Categories: Cronaca Regionale

Capizzi 1943 – cronache di un massacro

 

Nel 1960, alla proiezione del film La ciociara diretto da Vittorio de Sica e ispirato dall’omonimo romanzo di Moravia, il pubblico rimase turbato dalla scena in cui la protagonista, interpretata da Sofia Loren, e la figlia venivano stuprate da soldati marocchini al seguito degli alleati. Si trattava purtroppo di uno spaccato realista dell’Italia del 1943, quando a margine dell’avanzata Anglo-americana,  già carica del dramma della guerra, si verificarono una serie di fatti di estrema violenza a danno della popolazione civile.

Comunemente si ritiene che queste violenze siano scoppiate dopo il 14 maggio del 1944 subito dopo la battaglia di Montecassino, quando in effetti il fenomeno divenne di una tale diffusione che la gestione divenne problematica tanto da rappresentare un vero problema diplomatico per gli Alleati. Il papa Pio XII informato, chiese ed ottenne dal presidente degli Sati Uniti Roosevelt e da de Gaulle che addirittura i soldati marocchini venissero allontanati dall’Italia.

Sebbene questi fatti avessero segnato in modo indelebile la memoria della popolazione, e nonostante nel dopoguerra si sentisse l’eco di qualche voce che si sollevava dal mondo politico, non fu mai resa giustizia alle vittime ed alla verità dei fatti.

Tra le pieghe della Storia però si nascondono altri tristi avvenimenti, messi da parte e trascurati.

Eppure ricercare la verità dei fatti può essere utile per comprendere come in quegli anni non sempre la distinzione tra bene e male fosse netta;  per capire come le vicende siano molto più complicate di come in genere vengono raccontate; per ricordare e non perdere la memoria e per poter finalmente rimarginare ferite rimaste aperte.

Il tragico fenomeno raccontato ebbe inizio in Sicilia nell’Agosto del 1943 e vide nei Nebrodi un luogo di particolare tensione. Ma è bene ricostruire con ordine quei fatti.

L’ operazione Husky, così come è stato chiamato il piano di invasione della Sicilia, era iniziata la notte tra il 9 ed il 10 luglio 1943.

Il piano prevedeva lo sbarco dell’Armata Americana sulla costa meridionale della Sicilia e proseguendo verso est nella costa settentrionale si sarebbe dovuta incontrare con l’Armata Inglese, a sua volta sbarcata sulla costa sud-orientale.

L’obiettivo di entrambe le armate era quello di aggirare il nemico e giungere a Messina per poter così impedire alle forze italotedesche di poter varcare lo stretto riparando verso il continente.

Le manovre delle due Armate subito dopo lo sbarco spinsero le truppe italotedesche, compresse verso la Sicilia nordorientale, a pianificare una fase di contenimento con lo scopo di evitare l’aggiramento e l’accerchiamento del nemico e soprattutto consentire alle forze militari presenti sull’Isola di essere trasferite sul continente. Ci fu quindi una reazione all’invasione che di fatto fu una ritirata ben strutturata e ben pianificata dal punto di vista strategico. Si crearono così, in opposizione agli Alleati, più linee interne di difesa terrestre per una resistenza ad oltranza che permettesse di volta in volta lo sganciamento periodico di truppe e mezzi in direzione dello Stretto, per essere traghettate in Calabria.

La prima necessità per tale operazione difensiva era quella di muovere tutti i reparti e raggrupparli all’interno delle aree della Sicilia che per le caratteristiche morfologiche si prestavano più facilmente alla difesa, cioè le Madonie, i Nebrodi, il massiccio dell’Etna con la piana di Catania ed in un secondo tempo anche i monti Peloritani. La scelta di siti in prevalenza montuosi comportava dei vantaggi difensivi in quanto spesso l’attaccante non poteva utilizzare in quei luoghi la fanteria corrazzata.

Vennero così a formarsi delle linee campali che andarono a tagliare la cuspide orientale della Sicilia e che in modo ordinato opposero resistenza all’avanzata degli Alleati permettendo di volta in volta il ripiegamento italo-tedesco verso lo Stretto.  Fu così che il fronte della Seconda Guerra mondiale giunse anche nei Nebrodi. A partire dal 21 luglio 1943 si era formata la linea difensiva che da ovest ad est si attestava tra S.Stefano di Camastra, Mistretta, Nicosia, Assoro, Agira, Regalbuto, Centuripe, Catenanuova, Muglia, Simeto.

