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DOCUMENTI – SETTANTASETTE IN NERO

Andrea Re è nato nel 1974. Si è laureato a Padova in Storia Contemporanea con una tesi sull’Autonomia Nera, ovvero l’estrema destra extraparlamentare tra il 1977 e il 1982.

Osservatore dei fenomeni sociali, interpreta l’estremismo politico attraverso un’ottica antropologica.

Noi non diciamo che le parole destra e sinistra non hanno più senso.

Diciamo che ce l’hanno ancora e che bisogna toglierglielo.

Roger Caillois

“Il ’77. Alias l’altra faccia del ’68.

Se quello non l’avevamo fatto (ma non ne eravamo usciti indenni. Ci sarebbe voluto un decennio per constatarlo. Beata anestesia delle nostalgie!) stavolta ci saremmo stati.

Ma come?

Qualcuno pensò che una realtà in movimento andava ancora di più movimentata […]. Il fascino dell’insurrezione che riprendeva quota nell’era degli indiani metropolitani.

Revival di occupazioni, caos, cacciata di Lama dall’università, una carta da giocare per certe frustrate ambizioni.

E il rischio ennesimo di spaccarci su un problema che subivamo.

C’erano riusciti Valle Giulia e il Vietnam, sarebbero riusciti poi Sandino e l’Iran”.[1]

Questo testo collettivo di una delle principali espressioni della “Nuova Destra” italiana riassume bene tutti gli atteggiamenti assunti in quell’ambito dinanzi agli eventi del Settantasette.

L’area dell’estrema destra giovanile troverà anch’essa nel 1977 un anno cruciale: il ’77 sarà l’anno del primo Campo Hobbit e del coagularsi di quella che successivamente verrà definita “Nuova Destra” o “Nuova Cultura”; il ’77 vedrà la nascita della cosiddetta “Autonomia Nera”; il ’77 sarà l’anno d’inizio dello spontaneismo armato e della galassia Nuclei Armati Rivoluzionari.

I Campi Hobbit ( il primo si tenne a Montesarchio, in provincia di Benevento, nel 1977. Ne seguiranno altri due nel 1979 e nel 1980, tenuti rispettivamente a Fonte romana e Castel Camponeschi, località dell’Abruzzo situate in provincia di L’Aquila) furono le risposte della giovane destra missina, raccolta nella corrente “rautiana” Linea Futura, alle feste del “proletariato giovanile” di Licola e Parco Lambro. Una risposta che aveva le stesse musiche, gli stessi linguaggi, le stesse angosce esistenziali e lo stesso disincanto delle speculari manifestazioni di sinistra. Il nome era un omaggio agli Hobbit, creature fantastiche protagoniste di molte saghe dello scrittore britannico di origine sudafricana John Ronald Reuel Tolkien che in quegli anni stava diventando un autore di culto per l’estrema destra giovanile italiana.

Questo fenomeno non mancherà di incuriosire una figura come Mario Tuti, che analizzerà il fenomeno in un articolo apparso nel 1980 su QUEX ed intitolato “Tolkien-mania”. Il fascino di Tolkien, del resto, non rimarrà circoscritto all’estrema destra, come testimonia Olivier Turquet, portavoce di Godere Operaio, dei Nuclei Dadaedonisti, del MPFA (Movimento Politico Fantomatico Assente) e dei NSC (Nuclei Sconvolti Clandestini), nonché uno dei “capi” degli “Indiani Metropolitani”, che sceglierà di chiamarsi Gandalf il Viola in onore al Mago Gandalf, probabilmente uno dei personaggi più affascinanti del Signore degli Anelli.

La cultura emergenziale prodotta dalla cosiddetta “unità nazionale” aveva piallato ogni alterità d’azione, tentando di affermare la pura mediazione come unica logica dell’agire politico. I sommovimenti sociali, come un uragano, avevano mostrato come la sinistra non fosse più la sede deputata di tutti i valori, lasciando dietro di sé un panorama desolante. E così saranno alcuni settori giovanili della destra radicale a dimostrare d’aver compreso i significati antropologici e politici del Settantasette molto più della maggior parte della sinistra, intuendo per primi come il Settantasette fosse un movimento, il primo del dopoguerra, nato al di fuori e contro la sinistra ufficiale e il movimento operaio ufficiale, divenuti parte e forza di “regime”, impegnati in una strenua difesa dell’esistente. La destra radicale vide come il movimento del ’77 fosse il primo a darsi una strutturazione orizzontale dei soggetti non omologati, dominata da un incandescenza sociale estranea e contrapposta all’universo politico del “Palazzo”[2], con il suo ceto, il suo linguaggio e la sua nomenklatura.

