova ad affrontare una morte precoce per rendere immortali i suoi principi.
E’ opportuno parlare, anche oggi che la caduta del muro e la rottura degli schemi allontana molti da quella politica fatta di sezioni, ideali, bandiere e simboli, dell’icona ormai quarantennale di Che Guevara?
E comunque, in caso di risposta affermativa, come parlarne?
In mille modi, da sinistra, da desta, da giovani e da ragazzi, da sognatori o disincantanti, come del resto sono le immagini che lo raffigurano e spesso usate dalla pubblicità dissacerante militante, a quella serie o commerciale che lo vuole su bandiere, poster e felpe, con una potenza che nell’immaginario globale collettivo ha reso dell’icona pop Che Guevara, simbolo giovanile dell’avventuriero moderno, non dovesse riguardare soprattutto chi ha la pretesa di intercettare – e comprendere fino in fondo – i fermenti esistenziali delle nuove generazioni di oggi (e dell’altro ieri).
Del resto a più di 40 anni della sua disperata morte in Bolivia: il 9 ottobre 1967, all’età di soli trentanove anni, film, libri, recensioni, articoli, tesi di laurea, hanno il grande pregio di rispondere alla perfezione a queste due domande, senza dogmi e senza retorica.
Certo che dobbiamo parlare di Che Guevara, perché così generazioni distanti da loro, nei tempi e nei ceti sociali, di estrazioni politiche e culturali distanti, riescano a capire meglio un fenomeno di costume che solo in apparenza e superficialmente appartiene a una tradizione culturale totalmente altra, da chi la guarda superficialmente. Ma che unisce anima, cuore, fantasia, ideale.
Perché conoscendo questa figura di eroe ed antieroe insieme si riesce a capire certi segreti intrecci dell’anima e dell’immaginario che, invece, categorie tutte ideologiche e dogmatiche non riescono a penetrare e si riesce a capire quanta passione politica si possa esprimere anche dentro l’orizzonte della modernità.
Lasciamo stare la pigrizia mentale delle catalogazioni da salotto politichese e cerchiamo piuttosto di arrivare, col racconto e un approfondimento per connessioni, ai significati profondi che Che Guevara, come uomo e come mito dell’immaginario collettivo, porta con sé: significati che si innestano in una tradizione culturale non certo terzomondista ma tutta, tutta europea.
E in primo luogo, allora, si capisce come le magliette con l’immagine del Che in Europa non siano affatto un’appropriazione indebita, non siano solo moda globalizzata e, soprattutto, non siano per niente ideologia.
“Il non-europeo Guevara – scrisse Ludovico Incisa – non si presenta infatti come una figura del Terzo Mondo, ma come una figura occidentale senza riscontro in aree extraeuropee, dal mondo arabo all’Africa, alla Cina, al Vietnam, all’India” e continuando “Sul piano storico-politico la figura del Che si comprende meglio all’interno della tradizione culturale che affonda le sue radici nelle intemperie incandescente e immaginifica del Novecento, nel quadro, cioè, di “quel volontarismo europeo, di una giovane borghesia volontarista, disposta a vincere o a perdere, pronta nella guerra o nell’insurrezione a giocare il tutto per tutto e specialmente se stessa, l’élite dei reparti d’assalto”.
Che Guevara, insomma, come l’erede legittimo del mito dell’esperienza della guerra come catarsi esistenziale ed esperienza di liberazione individuale, che ha affascinato, come lo descrive Gorge Mosse, i volontari delle guerre europee.
Guevara erede, si potrebbe aggiungere, di quella Generazione ’14 magicamente descritta da Robert Wohl nel suo Storia di una generazione e cantata da Ezra Pound già nel 1920: “Audacia mai veduta, scempio mai veduto. / Sangue giovane e sangue nobile, / Rosee guance e bei corpi; / vigore mai veduto / sincerità mai veduta, / disinganni mai detti in passato / isterismi, confessioni di trincea, / risa di vetri morti. / Morirono a migliaia, / e i migliori, fra quelli, / per una vecchia cagna sdentata, / per una civiltà rattoppata…”.
Il Che rifiuta a ogni costo un monologo intellettuale già sbiadito, respinge la decadenza e dimostra un assoluta ripugnanza per effetti letterali e gesti teatrali, ma è capace con la sua immagine di cancellare ogni sconfitta, di affascinare e commuovere.
Questo comunista atipico “senza tessera, malvisto da Mosca e da Pechino, non apparteneva alla stirpe dei Lenin, degli Stalin e tanto meno dei vecchi burocrati dell’ultimo ciclo sovietico. La sua stirpe, per vederla con un taglio europeo, era quella dei Marinetti e dei Papini, dei Drieu La Rochelle e dei Louis-Ferdinand Céline, degli Ernst Jünger, dei Giuseppe Prezzolini.
Quello stesso Prezzolini che, ancora negli anni Sessanta, riusciva a interpretare le insofferenze dei nuovi “barbari”:
“La gioventù di oggi che si riunisce in bande, che veste in modo strano, con una specie di uniforme del ‘vizio’ e si arruola subito in qualunque disordinata attività, non è attratta da assicurazioni sociali, da posti garantiti, dalla carriera…
E’ una gioventù che anela all’avventura, cerca un mondo dove non ci sia sicurezza ma rischio, dove quello che avverrà quando ci si entra è sconosciuto, misterioso, pericoloso, e perciò grandemente attraente”.