Diversi eventi bellici si susseguirono fino a quando il progressivo arretramento del fronte porterà il conflitto nel cuore dei Nebrodi prima sulla  cosiddetta linea di San Fratello e poi sulla linea di Tortorici.

Il generale statunitense Patton, durante la preparazione dello sbarco in Sicilia nel giugno 1943[3], aveva chiesto di unire alla propria armata un battaglione marocchino in rappresentanza dell’esercito francese, che sarebbe rimasto in Africa per riorganizzarsi. Fu così che il generale francese Giraud mise a disposizione il 4° Tabor comandato dal capitano Verlet.

Si trattava di un reparto che rispecchiava la struttura tribale (goum) ed era composto dai contingenti 66°, 67° e 68° aventi come effettivi 58 francesi, per la maggior parte ufficiali e sottoufficiali, 832 marocchini, principalmente goumiers (soldati semplici) e 241 animali tra cavalli e muli. Fornito di armi americane il Tabor fu fatto sbarcare il 13 luglio a Licata. Non è difficile seguire il percorso dei marocchini al seguito della 3^ armata americana, incaricati di rastrellare le montagne da Agrigento a Palermo: Naro, Canicattì, Mussomeli e Lercara Friddi, nodo stradale molto importante affinché gli americani giungessero a Palermo.

Da questa località e dopo aver partecipato ai combattimenti, il Tabor fu dirottato verso Resuttano e Alimena per essere unito alla 1^ divisione americana che avanzava verso Nicosia e Troina. Da questo momento in poi le battaglie si fecero più dure perché l’avanzata degli alleati fu ostacolata dal piano messo a punto dai tedeschi che, come visto pocanzi, avevano organizzato delle linee difensive allo scopo di permettere un ripiegamento ordinato e sicuro delle forze dell’Asse verso la Calabria.

La linea di Caronia – San Fratello- ovest di Cesarò – Troina – Adrano – Biancavilla – Acireale aveva come caposaldo principale Troina. Gli americani, dopo aver occupato Nicosia, si fermarono sulle colline che si affacciano sul fiume Cerami per riorganizzarsi dopo la lunga marcia da Gela a Licata. Nell’offensiva studiata dal generale Allen il 4°Tabor avrebbe dovuto, assieme al 18° Reggimento, spostarsi verso Capizzi per poi proseguire e tagliare la SS120 al di là di Troina.

Pertanto i marocchini da Gangi il 27 luglio iniziarono a spostarsi per le difficili vie di campagna per occupare il monte Sambughetti che domina la strada Nicosia-Mistretta-Santo Stefano di Camastra. Gli italiani del 5° reggimento fanteria Aosta si ritiravano quindi verso Capizzi subendo numerose perdite e colpendo con una  vivace resistenza il 66° goum che ebbe una quindicina di uomini fuori combattimento. Il 30 luglio il Tabor continuò verso Capizzi combattendo assieme al 18° reggimento americano.

Il 31 luglio tutti i reggimenti ripresero l’avanzata occupando Cerami ma nei giorni successivi i movimenti delle truppe furono bloccati dalla reazione dei soldati dell’Asse con le loro artiglierie. In più punti i fanti americani furono costretti a retrocedere facendo temere il ritorno dei tedeschi su posizioni lasciate giorni prima. Le perdite degli Alleati  furono numerose, specialmente a causa delle artiglierie posizionate ad ovest di Cesarò. Il 66° goum non riuscì ad attraversare il fiume Troina e rimase isolato senza notizie tanto che il capitano Verlet mandò un ufficiale al comando stanziato a Cerami per avere istruzioni. In quei momenti accadeva un fatto che segnò l’opinione pubblica  statunitense: il generale Patton, notevolmente innervosito dalla battuta di arresto delle forze sotto il suo comando, girando nelle immediate retrovie, schiaffeggiò, colpì col frustino e con una pedata un soldato apparentemente sano che chiedeva di essere visitato in un ospedale da campo presso Nicosia. Il fatto, portato all’attenzione pubblica dalla stampa americana, suscitò l’intervento del presidente americano Eisenhower che invitò il generale Patton a fare pubbliche scuse al soldato.