Il fallito comizio del segretario della CGIL Luciano Lama del 17 febbraio 1977 farà dire ad Alberto Moravia: “Mi ha fatto molta impressione lo scontro di Lama e gli studenti all’università. Si è trattato di un episodio assai chiaro, quasi emblematico. Da una parte ci sono gli operai che si muovono in un’area precisa, che quando scendono in lotta hanno una controparte riconoscibile, i padroni, ed hanno a disposizione l’arma dello sciopero. Gli operai, in qualche modo, hanno una precisa traccia prefabbricata della loro azione. Dall’altra parte invece ci sono gli studenti, il movimento. Lo studente può sentire come l’operaio un estremo disagio sociale, ma il suo avversario non è il padrone e i suoi mezzi di pressione non sono lo sciopero né l’agitazione organizzata dai partiti di sinistra. Perché? Perché le rivendicazioni dello studente sono al tempo stesso più vaste e meno precise di quelle dell’operaio. Perciò quando c’è violenza, e anche stravaganza (c’è stata anche la stravaganza degli indiani metropolitani, e la violenza e la stravaganza in questo caso sono due cose assolutamente simili), ciò deriva dal fatto che gli studenti non hanno nessun punto di riferimento preciso, come ce l’hanno gli operai. La loro rivendicazione è in un certo senso più anomala e ambiziosa: anomala, in quanto le manifestazioni non si collegano a nulla di preesistente; ambiziosa, in quanto siamo già su un terreno direttamente eversivo”. In: Mario Scialoja, Squadristi, e perché?, in L’espresso, 20 marzo 1977.

Nel crogiolo dei sommovimenti era emersa una “rottura antropologica” lontanissima dal razionalismo di sinistra e per la prima volta era possibile palesare, per una certa area, la propria critica esistenziale, disgiunta dai processi sociali e proprio per questo più forte nello slancio volontaristico, più libera, radicale ed estrema. Infrangere i dogmi della sinistra: sarà per questo che il Settantasette verrà percepito da considerevoli componenti della destra giovanile come una sorta di ambito di riferimento, un’area da cui partire per avventurarsi in territori poco frequentati, per esplorare nuovi percorsi[3]. In tal senso è molto significativa una testimonianza di Livio Lai, allora militante di destra e in seguito figura di primo piano dei NAR poi dissociato dalla lotta armata: “Gli indiani metropolitani rappresentavano un punto d’unione con il nostro immaginario, dove la fantasia , la spiritualità, l’esistenzialismo sembravano abbattere, o quantomeno porre in discussione, la rigidità assoluta dei miti marxisti-leninisti. Non si pensava ad un’alleanza politica (che appariva improponibile), ma si era ammirati per l’evoluzione della sinistra, si cominciava a sentirla diversa… Anche se l’assolutizzazione delle nostre idee ci faceva pensare che fossero loro ad assomigliare a noi.”[4] Ed è sempre Livio Lai, che assieme al fratello Ciro combatterà in Libano e sarà protagonista degli ultimi fuochi dei NAR, ad affermare come a destra determinate tensioni esistenziali, non trovando sbocco, potessero portare a forme esasperate di “ascesi bellica”: “C’è stato un tentativo di esperienza di vita militare, un tentativo di esperienza di affrontare la guerra, un certo tipo di preparazione, un certo tipo di mentalità. Questo era frutto di un certo modo di porsi nei confronti della realtà, una specie di romanticismo di fondo, una sorta di vita legata a certi miti della morte, a certi miti di purificazione, attraverso l’azione, attraverso la guerra.”[5] A testimoniare ulteriormente quello che appare come un percorso inusuale, ricordiamo che Lai fu tra i principali animatori, assieme al milanese Andrea Calvi ed al romano Gabriele De Francisci, di Movimento, rivista dell’area “comunitaria” del FUAN, una voce che si poneva “al di là della politica” e che rappresenterà uno degli incubatoi per un discorso di oltrepassamento delle barriere destra/sinistra, non più basato su elucubrazioni di carattere strategico, ma sulla consapevolezza di una comune dimensione umana nell’antagonismo al sistema.

Nella seconda metà degli anni Settanta, nella destra avviene un ricambio generazionale originato dall’irrompere sulla scena politica di nuove schiere di militanti, giovani nati alla fine del decennio degli anni Cinquanta ed all’inizio degli anni Sessanta. Militanti distanti dalla memoria storica del fascismo, fortemente insofferenti del nostalgismo retorico, privi anche di ogni forma di emulazione e considerazione nei confronti dei gruppi storici dell’estremismo della destra extraparlamentare, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, scioltisi rispettivamente nel 1973 e nel 1976[6].

Militanti animati dall’ansia di scendere in campo, che dei loro coetanei schierati sul fronte opposto condividevano gli interrogativi, le tematiche, gli stili comportamentali, la violenza e la furia antisistemica. Militanti ormai lontani dai moduli stantii e dagli atteggiamenti presenti nella tradizionale iconografia e nel consueto immaginario collettivo dell’estrema destra, distanti da organizzazioni come il Fronte della Gioventù, “in cui si faceva del teppismo o della politica come nella DC”[7], organizzazioni, tra le altre cose, “normalizzate” da parte dei vertici del MSI all’insegna del “richiamo all’ordine”.

