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Crisi dei partiti e crisi della democrazia

di Ferdinando Latteri – 

Recenti vicende, uscite pubbliche di ‘fondazioni’ che si propongono di approfondire aspetti o tendenze della politica, movimenti profondi che incidono sulla monoliticità di organismi politici hanno rimesso in discussione le forme della partecipazione alla politica e provocato prese di posizione, come quelle del Presidente del Consiglio, insofferenti verso la possibilità del dibattito organizzato all’interno dei ‘partiti’, genericamente motivate con una semplicistica condanna delle ‘correnti’. È forse opportuno ricordare che il dibattito interno è tanto più importante e necessario, quanto più grande e complessa è l’organizzazione che aspira a svolgere il ruolo costituzionale di partito.
L’alternativa grave e costosa rispetto alla necessaria e corretta dialettica interna è quella della nascita di una pluralità di partiti e della scomposizione della politica in una serie di organizzazioni che perseguono interessi particolaristici.
L’art. 49 della Costituzione enuncia il principio di libertà partecipativa dei cittadini alla formazione dell’indirizzo politico nazionale, imponendo, soltanto, il rispetto del ‘metodo’ democratico, ovviamente all’interno dell’organizzazione di ciascuna ‘associazione’.
Si tratta di una norma che sintetizza la storia complessa della partecipazione politica dell’Italia unitaria ed esprime, con una formula tanto sintetica, quanto efficace, decenni di sperimentazione e di ricerca.
Con l’art. 49, i Costituenti vollero affermare il principio per il quale l’unità dell’indirizzo politico nazionale si raggiunge e si consolida con un processo partecipativo articolato su due livelli: il livello del confronto fra grandi opzioni ideali (allora cattolica, socialista, comunista e liberale); il livello della costruzione delle stesse grandi opzioni, come sintesi di riflessioni, di apporti, di accordi tra grandi realtà sociali, economiche, culturali.
I Costituenti avevano sperimentato le difficoltà di organizzazione della rappresentanza degli interessi (nello Stato liberale prefascista e nello Stato totalitario). Essi rimisero in discussione il modello illuminista di divisione dei poteri e di supremazia parlamentare e legislativa, senza cadere nella trappola del totalitarismo e del corporativismo. Sapevano che non poteva funzionare uno Stato puramente parlamentare e che tanto meno poteva funzionare uno Stato fondato esclusivamente sulla rappresentanza degli interessi organizzati, senza mediazione politica.
Essi erano consapevoli della necessità di predisporre un meccanismo flessibile, capace di consentire sempre il governo delle istituzioni, senza interrompere il dialogo con la società, idoneo a garantire il dialogo nelle diverse congiunture politiche, sociali ed economiche.
La ricorrente alternanza fra fasi di concentrazione del potere e fasi di maggior partecipazione, che può corrispondere alla ciclicità dei ricambi generazionali, delle crisi economiche, dell’esaurimento di capacità di leaderships, nazionali e internazionali, ha sempre caratterizzato il corso della storia. La sfida delle moderne democrazie è quella di saperne prevenire le degenerazioni autoritarie e le crisi di capacità decisionale, per garantire sempre equilibrate risposte alla variabilità delle domande che la società rivolge alla politica.

Il parlamentarismo puro dei primi decenni di Unità (dal 1860), privo di mediazione partitica e di rapporto organizzato con la società, in abbinamento al sistema elettorale censitario e uninominale, era degenerato nel trasformismo e nel più totale distacco dello Stato dalla società civile. Rispetto al modello immaginato, lo Stato non era riuscito a porsi come rappresentazione credibile della società civile e, anzi, aveva dovuto imporre con metodi autoritari la propria presenza.

Alla crisi della prima esperienza dello Stato liberale censitario e alla sua degenerazione autoritaria di fine ottocento, si era tentato di dare risposta con forme di rappresentanza politica che avevano dato luogo a partiti che tentavano di porsi come forme onnicomprensive di riproduzione della società civile, potenzialmente contro lo Stato.
Nel passaggio fra i due secoli, cattolici e socialisti provavano a costituire partiti dalle esperienze dirette delle organizzazioni sociali antiche e recenti. La conquista del suffragio universale, a partire dalle elezioni comunali, dava l’illusione di poter attribuire ai poteri pubblici funzioni taumaturgiche per la risoluzione della crisi sociale, senza ottenere risultati sostanziali.