Il successivo tentativo del generale Allen di aggirare l’ostacolo Troina fu bloccato dalle artiglierie italiane e tedesche. In particolare il 3 agosto un contrattacco italiano costrinse alla ritirata alcuni plotoni del 67° goum e il 68° goum a sua volta  dovette indietreggiare.

A questo punto il generale tedesco Hube ritenne fosse giunto il momento di rispettare la tattica di  ripiegamento e quindi giudicò maturati i tempi di abbandono del  forte caposaldo di Troina. Anche gli italiani sotto gli ordini del tenente colonnello Gianquinto, comandante del I battaglione del 5° reggimento fanteria Aosta, eseguirono la stessa operazione di ripiegamento dei tedeschi. Il 6 agosto così gli americani poterono entrare a Troina.

Mentre i combattimenti continuavano a impegnare la prima linea, a Capizzi invece si verificava una singolare guerra privata tra marocchini e capitini. I goumiers erano facilmente riconoscibili dal loro vestiario, indossavano infatti un ampio camicione, il cosiddetto barracano, e portavano i capelli intrecciati e unti. Il loro aspetto esaltato era accompagnato dall’eco del loro comportamento e la fama delle loro imprese aveva di gran lunga preceduto il loro arrivo a Capizzi, creando ansia e preoccupazione nella popolazione.

Involontariamente gli stessi americani contribuirono ad alimentare la paura invitando la popolazione a ritirare prudentemente le famiglie dalla campagna per evitare facili aggressioni, come quella avvenuta in contrada Ruscina dove due donne erano state violentate. L’accampamento dei marocchini a Capizzi era al Piano della Fiera e a M.Rosso, molti civili erano stati fermati all’ingresso del paese e alleggeriti di portafogli, orologi e oggetti d’oro, agendo alcune volte anche con violenza. Caso esemplare fu l’episodio di un furto di orecchini, tolti con forza dalle orecchie di una donna, fatto che costò caro ad un marocchino che per ordine di un ufficiale fu legato alla coda di un cavallo poi lanciato al galoppo.

I marocchini allo stesso modo si distinguevano anche per le ruberie galline e pecore.

I capitini dopo un primo momento di sgomento iniziarono a reagire: alcuni goumiers vennero bastonati, ad altri venne invece mostrata una corda per intimorirli, temevano infatti la  morte per impiccagione che, secondo le loro credenze, avrebbe impedito alla loro anima di giungere in paradiso. Molti vennero impiccati o uccisi a colpi di accetta. In contrada Salice due goumiers furono impiccati e lasciati a penzolare su due alberi.

Vicino a Spezzagallo altri due furono uccisi a colpi di accetta perché sorpresi a rubare. Altri morirono in contrada Mercadante uccisi da contadini adirati per dopo aver visto foraggiare i cavalli con i covoni di frumento. Due cadaveri furono rinvenuti in un casotto all’Addolorata. Un altro invece fu trovato morto dopo alcuni mesi, con ancora indosso il suo caratteristico costume, in un pagliaio di Pardo. E’ probabile che altri ancora abbiano trovato la morte nelle campagne.

Finalmente, dopo la caduta di Troina il Tabor riprese la sua marcia a protezione dei fanti del 60° reggimento. L’11 agosto il Tabor superò i monti Pelato e Camolato, tagliò la strada Cesarò-San Fratello per poi, attraverso Monte Soro e Serra del Re, superare l’altra strada Randazzo-Capo d’Orlando. Dopo l’occupazione di  Messina, avvenuta il 17 agosto, il Tabor fu tenuto fuori dalla città e il 23 ottobre fu rimpatriato col suo carico di elogi e di gloria conferitagli dai generali alleati.

I fatti di Capizzi meritano ancora oggi di essere ricordati perché rappresentano una ferita forse ancora aperta e in questo senso non si può tacere l’attività di chi negli ultimi decenni ha provato a tener viva la memoria. In particolare degno di esser ricordato in questa sede è il decano dei giornalisti messinesi, il prof. Carmelo Garofalo, che in più occasioni ha ricordato nei suoi articoli le “marocchinate” nei Nebrodi, insegnando come la memoria sia un patrimonio di cui non ci si può privare, anche quando riporta alla conoscenza fatti spiacevoli che a volte molti preferiscono dimenticare col rischio, però, di perdere per sempre parte del proprio patrimonio culturale.

Antonino Teramo

fonte: http://nebrodinetwork.it/wp/?p=2487

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