Le notevoli difficoltà che il movimento del ’77 creava alle forze di sinistra, nelle loro componenti sia parlamentari che rivoluzionarie, erano da loro percepite come un’incrinatura attraverso cui la destra avrebbe potuto superare l’isolamento e la ghettizzazione politica a cui era stata costretta negli anni precedenti. Lo slogan dell’antifascismo militante era stato “fascisti carogne tornate nelle fogne”: ora sembrava giunto finalmente il momento di uscirne.

Così ricorda il clima politico-sociale, caratterizzato da forme di conflittualità “strisciante e permanente”, Giuseppe Dimitri, uno dei fondatori di Terza Posizione: “La necessità di prioritaria era quella di contattare le persone del nostro stesso ambiente, perché era forte la sensazione di appartenere ad un ghetto demonizzato dal mondo intero. I media presentavano continuamente in questo modo i neofascisti, e venire a sapere che c’era qualcuno come te, per un processo di identificazione antropologica dava una enorme soddisfazione perché pensavi di non essere da solo. Quando però venivi in contatto con altre persone dell’ambiente c’era curiosità di conoscersi confrontando il proprio mondo interiore, e poi la voglia di lavorare insieme politicamente. Per cui la situazione conflittuale e la volontà di resistere sul piano fisico erano un veicolo, un pretesto per formulare un progetto politico”. Giuseppe Dimitri in: Arianna Streccioni, A destra della destra, Roma, Settimo Sigillo, 2000, pagg. 179-181.

Particolarmente interessanti in tal senso appaiono le parole di Biagio Cacciola, all’epoca uno dei dirigenti del FUAN romano: “Alla base della rivolta del ’77 vi è soprattutto la drammatica certezza della disoccupazione, della mancanza di sbocchi professionali e vi è anche il sospetto che il PCI, in nome del compromesso storico abbia rinunciato a contestare le responsabilità della classe dirigente democristiana in ordine alla crisi della gioventù, ciò che pretendeva in passato di fare in opposizione al centrosinistra”[8].

Secondo un altro membro del FUAN romano, Guido Zappavigna, arrestato e poi scarcerato per reati legati alla lotta armata: “A partire dal ’77, mentre nelle università cresceva il movimento di sinistra, ci accorgiamo che quei giovani che ritenevamo nemici vivevano la nostra stessa rabbia. Provavamo simpatia per gli indiani metropolitani e cominciavamo tra di noi a parlare di spazi verdi, di scuole invivibili. Avevamo fatto anche cose per noi nuovissime, come volantinaggi nei mercati rionali. La gente ci guardava stupita: ‘Come, i fascisti qui!’, diceva. Già, perché per loro il fascista stava nei quartieri ricchi e noi invece cominciavamo a scrivere di carovita, di lotta agli sfratti, di licenziamenti”[9].

Per i giovani di destra la rivolta del ’77 non è una protesta di carattere materialista bensì un attacco al sistema e al contempo il rifiuto dell’utopia marxista della liberazione futura. Infatti, continua Cacciola: “Volevamo il presente e il personale, volevamo vivere subito e non demandare a nessuno quello che si poteva avere nell’immediato… Il nostro discorso era rivolto a tutti coloro che erano incazzati con la società: i disoccupati, i sottoccupati, i giovani, le donne, i drogati, i ghettizzati, i diversi”.

Nello stesso periodo, sempre Biagio Cacciola, presidente del FUAN Caravella, e Luciano Laffranco, presidente del FUAN nazionale, stilano un documento dove appaiono delle valutazioni riguardanti la “nuova contestazione” e che sarà inviato l’8 marzo 1977 ai gruppi di ateneo, ai quadri dirigenti del partito e alla direzione nazionale dove si afferma che: “È oggi la rivolta di quanti, ancora giovanissimi, si sentono emarginati dalla società, di quanti si rendono conto che l’incapacità dei governanti di riformare l’università ha reso ancora più grave una crisi che trova la sua radice profonda nel disagio economico e nell’inesistenza di una programmazione organica impegnativa che razionalizzi il collocamento delle energie nuove, che le indirizzi verso nuovi sbocchi professionali, che salvaguardi l’occupazione esistente, ma, nel contempo, crei nuovi sbocchi di lavoro. Compito della destra è quello di far comprendere a milioni di giovani quanto il sistema sia logoro, sia incapace di rispondere alle loro esperienze, che anche il PCI è complice del regime, che da sinistra non viene un messaggio che possa riscattare la “condizione umana” delle nuova generazioni.”[10]

Simili documenti dimostrano come anche le organizzazioni giovanili parallele al MSI seguano con attenzione e condividano i motivi ispiratori e le cause profonde della protesta, anche a costo di allontanarsi dalle posizioni ufficiali del “partito dell’ordine”. Le forze giovanili della destra non vogliono lasciarsi sfuggire l’occasione di vivere il movimento e i suoi fermenti con un ruolo di primo piano. Ritenevano necessario superare quella sorta di complesso d’inferiorità derivante dal “’68 occasione mancata”. La rivolta del ’77 li stimola ad una opposizione più decisa. Alcuni giorni dopo il fallito comizio all’università di Lama, appare una scritta sui muri di piazzale Flaminio, a Roma: “Caradonna 68 Lama 77”.

