di Simona Russo.
Ancora un intervento “sentito” a Brolo nel corso del Tributo a Fabrizio De Andrè.
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Anarchico, ribelle, insofferente degli schemi, programmaticamente antiborghese, e dalla parte di chi ha scelto storie e strade sbagliate, Fabrizio De Andrè ha espresso una speciale attenzione alle minoranze e ai “diversi”. Tra questi “disobbedienti” trattati da De Andrè, un posto privilegiato lo hanno avuto gli zingari.
Popolo nomade e non irregimentabile nelle regole della convivenza civile, non poteva che attirare su di sè – come gli indiani e i sardi – l’attenzione di Fabrizio. La cattiva strada (che ascolteremo tra poco) non parla degli zingari, ma in qualche modo li evoca usando nel ritornello la metafora della “cattiva strada” come scelta di non aderire alle leggi immobili della società ordinata.
La scelta di campo di Fabrizio De Andrè, per “gli umili e gli straccioni”, deriva dalla fedeltà alla tradizione politica del movimento anarchico e dalla straordinaria attrazione che ha avuto su di lui la figura di Gesù, definito da lui stesso “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”. L’album dedicato principalmente al tema degli emarginati è “Anime Salve” del quale protagoniste sono, appunto, quelle anime salve che lui ha voluto spiegare come “spiriti solitari”, individui di minoranza, fuori dal branco, ma che sono anche anime da salvare dall’oblio della grande storia e della società che fonda la propria scala di valori sul successo economico e professionale e sulla consacrazione dell’egoismo privatistico.
Fabrizio De Andrè nel ’97 disse “Il primo grande disagio l’uomo lo prova al momento della nascita, quando passa dall’acqua all’aria. Il secondo, quando si rende conto che il suo destino è morire. Alcuni, poi, ne provano un terzo: il disagio dell’isolamento”.
E in qualche modo Fabrizio ha sentito sulla propria pelle anche il terzo: che sia stato quell’occhio alla zuava che lo faceva sentire diverso e brutto, aumentandogli la timidezza, anche se poi le donne lo trovavano bellissimo; che sia stato un disagio esistenziale più profondo e inespresso, una fragilità psicologica che lo portò per lunghi anni alla dipendenza dalla bottiglia di whisky (Paolo Villaggio diceva che Fabrizio era divorato da un’ansia tremenda, quella di non farcela nella vita). In ogni caso lui sapeva di che parlava, quando raccontava le storie dei suoi emarginati, perchè dentro c’erano frammenti dolorosi della sua stessa vita, nonchè della sua stessa “cattiva strada”.
La debolezza, l’imperfezione sperimentate di persona, e l’assenza di criteri legalistici o moralistici di lettura della realtà, hanno portato De Andrè a solidarizzare sempre con i fragili, gli incerti, i diversi.
Per queste anime da riscoprire, da ascoltare, da non dimenticare Fabrizio De Andrè intona la Smisurata preghiera.
Le pagine scritte da Fabrizio De Andrè sui poveri e sui diseredati restano le più alte della sua produzione, e anche nel cantare le minoranze dolenti e gli spiriti solitari nella Smisurata preghiera, riappare la figura del figlio dell’uomo, il primo amico dei perdenti: colui che “ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio”, in un “vasto programma di eternità”
Simona Russo, studentessa