La tendenza nazionalista, che già si contrapponeva dall’inizio del secolo alle soluzioni del parlamentarismo democratico, recuperò, alla fine della prima guerra mondiale e all’inizio degli anni venti, il modello onnicomprensivo dei partiti di massa, trasformandolo in partito totalitario unico, nel senso con il quale veniva utilizzato il termine dalla letteratura di regime: un partito totalizzante era un partito che si proponeva di esprimere, rappresentare e curare “tutti” gli interessi e le manifestazioni dei mondi vitali.
In quella fase, sotto l’apparenza del partito unico di diritto pubblico, la sintesi politica era stata costruita con il complesso lavoro di confronto di tutte le istanze e le organizzazioni portatrici di interessi (a volte anche duramente contrapposti). Alla rappresentanza politica elettiva, si sostituiva una rappresentanza degli interessi di settore(corporazioni), certo non meno conflittuale al proprio interno, che adottava metodi di confronto informali e autoritari.
Non è un caso se le più attente ricostruzioni riferiscono di un regime totalitario attraversato da presenza di correnti, da profonde differenziazioni culturali, da significative opzioni politico-economiche.
La soppressione delle libertà e dei diritti politici non riuscì a soffocare il dibattito, anche se riusciva a impedire l’esercizio del confronto ideologico.

Il ripristino delle libertà politiche e delle istituzioni democratiche, dopo la catastrofe bellica, a partire dal 1945, riproponeva in tutta la sua complessità il problema della sintesi dell’indirizzo politico, che il fascismo aveva tentato di risolvere con la scorciatoia autoritaria. I problemi dei diritti di libertà, della costruzione di un’economia di mercato attenta alla propria funzione sociale, del primato del lavoro nella costruzione della Repubblica, del riconoscimento delle autonomie sociali costituivano un panorama articolato che non poteva, in nessun modo, essere ricondotto al debole parlamentarismo di inizio secolo.

L’intelligenza istituzionale di grandi giuristi di elevata sensibilità politica (Mortati, Dossetti) fu quella di proporre un metodo che consentisse la ricerca della sintesi, senza ricorrere a forme obbligatorie. Il modello adottato ha fatto tesoro dell’esperienza dello Stato liberale e delle crisi trasformistiche; della storia della formazione dei primi partiti di massa (cattolici e socialisti) di inizio novecento; della necessità di sintesi organizzata espressa dallo stesso partito unico del fascismo; della necessità di differenziare il ruolo dei partiti dal ruolo dei sindacati.
Partiti a forma associativa libera, sottoposti all’unico vincolo del metodo democratico nella partecipazione alla formazione dell’indirizzo politico, potevano sperimentare forme inedite di confronto costruttivo, di rappresentanza degli interessi organizzati, di mediazione fra Stato e società civile, costituendo il terreno fertile della nuova ‘res publica’, fondata sul riconoscimento della funzionalità dello Stato (e non del suo primato) nella garanzia della vita civile.

La formula costituzionale ha consentito di superare, in sessant’anni, crisi e tensioni, avendo la capacità di autoriformarsi e di bilanciare con ragionevolezza gli strumenti di democrazia immaginati dal Costituente. Oltre ai partiti e alle istituzioni parlamentari, sono stati ampiamente utilizzati gli istituti di democrazia diretta, come il referendum, gli strumenti di controllo di legittimità costituzionale, i sistemi di poteri di equilibrio, il riconoscimento della funzione normativa delle autonomie locali e sociali.
Il modello di democrazia dei partiti adottato dai Costituenti, alla distanza, si è dimostrato molto più efficace di quanto non si potesse immaginare.
In sessant’anni, la forma dei partiti si è evoluta e confrontata con l’evoluzione delle generazioni, con le tensioni e i mutamenti della politica internazionale, con le trasformazioni profonde dell’economia e della tecnologia. La mancanza di una forma rigida e predefinita dalla legge ha costituito, anche nei momenti più drammatici, come tra gli anni sessanta e settanta, una garanzia di adeguatezza della mediazione fra società e istituzioni.
L’elasticità e la capacità di riorganizzazione della forma di partito ha consentito che il dibattito politico, lo scontro ideologico, il confronto sui grandi temi istituzionali fossero mediati a più livelli, sia interni a ciascuna formazione politica, sia nella competizione fra partiti, senza mai degenerare in conflitti o in mutamenti istituzionali traumatici.