“Più avanti, intanto che si cercava di tracciare un tragitto nuovo, ci piombo addosso il ’77. Noi che eravamo cresciuti con il complesso del ‘68 occasione mancata’, pensammo – con sfumature di entusiasmo, di fiducia e di valutazione diverse – che questa poteva essere la volta buona per cambiare le regole del gioco. Qualcuno mi perdonerà, o forse no, se getto ora la maschera di un bluff: la cacciata di lama. Un paio di ‘nostri’ c’erano davvero, poco conosciuti, e non furono certo loro a determinare l’episodio: ne incoraggiarono, tutt’al più un tantino l’esito, erano lì per ‘caso’ e il ‘caso’ volle che una tv locale li filmasse in primo piano tra gli altri. Ci fu poi chi si incaricò di montare il ‘caso’ nei termini in cui è passato., si fa per dire, alla storia. Ai margini dell’evento vi fu un azzeccato esperimento di ‘provocazione’. Forti della lettura di McLuhan, o forse solo per un’incosciente intuizione, innescammo un media-event tracciando una scritta bomboletta su di un muro a piazzale Flaminio: ‘Caradonna 68-Lama 77’, senza firmarla. La Repubblica gli dedicò un allarmatissimo articolo in prima pagina. Mentre il ’77 si esauriva nel folklore e nella macrobiotica (che non è però comunque del tutto disprezzabile), si annunciava il declino dell’era del militantismo integrale, delle convinzioni incrollabili e degli sbarramenti pregiudiziali. Noi raccoglievamo le forze per predisporci a navigare le calme acque del riflusso che, di lì a poco, avrebbero sommerso tutto. O quasi”. Umberto Croppi, Dedicato a Martina, in: Maurizio Cabona – Stenio Solinas ( a cura di ), C’eravamo tanto a(r)mati, Vibo Valentia, Edizioni Sette colori, 1984, pag. 72.

Il segretario della CGIL il 17 febbraio 1977 aveva tentato di tenere un comizio all’università La Sapienza di Roma, ma era stato pesantemente contestato e costretto a rinunciare al discorso. Dai giovani di destra, Lama viene equiparato a quel Giulio Caradonna che il 16 marzo 1968 aveva cercato, assieme al futuro segretario missino Giorgio Almirante e ad altri esponenti missini come Massimo Anderson e Pietro Cerullo, di “liberare” l’università occupata dagli studenti guidando un manipolo di mazzieri. Cominciava l’era della sperimentazione di nuove forme di militanza, azione e incisione politica. Comincia una necessaria quanto spregiudicata analisi del passato e di suoi protagonisti.

Il MSI dell’allora segretario Arturo Michelini era ferocemente ostile alla contestazione del 1968. Ecco come si esprimeva Il Secolo d’Italia, organo ufficiale del MSI, in un articolo del 25 febbraio 1968 intitolato ‘una carnevalata che è durata anche troppo’: “La situazione dell’università è ormai giunta al limite del tollerabile. La teppaglia di sinistra si è servita di alcuni motivi (forse giustificabili) di scontento per provocare l’occupazione delle sedi universitarie. E la protesta espressa attraverso l’occupazione ha ben presto mostrato il suo vero volto: aule lordate, suppellettili sfasciate, sporcizia dappertutto. Alle finestre dei locali occupati o dietro i cancelli le espressioni ebeti di straccioni ed invertiti colmi di capelli, di lerciume e di pidocchi”.

Gli eventi del 16 marzo 1968 vengono così narrati da un testimone che si trovava nella facoltà di Lettere oggetto dell’assalto missino, assieme agli studenti di sinistra: Ugo Gaudenzi Asinelli, all’epoca esponente di Primula Goliardica, organizzazione universitaria vicina alle posizioni di Alleanza per la Nuova repubblica, la formazione politica creata dall’ex leader repubblicano Randolfo Pacciardi: “Guidati da Anderson, Almirante e Caradonna, i missini doc che portavano bandiere tricolori legate a bastoni molto lunghi ci attaccarono al grido di ‘Italia Italia’. Per difendere gli studenti medi, noi di Primula, alcuni marxisti-leninisti e diversi anarchici costituimmo la prima fila che assorbì l’urto degli assalitori, ai quali si erano aggiunti anche quelli che avevano occupato Legge. Gli unici che restarono ‘neutrali’ furono quelli di Avanguardia Nazionale. Successivamente ci riorganizzammo e li respingemmo fino a Legge, dove trovarono rifugio”. Testimonianza presente in: Nicola Rao, Neofascisti!, Roma, Settimo Sigillo, 1999, pagg. 123-124. Ora in: Nicola Rao, La fiamma e la celtica, Milano, Sperling & Kupfer, 2006.