In buona compagnia di Prezzolini, ha ragione Incisa di Camerana secondo il quale Che Guevara “era rimasto per sempre giovane lettore di Salgari”.
Forse è per questo che ormai il Guevara che attrae di più – anche all’inizio del Ventunesimo secolo – è quello dei suoi viaggi in motocicletta per l’America Latina. Profondamente europeo, proprio per questo “il Che ha chiesto a una giovane generazione della classe media latinoamericana un compito impossibile: la mobilitazione delle masse e la formazione di un esercito rivoluzionario.
Una minoranza ha aderito al suo appello, in molti casi senza credere in una possibilità di vittoria, ma cedendo al fascino delle cause perdute, delle imprese senza speranza, della bella morte, lo stesso fascino che nell’Ottocento ha attirato i fratelli Bandiera e poi i 300 di Carlo Pisacane a sbarcare in Calabria, i bersaglieri lombardi e lo stesso Garibaldi alla difesa della Repubblica romana, e nel Novecento ha provocato l’inutile e sanguinosa rivolta dei patrioti irlandesi nella Pasqua del 1915 a Dublino, i Freikorps in Germania, la Guardia Bianca in Russia e ancora l’avventura di D’Annunzio a Fiume…”.
Viene allora da pensare, oltre la storia, che la sua stirpe sarebbe piuttosto quella degli eroi senza tempo come Sandokan, Zorro o Don Chisciotte, dei nobili eroi che nei romanzi di cappa e spada combattono l’oppressione dei deboli per il trionfo della giustizia.
“L’ideale – ha potuto scrivere Stenio Solinas – il sogno, le chimere non sono ‘traducibili’ e rimandano, necessariamente, pena il fallimento, a un altro ideale, un altro sogno, un’altra chimera da seguire.
Che è poi la scoperta di se stessi. Lawrence d’Arabia termina in gloria la sua avventura araba ma si accorge che non gli è servita a nulla.
E la motocicletta di aviere sconosciuto diviene il suo cilicio e la sua tomba. D’Annunzio paga Fiume con il Vittoriale, con la condanna a essere un monumento vivente, già consegnato al passato.
Che Guevara trova, in una morte che sa più di sacrificio rituale che non di esatta comprensione delle ‘potenzialità rivoluzionarie’ esistenti in Bolivia, le ragioni per sentire, un’ultima volta ‘sotto i talloni gli zoccoli di Ronzinante; per ‘rimettersi in cammino con il suo ‘scudo al braccio’; per essere ‘un avventuriero di quelli che rischiano la pelle per dimostrare la loro verità’ e per uscirsene, a trentanove anni, da una rivoluzione nella quale per lui non vi era più posto”.
In Italia, non a caso, una delle prime canzoni dedicate a quella morte eroica fu scritta da Pier Francesco Pingitore per i “Dischi del Bagaglino”.
La cantava Gabriella Ferri:
“Addio Che / la gente come te / non muore nel suo letto / non crepa di vecchiaia … / Addio Che / come volevi tu / Sei morto in un giorno solo / e non poco per volta…”
Alla domanda “Chi ha ucciso Che Guevara?”, un suo biografo ha risposto:
“I nemici e lui stesso”. Questo significa, commenta Incisa, che il Che aveva completato con la sua morte “un percorso eroico giunto al capolinea. Sopravvivendo avrebbe dovuto ricominciare da capo”.
In fondo, la persistenza del mito del Che nell’immaginario giovanile di questo inizio millennio si spiega anche così: con il culto del cavaliere solitario, senza macchia che parte contro le ingiustizie del mondo:
“Un’immagine antica che rinasce nella modernità e che – ha spiegato l’antropologo Francesco Macello – rimanda più alla mitologia arturiana che non alla vulgata del marxismo-leninismo in cui, nel fare la storia, gli individui, sono sopraffatti dalla ineluttabilità delle masse”.
Un eroe solo, il Che, erede legittimo della cultura e dell’immaginario europeo, comunista atipico, mai burocrate, un anarco-individualista in cerca di avventura e di senso interiore, l’ultimo mito rimasto indenne dalle rovine del Novecento, figlio di D’Annunzio e Garibaldi, fratello di James Dean, con Sandokan e Zorro nella bisaccia e Don Chisciotte della Mancia itatuato a caldo in un’ “anima avventurosa”;
Che Guevara icona popolare e modernissima, una sorta di Corto Maltese vissuto realmente, che viaggia oltre le ideologie per parlare a giovani ancora capaci di continuare a sognare altri mondi, altre vite.
“E’ nata, alimentata da un’iconografia suggestiva, che documenta le sue avventure fino al martirio, una leggenda romantica o romanzesca ma svincolata da pregiudiziali ideologiche”.
Non abbandoniamolo alle grinfie di chi ha fatto dell’ideologia una scuola di vita:
Non lasciamo marcire il mito là dove i miti non vengono capiti. Un Ernesto Che Guevara, che è impossibile considerare “dall’altra parte”, perché non ha “una parte”, viaggia ancora solo, senza briglie né sella, come scrisse Jean Cau, su strade che con l’ideologia le contrapposizioni dogmatiche non hanno nulla, ma proprio nulla, a che fare.
F. R. & M.S.