La vicenda del confronto interno ai partiti dell’età costituzionale risulta di particolare interesse per la ricostruzione del processo di mediazione degli interessi e di costruzione della democrazia reale.
La prima fase fu caratterizzata da scelte forti, come esigevano lo sforzo post-bellico della ricostruzione e la ‘guerra fredda’.
Il modello di ‘democrazia guidata’ si esprimeva nel ‘centralismo democratico’ del PCI, nell’autonomia limitata dei cattolici della DC, nel liberalismo elitario. Il blocco della politica internazionale incideva pesantemente, ma il dibattito interno ai partiti cresceva e faceva maturare le soluzioni che avrebbero portato alle svolte decisive degli anni sessanta e alla reinterpretazione della democrazia come democrazia di massa.
Alla fase dura della ricostruzione, dei sacrifici e degli investimenti seguì la fase dell’espansione delle libertà civili e della partecipazione informale.
Il ’68 doveva segnare la rottura di tutti i centralismi e la formalizzazione di nuovi livelli di democrazia e partecipazione, con l’emersione alla politica, dentro e fuori i partiti tradizionali, della nuova generazione che si era formata senza l’esperienza della guerra.
Nonostante l’apparente richiamo alle ideologie marxiste, il ’68 fu caratterizzato da un radicalismo che si sarebbe manifestato con le richieste di ampliamento dell’area delle ‘libertà civili’ e di rottura con i canoni rigorosi del primo ventennio repubblicano. L’anelito di libertà che attraversava la società, dalla Chiesa postconciliare, al comunismo postcecoslavacco, si traduceva in una crescita del dibattito interno alle formazioni politiche e nella celebrazione dell’espansione della democrazia nella scuola, nell’università, nella sanità e, soprattutto, nel governo locale.
La dimensione locale del dibattito politico prendeva corpo nelle regioni e nelle autonomie locali, segnando pure le organizzazioni di partito, con una riorganizzazione localistica e per correnti, e determinando forme radicalmente nuove di partecipazione (come quelle espresse dagli organi collegiali elettivi delle scuole, delle università, delle strutture socio-sanitarie, delle rappresentanze sindacali aziendali).
Alla fine degli anni sessanta, il massimo punto di confronto ideologico rappresentò, pure, l’inizio di una politica antideologica, che non puntava più allo scontro totale (del periodo della guerra fredda) e che esprimeva nel consociativismo le esigenze di governo della società e dell’economia. Il consociativismo, d’altra parte, non era che il preludio dei processi di delegittimazione della democrazia tradizionale, tragicamente segnati dal terrorismo.
A partire dagli stessi anni e fino ai primi anni novanta, il frequente ricorso al referendum, la crescita della politica delle regioni, il nuovo ruolo dei poteri di controllo giudiziario, la riduzione della dialettica parlamentare dovuta al consociativismo segnarono la fine del modello tradizionale.
Gli stessi strumenti di allargamento della democrazia, come il referendum, portarono alla crisi dei partiti e alla ricerca di una nuova fase di legittimazione dell’autorità. A partire dal 1994, per effetto della crisi morale della società, della crisi dei partiti e della crisi  politica successiva alla caduta del muro di Berlino, con la riforma elettorale si tentano soluzioni orientate alla concentrazione del potere decisionale. Si reinverte il ciclo e si tenta di affrontare la prima grande crisi economica con un maggiore input di decisionismo. A rileggere la stessa grande stampa di opinione di quegli anni, si vede con chiarezza il sostegno a soluzioni sostanzialmente autoritarie, rese più facili dal venir meno  delle opzioni ideologiche.
La crisi dei partiti, tuttavia, non è riuscita a spegnere la domanda di partecipazione. Le trasformazioni dei vecchi gruppi dirigenti e la loro tardiva conversione al decisionismo degli anni novanta, nonostante l’adozione di scelte sostanzialmente autoritarie, non riescono a garantire le esigenze di efficacia ed efficienza, mentre sopravvivono intatte le esigenze di partecipazione.
Si tenta da quindici anni di affermare il primato delle forme di decisionismo, cambiando leggi elettorali e restringendo sempre più i margini di scelta dell’elettorato.
Si fa ricorso continuo alla fiducia parlamentare, dimenticando spesso che, per questa strada, si può pervenire alla mortificazione del dibattito e all’esaurimento delle risorse di consenso e dei margini di democrazia reale.
Di contro, non si può fare a meno di registrare un dibattito continuo, anche se poco sottolineato, sulla necessità di trovare nuove forme di  dialettica democratica, di partecipazione e di confronto nei partiti e tra i partiti.