Sempre Gaudenzi Asinelli, che sarà in seguito tra i fondatori della formazione “nazimaoista” Organizzazione Lotta di Popolo, corrispondente dell’ANSA a Beirut e direttore dell’organo ufficiale del PSDI L’Umanità, descrive così il clima del “68 a destra”. “Tra il ’66 e il ’68 fiorì una miriade di gruppi e gruppuscoli politici i cui componenti potevano andare da un minimo di cinque ad un massimo di un centinaio di militanti. Tutti su posizioni eretiche rispetto ai partiti tradizionali ed al panorama politico molto grigio in cui vivevamo. Tutti insomma cercavamo nuove collocazioni e soprattutto delle alternative esistenziali a quegli anni estremamente piatti. […] Si trattava di gruppi che dicevano cose assolutamente ignorate dalla politica ufficiale. Cose sia di destra che di sinistra. Cose che alcuni di noi ritennero di ravvisare nelle tesi di Pacciardi. Per quanto mi riguarda univo Nietzsche a Kerouac, Allen Ginsberg – con il quale una volta fummo fermati dalla polizia sulle scalinate di Trinità de’ Monti con dell’hashish – e i Vietcong, gli irlandesi e le Pantere Nere, Malcom X e Castro, Mao e il Che, che dopo la sua morte nell’ottobre del 1967 divenne immediatamente il nostro simbolo. Insomma un coacervo di situazioni e di miti che però avevano tutti un minimo comun denominatore: la lotta contro gli imperialismi di qualsiasi colore, la lotta al fianco di tutti i movimenti di liberazione nazionale. Eravamo invece in polemica con gli ‘hippies’ e i ‘figli dei fiori’ a causa del loro pacifismo”. In: Nicola Rao, Neofascisti!, Roma, Settimo Sigillo, 1999, 118 – 119.

Autonomia Nera e cupio dissolvi…

Secondo Adriano Cerquetti, avvocato difensore di numerosi imputati della lotta armata “in nero”: “Dire perché i giovani a destra si sono ritrovati su strade ribellistiche sul finire degli anni Settanta non è facile. Perché le cause furono molteplici e non tutte riconducibili ad un’ unica matrice. Non a caso il fenomeno comincia ad assumere rilevanza e storicità proprio nella seconda metà degli anni ’70, allorché la stessa destra politica e parlamentare è scossa da contraddizioni e lacerazioni circa la strada da imboccare per una linea che non fosse né velleitaria né subalterna. Non pochi furono i giovani che si sentirono “abbandonati” e cercarono autonome vie per affermare i loro valori”[11].

Marcello De Angelis, ex dirigente di Terza Posizione, così vede l’opzione “armata”: “Chi ci arrivava a destra, lo faceva per una sorta di scelta esistenziale. O perché preso da un sentimento nichilista, distruttivo e autodistruttivo, o da una spinta antipolitica”[12].

Si arriverà a formulare e palesare forme di radicale rifiuto verso tutte le ideologie, per privilegiare il momento della pratica dell’azione. Gli atteggiamenti caratterizzati da forme di sfiducia nei confronti delle “organizzazioni”, delle loro strutturazioni gerarchiche e del loro verticismo condurranno verso svariate forme di aggregazione di tipo spontaneistico e verso la marcata proposizione di un discorso politico di “area”. Saranno diversi i modi di percepire e sviluppare l’azione politica, diversi saranno gli strumenti e i metodi ritenuti validi per sviluppare efficaci politiche di aggregazione[13].

Paolo Signorelli, uno dei principali leaders della destra radicale di quegli anni, afferma: “[…] Si parla di area ma si realizzano strutture di movimento: si tende all’azione, ma questa degenera ben presto da lotta politica in pratica armata spesso fine a se stessa. “Costruiamo l’azione”, Terza Posizione, i NAR, costituiscono diversi modo di esprimersi di un’ esigenza generazionale di lotta e di ribellioni nei confronti del sistema di dominio. Ma, mentre “Costruiamo l’Azione” e Terza Posizione (sia pur su basi strutturali e programmatiche diverse ed in manifesto antagonismo tra loro) formuleranno un discorso politico avente come referente il popolo la cui cultura viene contrapposta ai “dogmi” di mercato” del sistema, i NAR si esprimeranno come “spontaneismo armato” inteso come scelta di lotta non iscrivibile in un progetto politico, ma anzi procedente dal rifiuto della politica e dalla volontà di porsi come alternativa esistenziale al sistema. La “vendetta”, l’uccisione dell’avversario politico, del servitore dello “Stato”, del delatore rappresentano il soddisfacimento violento di un senso istintuale di giustizia, quasi una sorta di compiacimento estetizzante e nichilista per la disperazione”[14].

