“DOPPIO LEGAME” narra la storia tragicomica di Enzuccio, pentito privo di credibilità e uomo che non conta nulla; piccolo, diseredato, brutto, cattivo, che rappresenta la sua paradossale ricerca di giustizia e dignità in un mondo dove “essere qualcuno equivale a essere mentre essere nessuno equivale a non essere”.
Per permettere al fratello di pagare i debiti di un commercio di acciughe andato male, Enzuccio organizza una rapina al bar della sorella di un mafioso infilandosi in una spirale inarrestabile di conseguenze senza vie di fuga, come la scena in cui si svolge lo spettacolo: senza quarta parete, con un’unica uscita che per Enzuccio è solo e soltanto la platea. La sua unica possibilità di salvezza è la credibilità di ciò che dice e fa in scena. Elegge gli spettatori a esclusivi detentori del potere sulla sua vita e sulla sua morte.
Si genera una sorta di cortocircuito tra performance e fiction: un tentativo disperato del performer di intrappolare il pubblico in una relazione emotiva forte e molto disturbata, la stessa che il personaggio si trova a vivere con i suoi ex sodali di cosa nostra. Un “double bind”, un “doppio vincolo”, un “doppio legame” (il concetto noto in psicologia per l’elaborazione che ne fatto l’antropologo Gregory Bateson): un’incoerenza nella comunicazione in cui il contenuto verbale del discorso esplicito è contraddetto dalle modalità con cui è espresso. Un dilemma insolubile in cui sia impossibile per il ricevente del messaggio decidere a quale dei due livelli prestare fede.
Note degli autori
Nel 1991 (noi, Maria Piera Regoli, Salvatore Zinna e Federico Magnano San Lio) cominciavamo il lavoro di analisi dei documenti del maxiprocesso alla mafia del 1986 che approderà alle messe in scena di ‘QUANDO TI DICONO UNA COSA, NON CI RISPONDERE, FAI FINTA CHE PESCHI SEMPRE’, del 1992, e di ‘DOPPIO LEGAME’, del 1993. Le due opere hanno la fatalità di debuttare in un periodo tra i più tragici della storia repubblicana del nostro paese. Le stragi di Capaci, di via D’Amelio, le bombe ai monumenti di Firenze, Roma, Milano ad opera di Cosa Nostra ci colgono nel pieno del nostro lavoro di approfondimento sul fenomeno mafioso. Cosa c’era di rappresentabile in tutto quell’orrore? Cosa, oltre lo sdegno, lo sgomento, la paura? Alcune testimonianze dei primi pentiti ci apparivano quasi tragicomiche raffrontate all’enormità di ciò che stava accadendo: uomini di scarsa intelligenza, di origini poverissime, caprai, sottoproletari alla deriva del nostro mondo che insieme a (pochissimi) colletti bianchi tiravano le fila del potere più grande che abbia mai messo sotto scacco l’Italia democratica. Cosa c’era di rappresentabile? La domanda ci obbligava a una risposta non ovvia. Mentre in tutta la Sicilia iniziava una risposta della società civile senza precedenti e si rappresentava la mafia come una mostruosa realtà che nulla aveva a che fare con noi, ci rendevamo conto che alcuni di quegli stessi tragicomici personaggi riempivano la cronaca del maxi processo, avevano un’umanità da mostrarci che ce li faceva sentire pericolosamente vicini. Cosa c’era di rappresentabile, dunque? La nostra prossimità. La contiguità culturale che accomunava i bisogni primari di un’intera società: quella mafiosa e quella non mafiosa. La prossimità dell’essere impauriti, impotenti, isolati, sopraffatti dalle prepotenze del mondo. Per molti di questi personaggi (che una volta forse avremmo avuto in simpatia come i diseredarti del mondo) Cosa Nostra rappresentava e, forse ancora oggi, rappresenta la protezione dalle prepotenze. E’ brutto dirlo, ma è necessario; rappresenta un valore importantissimo: il rispetto. Che vuol dire la possibilità di farsi rispettare come esseri umani. Il rispetto a cui ogni essere umano ha diritto. Ci rendiamo conto di inoltrarci in un terreno minato e poco rassicurante. Per questo sgombriamo il campo da ogni equivoco: non si tratta di giustificare una subcultura di prevaricazione e di morte. Si tratta di scavare alla radice della contraddizione che tiene in piedi il
fenomeno. Si tratta di fare i conti con la nostra tragedia.
Così la stampa
Straordinario nella verosimiglianza dei toni e dell’eloquio, prima incerto e frammentario, poi frenetico nel descrivere la paura di essere ucciso che costantemente lo attanaglia… Salvatore Zinna si muove con eccezionale efficacia appoggiandosi a un testo davvero ben costruito… rendendo tangibile attraverso una tensione recitativa altissima e continua l’ineluttabilità del percorso di questo mafioso per caso… stritolato in una mostruosa macchina di morte.
Valeria Ravera, Tuttoteatro
A raccontare la tragicomica storia di un piccolo pentito è uno straordinario Salvatore Zinna… per
circa 70 minuti tiene inchiodato il pubblico con la sua storia, con il suo linguaggio crudo, puntando dritto coscienza dello spettatore… Testo straordinariamente attuale che Zinna riesce a rendere ancora più credibile con la sua interpretazione più che sentita e vissuta…
Maurizio Giordano, Dramma.It
Un piccolo grande spettacolo che andrebbe diffuso capillarmente…”
Domenico Danzuso, La Sicilia
Una vera chicca…
Trieste Oggi
E’ teatro civile di buona qualità, che punta dritto alla coscienza dello spettatore…
Nello Pappalardo, Giornale Di Sicilia
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