Il centralismo dei partiti personalizzati e leaderistici si scontra prima con la nascita di formazioni (probabilmente altrettanto leaderistiche) che rappresentano la ricerca di nuove dimensioni di autonomia politica post-ideologica. Successivamente, si registra il progressivo sfaldamento delle stesse grandi organizzazioni.
Il Partito Democratico nasce federativo e composito ed esprime tale carattere anche nella struttura degli organi dirigenti e nella distribuzione cencelliana delle cariche, che la maggioranza interna ex-diessina utilizza per costruire un’apparenza di pluralismo culturale e politico.
Il Partito delle Libertà nasce da un patto consacrato con un rogito notarile che, da solo, esprime, al di là delle esternazioni, la natura contrattuale e, proprio per questo, verticistica  dell’organizzazione.

Il problema della garanzia di livelli adeguati di democrazia nella formazione dell’indirizzo politico, d’altra parte, non è solo un problema formale di rispetto del dettato costituzionale. Si tratta, invece, di un problema grave e delicato che rispecchia l’insufficienza delle attuali organizzazioni, chiamate impropriamente partiti, a rappresentare e mediare “con metodo democratico” processi ed esigenze della società. Ad avvalorare tale lettura è sufficiente ricordare il sistema di formazione delle liste elettorali, che è, sostanzialmente, espressione dei poteri più o meno carismatici dei leaders o dei gruppi di potere che reggono l’organizzazione in un determinato momento.
Da una parte, esiste una sorta di ‘faglia generazionale’ che si carica delle tensioni dovute al progressivo isolamento delle nuove generazioni, alla loro esclusione dalla scena politica reale, al tentativo di darne una rappresentazione immaginifica e di relegarle ai margini del potere reale. È sufficiente pensare alle età dei leaders di Stati Uniti, Spagna, Gran Bretagna per trarre semplici e significative conclusioni.
Dall’altra, esiste una forte tensione che rischia di sfociare in surrogazioni del potere politico per legittimazione di altri poteri, istituzionali e non. La stessa vicenda di Pomigliano può essere letta come una straordinaria manifestazione della delegittimazione del potere politico e nella riconsegna della contrattualità alle parti sociali, al di fuori di ogni capacità di mediazione generale.
Infine, non si può dimenticare che una società territorialmente composita e articolata come quella italiana non può sopportare oltre certi limiti imposizioni omologanti. I partiti traggono linfa dalle specificità territoriali e servono a comporre richieste divergenti e conciliare istanze concorrenti, costruire soluzioni condivise, garantendo l’unitarietà dell’indirizzo politico. Tentare di sostituire forme istituzionali come il federalismo alla libera mediazione politica dei partiti e delle formazioni sociali potrebbe portare ad un federalismo dissociativo.
Il rischio grave che stiamo correndo è quello di perdere la funzione di equilibrio che i partiti dovrebbero avere sia nella fase elettorale, sia nella fase di governo. Manca una capacità di raccordo fra istituzioni e società e il risultato più evidente è quello della sostanziale instabilità che deriva dai tentativi di stabilizzazione istituzionale che prescindono dalla mediazione politica stabile del rapporto con gli interessi reali e con i corpi intermedi. Dal 1994, ipotetica data di fine della Prima Repubblica, nessuna coalizione di governo è stata confermata all’elezione successiva a quella in cui è risultata vincente, senza, tuttavia, conseguire alcun beneficio di fisiologica alternanza.
Ovviamente, il modello istituzionale e partecipativo deve soffrire di qualche debolezza se il suo risultato è un continuo ondeggiamento fra posizioni contrapposte con conseguente e continua instabilità istituzionale.
È forse venuto il tempo di tornare a riflettere sui processi di legittimazione democratica e di rendersi conto che la stabilità derivante dalla partecipazione, in certe fasi, può risultare più efficiente ed efficace di qualunque decisionismo.