Il MSI viene sommariamente liquidato, visto oramai servilmente integrato nel sistema, fautore in tutto e per tutto di una falsa opposizione, condotto da capi corrotti che abitualmente utilizzano la pratica della delazione nei confronti dei veri rivoluzionari; infatti, QUEX, il bollettino ciclostilato dei “Detenuti politici nazional-rivoluzionari”, afferma che: “Certo fascismo di maniera, truce, patriottardo e conservatore, è in fondo il cemento che tiene unito l’attuale sistema dell’arco costituzionale. Si è già ventilata l’idea di far ricoprire ai camerati il ruolo di guardie bianche del sistema in funzione anti-Brigate Rosse o, peggio ancora, di coinvolgerli in qualche nuovo squallido tentativo golpista. Se dovessimo portare avanti un’opera di infiltrazione è più logico cercare di infiltrarsi nelle BR, le loro idee non sono certo più lontane dalle nostre di quelle di certi squallidi individui che si dicono di destra, ed avremo almeno il vantaggio di avere a disposizione un’organizzazione e dei militari eccezionali, il che certo non si può dire per il MSI, i suoi transfughi e i suoi fiancheggiatori”[15].

Sempre QUEX tratteggia esaustivamente la situazione e il “sentire” delle giovani generazioni militanti della destra radicale: “Almirante e i suoi accoliti vengono al vostro funerale, al capezzale del vostro letto d’ospedale, perché hanno bisogno di martiri da pubblicizzare al fine di alimentare l’immagine del “partito vittima”, ma vi vendono per trenta denari ogni volta che il sistema esige un paio di teste calde”[16].

Il giudizio pesantemente negativo riguarda anche i capi della “destra di battaglia”: il loro “gollismo” ha portato a un umiliante subordinazione del movimento a progetti che perseguivano, in realtà, il rafforzamento del regime democratico; le forze interne al “Palazzo” riescono sempre a strumentalizzare i rivoluzionari ingenui. Le fornicazioni ambigue dei leaders storici, che intrallazzavano intrattenendo rapporti oscuri con i vari settori degli apparati, producono gravi traumi sulle giovani generazioni e portano ad atteggiamenti di profondissima sfiducia nei confronti di ambienti che, con il loro gerarchismo, avevano condotto ad una strumentalizzazione dei militanti. Tutto ciò porta ad un radicale e profondo rifiuto dell’ideologia, di tutte le ideologie, considerate come subdoli strumenti di repressione e controllo delle masse, sorta di sovrastrutture utili e necessarie unicamente al sostentamento e mantenimento del sistema di potere e di dominio, causa di deformazione, inquinamento e distruzione dei caratteri identitari di popolo e civiltà.

Contro le ideologie, lo strumento principe di elaborazione e pratica politica è l’azione. Questo è quanto traspare sin dalla prima pagina del numero zero del periodico, non a caso intitolato “Costruiamo l’Azione”, del 5 dicembre 1977 e pubblicato a Roma, e questo è quanto si legge in Posizione teorica per un’azione legionaria: “Il fil rouge della nostra storia […] passa al di fuori delle ideologie. I nostri movimenti si sono sviluppati secondo la logica opposta a quella “teoria – prassi”. Le ideologie, le costruzioni schematiche […] sono qualcosa di estraneo alla nostra natura […]. E invece l’azione in se stessa che accomuna uomini diversi per estrazione sociale e quindi per interessi materiali e spesso culturali”[17].

L’azione “esemplare” è dettata da bisogni esistenziali, nel rifiuto di ogni considerazione di carattere politico o meramente utilitaristico; su QUEX, infatti si afferma. “Non è verso il potere che noi tendiamo, né necessariamente, verso la creazione di un ordine nuovo […]. E’ la lotta che ci interessa, è l’azione in sé, il battersi quotidiano per l’affermazione della propria natura”[18].

Sull’ultimo numero di QUEX, Mario Tuti[19] precisa: “Sulle pagine di QUEX, come pure su altre pubblicazioni e bollettini, si è spesso parlato della necessità di “agire” per far trionfare la nostra concezione del mondo e realizzare noi stessi. Quasi tutti sono d’accordo su questo punto, ma i distinguo e le controversie sorgono appunto quando si tratta di definire il nostro concetto di “azione”, che alcuni vorrebbero restringere alla sola lotta armata, mentre altri lo ampliano fino al concetto tradizionale dell’agire senza agire […]. Non è questo il posto per dilungarci in dotte dissertazioni sul significato etimologico della parola “azione”, né delle sue interpretazioni alla luce degli insegnamenti della Tradizione e in vista dell’impostazione e della condotta della lotta rivoluzionaria. Noi qui vogliamo solo dare alcune semplici precisazioni che possono, riteniamo, essere utili a chiarire la questione e a guidare i giovani camerati che si riconoscono nelle posizioni di QUEX affinché non siano tratti in inganno da errate interpretazioni, sprecando così le loro forze in gesti senza scopo o, peggio, si abbandonino all’inerzia e al disimpegno per un malinteso agire soltanto interiore. e non dimentichiamo che ancora troppi individui indegni approfittano proprio di queste confusioni per portare avanti le loro trame o per giustificare la loro viltà. Date le innumerevoli situazioni oggettive in cui può venire a trovarsi il militante, come pure le varie attitudini e capacità personali, non possiamo certo indicare qui una serie di azioni esemplari; indicheremo invece le caratteristiche qualificanti di quello che per noi deve intendersi come azione.

