“La necessità di improvvisare in molte maniere mi ha portato a sviluppare un linguaggio all’interno del piano solo”.
A margine del bel concerto di Danilo Rea a Messina, venerdì sera, 17 luglio, organizzato dal Teatro V.E. nello spazio all’aperto di via Laudamo, abbiamo incontrato il pianista per porgli qualche domanda e scambiare qualche battuta.
Danilo Rea, piano solo e improvvisazione. Dopo 45 anni di carriera prevale la scelta di suonare da solo, è una questione di libertà?
Si, assolutamente sì. Perché è la disciplina più difficile, ma al tempo stesso quando riesci a quadrare il cerchio e a fare un concerto di piano solo è la condizione migliore, perché hai la fantasia e la possibilità di fare tutto ciò che ti viene in mente. È bello anche se sei solo. In realtà è anche bello scambiare con gli altri, però più si è, più devi organizzare la musica. Invece col piano solo, come hai visto, cambiavo, spaziavo, da un tema passavo all’altro.
Questo non lo puoi fare se sei, ad esempio, in trio, perché è difficilissimo, a meno che non sia molto affiatato come i Doctor 3 del tempo, ma non sarà mai come il piano solo. Affiatati sì, ma insieme è sempre più difficile.
Quindi è la necessità dell’improvvisazione che porta a voler fare i concerti piano solo…
In realtà in jazzista ha una capacità di improvvisare illimitata, ma al tempo stesso ha anche un linguaggio musicale jazzistico. Se sei in piano solo quel linguaggio lo puoi bypassare. La necessità di improvvisare in molte maniere mi ha portato a sviluppare un linguaggio all’interno del piano solo. Di fatto, come hai visto, suono sul tema. La melodia è sempre presente nell’improvvisazione. Nel brano, una volta realizzata la melodia, non vado a fare tutti gli assoli di jazz che voglio. Rimango sempre sul pezzo, come si dice in genere.
Non c’è un ricordo preciso. In realtà ciò che cerco di fare, è dare tutto ciò che posso, emotivamente, cercando sempre di stabilire un contatto emozionale con il pubblico. Quindi ho ricordi belli relativi anche ai luoghi. In realtà, però, mi viene in mente Morricone, al quale se chiedevi quale fosse il suo pezzo preferito lui diceva: “So’ tutti figli miei”. Tutto sommato io lo capisco. Penso che ogni concerto abbia un capitolo a sé. Se fai il concerto a New York, a Venezia, o all’Auditorium Parco della Musica, dove feci il primo concerto jazz alla Sala Santa Cecilia, sono momenti piuttosto emozionanti. Oppure immagina quando ti portano a farlo in un rifugio a 2.200 metri d’altezza. Il luogo fa tanto, tantissimo. Poi quello che conta è riuscire a creare una magia, un contatto fra te e chi ti ascolta.
Stasera com’è andata?
Ho sentito tutto il mio amore per la Sicilia. Quando vengo in questa terra mi sento a casa mia perché so che anche con le persone c’è un rapporto speciale.
Una grande empatia…
Certamente, l’ho sempre avuta. Credo che sia una caratteristica anche dei siciliani avere questa capacità empatica. Quindi anche per me stasera è stato un bellissimo concerto. Poi, questa sensazione dei primi concerti del ritorno, dopo questo periodo, è un’emozione mia ma anche di chi ascolta.
Quest’anno ci ha lasciato Lee Konitz. Tu hai iniziato con lui, poi sulla tua strada è arrivato Chet Baker, due grandi musicisti dalla differente personalità ed entrambi impegnativi. Che ricordi hai di queste due grandi figure del jazz?
Parliamo di un talento di famiglia. “First name Oona…”
No, della tua! Visto il titolo del suo primo album, forse la ragazza vuole essere chiamata per nome…Il cognome la mette un po’ in imbarazzo?
Sì, può essere…
Complimenti, l’ho sentita ed è bravissima!
Grazie, piace anche a me.
Hai collaborato al suo primo album…
Ottimo chitarrista, allievo di Umberto Fiorentino, è una generazione che si rinnova…
L’ho conosciuto al conservatorio, quando ho insegnato a Roma, era già un talento pazzesco e io cercavo di “corromperlo…”
Quale futuro hanno davanti questi giovani nel jazz?
È un futuro difficile, molto difficile. Il jazz sta rischiando di diventare nuovamente di nicchia. Per certi versi lo è sempre stato. Secondo me i giovani dovrebbero pensare ad essere un pochino più comunicativi perché le nuove generazioni sono forse troppo tecniche.
L’Italia e la Sicilia nel jazz stanno vivendo un momento veramente magico. Però non è più come una volta.
Fare brani noti agevola molto il rapporto con il pubblico…
Certo, i jazzisti lo hanno fatto tutta la vita. Sonny Rollins ha sempre detto che bisogna fare un brano noto così l’ascoltatore capisce dove vai e con l’improvvisazione si emoziona e si diverte. Emozione e divertimento sono spesso la stessa cosa.
A proposito di autori e brani noti, com’è nato questo straordinario rapporto tra Danilo Rea e le canzoni di Fabrizio De André? Sappiamo del primo concerto all’Agnata, la tenuta di Tempio Pausania, organizzato da Paolo Fresu.
Dori Ghezzi aveva sentito un paio di brani dei Doctor 3, La Canzone di Marinella e La Canzone dell’Amore perduto. Ci chiamò a Roma e noi dicemmo sì alla sua proposta. Poi Dori entrò in contatto con Paolo Fresu e nacque l’evento piano solo all’Agnata. Col piano solo si fa prima, non devi fare arrangiamenti. Torniamo al discorso di prima…
Corrado Speziale
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