La lezione dei Costituenti, tramandata dall’art. 49 Cost., è ancora viva e attuale e sarebbe inopportuno dimenticarla.
Uno Stato democratico è tanto più forte e autorevole, quanto più ampia è la partecipazione, già allo stesso interno dei partiti, al processo di elaborazione che conduce alla sintesi dell’indirizzo politico.
Non si tratta di ripercorrere la triste vicenda delle ‘correnti’ come lobbies di potere e organizzazioni spartitorie. È necessario, invece, trovare momenti di espressione del ‘metodo democratico’, intrinseco alla libertà di partecipazione e confronto nella politica. Sarebbe pura illusione e surreale semplificazione della complessità naturale della società l’opinione di chi immaginasse che il confronto politico si può ridurre alla contrapposizione di due posizioni monolitiche e non articolate. Per quanto bipolare, anzi quanto più bipolare sia il modello politico istituzionale, tanto più articolato e ricco deve essere il dibattito interno a ciascuno dei due poli, che porta alla sintesi dell’indirizzo politico generale.
I processi di formazione della legittimazione e del consenso non si esauriscono alle elezioni, ma devono essere ricercati ogni giorno, nel confronto continuo con le esigenze dell’evoluzione sociale ed economica, con le istanze della storia, che non conoscono confini nazionali o accordi di vertice.

In particolare, come succede nelle più grandi democrazie occidentali (primarie statunitensi, congressi di partito inglesi, ecc.), è opportuno definire tempi e procedimenti di formazione delle aggregazioni e delle stesse liste che concorrono alle competizioni elettorali, consentendo di esprimere, con metodo libero, ma necessariamente ‘democratico’, la incomprimibile dialettica della realtà sociale.
Ovviamente, nessuno può dire, in astratto e preventivamente, quale sia il miglior ‘metodo democratico’, però nessuno ne può negare la necessità.
Nessuno può negare che la ricerca delle forme sia più necessaria che opportuna.
Dobbiamo, infatti, porci alla ricerca della reale stabilità politica, garantendo attraverso la dialettica democratica richiesta dalla Costituzione soluzioni che soddisfino le esigenze dei cittadini.
Il modello dialettico maggioranza-minoranza va reso esplicito a tutti i livelli.
A livello istituzionale, favorendo l’esplicitazione di programmi chiari che costituiscano il presupposto di accordi o di leali e trasparenti confronti.
A livello di partito, garantendo che la molteplicità degli interessi concorrenti presente nella società trovi sintesi nell’individuazione di proposte chiare e di comportamenti coerenti e corretti dei rappresentanti istituzionali eletti, che si traduca in comportamenti di partito altrettanto corretti.
L’attuazione del programma deve costituire il terreno di valutazione del comportamento delle rappresentanze elette e la misura della serietà del servizio nell’azione politica.
È necessario interrompere il processo involutivo che rischia di portare le istituzioni verso l’isolamento e riaffermare la missione propria della politica, come servizio per il sostegno e lo sviluppo del “bene comune” di tutti e di ciascuno dei cittadini, cioè della res publica nella quale ci riconosciamo.
Solo garantendo la ricerca del ben comune, con strumenti che consentono a tutti di esprimere la propria opinione e di sentirsi cittadini di pieno diritto, sarà possibile costruire la serenità, per il cui conseguimento lo Stato fu immaginato e istituito nelle repubbliche dell’antichità e ripristinato nella sua forma democratica dalla Costituzione.

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