“L’azione”, nel senso più elevato del termine, è l’impegno concreto e totale del militante per affermare se stesso e le proprie idee contro tutte le difficoltà e gli ostacoli opposti dall’attuale società e dalla doppia natura umana, soggetti inevitabilmente a debolezze e limitazioni. E siccome per vincere questi ostacoli oggettivi e soggettivi è richiesto al militante spirito di sacrificio e disponibilità ad affrontare serenamente i pericoli e i disagi della lotta, il primo degli attributi dell’ “azione” deve essere la sua pericolosità, ricordando che proprio nel pericolo e col sacrificio l’uomo tempra se stesso e si cementano i gruppi. Naturalmente, il pericolo non è solo quello fisico di chi mette in gioco la propria vita, ma anche quello di chi, perseguitato dal regime, si espone ad essere colpito non solo dai servi del sistema ma anche da certi pseudo-camerati.

L’ “azione” poi deve essere disinteressata e impersonale, non deve quindi essere originata da impulsi passionali o da a ambizioni personali, ma al contrario compiuta sentendo di adempiere ad un dovere e con l’intima consapevolezza di stare vivendo secondo quelli che sono gli aspetti superiori della propria natura. Quindi questo distacco da tutto quello che da un lato è l’immaturo velleitarismo e dall’altro il desiderio di apparire e di mettersi un mostra di molti deve caratterizzare su un piano più alto l’ “azione” intesa in senso rivoluzionario.

Infine l’“azione” deve anche essere completa e adeguata, nel senso che deve essere rispondente allo scopo per cui viene intrapresa e non, come tanto spesso succede, fatta tanto per fare qualcosa […]. Naturalmente non è che l’azione debba per forza essere destinata al successo e portare sicuramente alla vittoria, anzi può essere molto valido il gesto esemplare destinato al fallimento sul piano materiale, ma anche in questo caso il militante deve rendersi conto lucidamente della situazione ed essere consapevole dei rischi e dei possibili risultati dei propri gesti. Non vogliamo insomma che i militanti si gettino allo sbaraglio o che, al contrario, si illudano con piccole iniziative, magari limitate al solo campo culturale, di portare avanti la lotta rivoluzionaria.

Concludendo, si può dire che l’ “azione”, perché possa diventare momento qualificante, deve essere, nell’ordine, “pericolosa, distaccata, adeguata” e facendo attenzione si vedrà che questi attributi possono essere posseduti da svariatissimi tipi di impegno militante, e quindi ognuno può individuare la maniera migliore per impiegare le proprie forze e, nel contempo, potrà verificare la rispondenza a quello che è il vero spirito dell’agire rivoluzionario proprio e altrui”[20].

L’azione, dunque, secondo questa prospettiva, deve essere fine a se stessa, deve trovare la propria giustificazione solamente in se stessa, con il generare regole che si riferiscono a valori superiori, e che danno significato magico e sacrale. Annullati valori quali Nazione, Razza, Stato, generatori unicamente di tragici fallimenti, resta, in questa visione, unicamente la lotta politica come dovere e missione esistenziale: “Nulla più della battaglia giusta si addice allo Kshatriya”[21]

Ognuno lotta per se stesso, per la propria qualificazione e per il proprio innalzamento esistenziale. Tutto ciò funge da collegamento alla scelta strategica: “spingere gli elementi di disgregazione del sistema fino alle loro estreme conseguenze”[22]. Nulla di questo sistema merita di essere salvato.

Queste enunciazioni concettuali di matrice metapolitica vengono calate nella realtà contemporanea. Viene denunciata come oramai raggiunta la saldatura del sistema capitalista con quello comunista, ambedue espressione di “abietto” economicismo, che ha portato ad un blocco compatto, incolore, amorfo, in cui viene collocato un movimento operaio che ha perso oramai ogni pulsione rivoluzionaria, intontito e anestetizzato dal consumismo, fondamentale strumento i dominio, annullamento e manipolazione democratica.

Espressione politica di questo connubio è, in Italia, il cosiddetto “compromesso storico” ovvero l’alleanza tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, che viene visto come manifestazione, a livello locale, del sistema dell’imperialismo globale di USA e URSS, che domina implacabile a livello planetario, pronto a stritolare sul nascere ogni forma di dissidenza. Questo era riassunto incisivamente nello slogan: “Contro il sistema multinazionale, rivoluzione popolare”[23].

