Lo ripeteva spesso Nino Capitti, lui che da Termini, alle porte di Palermo, si era trasferito, chissà per quale motivo ma certamente c’entrava pure l’amore per donna Maria Marino, sua moglie a Brolo.
Capitti è stato certamente il decano dei pasticceri brolesi, che a lui devono molto.
Oggi la scuola della pasticceria brolese è nota a tutti, Armando, Antonio Raffaele, ed ancora Camelia, e prima anche Denaro ne hanno fatto un’eccellenza del paese, ed il dolce è diventato anche gelato, ma si può dire che quest’uomo elegante, impettito, severo nello sguardo, che ricordava gli attori americani del tempo, ma poi dolce come quello che impastava e amalgamava, trasformando farine e zuccheri in torte e paste, ha dato la svolta trasformando i baristi brolesi in maestri del gusto.
Iniziò un’ epoca oggi ben amministrata da chi a Brolo fa pasticceria “alla grande”.
Aprì la pasticceria lungo la via Libertà, nella casa di Piemonte, il farmacista, che l’aveva appena costruita – qui trasferì il laboratorio che prima aveva installato lungo il corso, vicino “a ‘za Maria”, tra la bottega di Arturo Caranna e l’attuale sede del Banco di Sicilia -.
Lui – Nino Capitti – abitava a pochi passi, nelle case popolari , con i figli Melitto, Pina e Rosa e spesso, anche di notte scendeva al laboratorio per controllare impasti e lievitature.
Aveva i suoi segreti e li custodiva gelosamente trasmettendoli solo agli allievi che a bottega giravano tra forno e impasti.
Ma Capitti faceva scuola per le paste secche, per i frollini di pasta frolla, per la torta moka e soprattutto per le proverbiali paste a tre strati.
Nino Capitti aveva portato a Brolo il “cuore” della pasticceria palermitana, curava i primi catering ( aveva un furgoncino strapuntinato di un bleu sbiadito, poi usato anche per le prime feste beat organizzate dai figli che animavano ed erano protagonisti della gioventù del tempo, quella che si riuniva intorno all’associazione culturale “Leonardo da Vinci”) , aveva centinaia di coppe di spumante dorate all’interno che custodina nelle cassette di legno, allestiva i matrimoni, con le palette da gelato in finto argento – anche alla sala del mulino, in via Trieste, dagli Scaffidi, dove poi si ballava anche per carnevale – e componeva le torte, quelle bianche, a più piani – con gli sposi di plastica in cima.
A quei tempi i dolci venivano preparati per le grandi occasioni – appunto come i matrimoni – o per le principali ricorrenze, ma Capitti iniziò a preparali quotidianamente … una rivoluzione della gola.
E se davvero ti doveva andar male trovavi sempre le “pesche”.
Un esempio del suo essere palermitano, ricordando l’abilità delle suore dei conventi nel riprodurle, lui sapeva fare di questo dolce una vera opera d’arte amplificando la dolcezza e la succosità grazie alla consistenza “spugnosa” e al goloso ripieno appena appena imbevuto dal liquore al kermes.
Un’opera completata con l’applicazione di due foglioline di pasta reale opportunamente colorate di verde – oggi sostituite da anonime foglie d’ostia – che, oltre ad essere un abbellimento, completano la tenuta delle due brioches che formavano la “pesca”..
Nella sua pasticceria non esistevano ricette scritte, le dosi per la preparazione dei prelibati dolci si tramandavano e si applicavano in maniera orale, e poi l’umidità, la temperatura stagionale, il tipo di impasto e la qualità delle mandorle, diventavano valori aggiunti…mescolati con l’esperienza.
Poi la pasticceria, anche per dar spazio alla farmacia , si trasferì sulla “nazionale”.
La sua pasticceria era divenuta, nel tempo, un punto di riferimento storico per golosi, intenditori e per quei viaggiatori che prima di ripartire non potevano rinunciare alle paste di mandorla, agli amaretti ed alle treccine senza tralasciare i frutti di marzapane, che lui decorava- ed era un grande – con solerzia e con maestria degna di pochi.
In pasticceria non c’era spazio per le macchine industriali, solo i tegami, forza delle braccia e l’amore per la tradizione.
Si entrava per Pasqua ed era un tripudio di pecorelle glassate, e la domenica, uscendo dalla messa, quella era una tappa obbligata, e si usciva avvolti dal profumo genuino dello zucchero, della noce moscata, dell’anice e dei chiodi di garofano.
Lo stesso profumo dei dolci della nonna, quelli fatti in casa.
Nino Capitti era lì, a mettere le ciliegine candite sui suoi dolci, attento a non eccedere mai su quanto produceva, la giusta dose, “domani sarà un altro giorno”, per aver tutto fresco e fragrante.
Poi è andato via, – alla fine degli anni ottanta – lasciando a tutti un “dolce” ricordo.
msm
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