Sul piano metapolitico si verifica la riproposizione e ridefinizione di ideali di ascendenza pagana e guerriera rappresentati dalla figura del “soldato politico”, la cui ultima incarnazione è rappresentata dal “latitante operativo”[24]. Nel pensiero di Pierluigi Concutelli, comandante militare del Movimento Politico Ordine Nuovo e dei GAO (Gruppi d’Azione Ordinovista), uno dei pochi esponenti della generazione precedente, assieme a Mario Tuti, che esercitava ancora un notevole carisma sulla nuova generazione, “il soldato politico è l’estrema conclusione cui può giungere il concetto di guerra totale ed è perciò il vettore più adatto di questa forma di ostilità […]. Il soldato politico identifica i motivi con la lotta e addirittura con se stesso…”[25].

Sul piano effettuale la decisione è quella di solidarizzare e sostenere chiunque si proponga di combattere e abbattere il sistema di potere dominante secondo una linea già abbozzata da Franco Giorgio Freda in La Disintegrazione del Sistema[26], linea che implica solidarietà, sul piano internazionale, nei confronti di tutti i movimenti di liberazione antimperialista, dai Montoneros argentini agli irlandesi dell’IRA, dai baschi dell’ETA ai feddayn palestinesi, dai nativi americani alla rivoluzione Sandinista nicaraguese.

In ambito nazionale, l’interlocutore privilegiato, intorno al 1977, è l’area della Autonomia Operaia Organizzata. Questo è quanto dichiarato nei Fogli d’Ordine: “Il progetto dell’area dell’Autonomia Operaia è ricomporre nella pratica di lotta la divisione tra coscienza rivendicativa (sindacato) e coscienza politica (partito). Progetto già proprio del sindacalismo rivoluzionario (Sorel, Corridoni). Si vuole cioè fare uscire le masse operaie dal ghetto economicista e far loro ritirare la delega ai gramsciani intellettuali organici (PCI), che per diritto divino gestiscono la politica in loro nome. Ipotesi degna della massima attenzione ma destinata a sicuro insuccesso per il controllo pressoché totale che triplice sindacale e PCI hanno dell’ambiente operaio incatenato alla formula “Pane e lavoro”. Ipotesi altrettanto irrealistica è volere sanare la contraddizione tra occupati e disoccupati con la parola d’ordine “salario garantito per tutti”. si deve d’altra parte riconoscere negli autonomi una potenziale forza antisistema.

Concetti come appropriazione, riprendiamoci la vita, rifiuto del lavoro, distruzione della scuola, cavalcare la crisi, uscire dalla crisi con la crisi, propiziare la disoccupazione di massa, illegalità dell’ordine democratico repubblicano, rifiuto dell’eldorado consumistico, raggiungono un livello che è limitato soltanto dalla mancanza di consapevolezza del loro vero senso da parte di che li enuncia. Limiti intrinseci alla matrice marxiana cui si rifanno, che riduce inevitabilmente la critica agli effetti della rivoluzione industriale, senza la capacità di individuare e distruggere le cause che hanno messo in moto la macchina infernale… E’ opportuno seguire con attenzione il fenomeno, evitare lo scontro diretto (anche se è necessario reagire pesantemente alle provocazioni, sia per motivi di prestigio, sia perché alla lunga favorisce il dialogo), partecipare con sigle differenziate a iniziative comuni (per esempio in favore dei referendum)”[27].

Sempre nei Fogli d’Ordine si afferma che l’area avrebbe dovuto essere organizzata in “Nuclei rivoluzionari di lotta al sistema […] presenti in tutte le situazioni in cui si intraveda spazio per l’attività rivoluzionaria, colpendo il sistema in tutti i suoi gangli, nascondendo la propria militanza nel Movimento attraverso la diversificazione di sigle”[28].

Sergio Calore[29], esponente di “Costruiamo l’Azione” in seguito “pentito” così tratteggerà il percorso di un area trasversalista intenzionata a superare ogni dicotomia tra Destra e Sinistra: “Da parte mia esiste un’ adesione alla metodologia dell’Autonomia Operaia consistente nel fatto che ritengo necessario, al fine di un concreto cambiamento della situazione politica esistente, un processo di presa di coscienza delle masse proletarie e sottoproletarie tendente a sostanziarsi in un allargamento dell’area di libertà e di partecipazione alla vita politica e sociale […]. Nella mia concezione politica ritengo che la forma Stato attuale non garantisca sufficienti livelli di partecipazione”[30]. Continua Calore: “Consideravo come possibile referente di ogni nostra azione, di ogni nostro discorso, tutta quell’ area che opportunamente la scuola sociologica di Francoforte ha definito come area del Rifiuto […]. Questo tipo di impostazione portava a considerare omogenee aree estremamente diversificato nella loro origine. Tra le quali, la cosiddetta Autonomia Operaia, ma anche tutte le aree devianti, da quelle della criminalità a quelle del Manicomio, dell’emarginazione sociale nel territorio, i cosiddetti sobborghi, le baraccopoli eccetera”[31]. Infine: “In questa tematica si era venuto a creare un punto d’incontro teorico, tra chi, come noi proveniva da una esperienza politica motivata quasi esclusivamente sul piano esistenziale e chi proveniva da una esperienza propriamente marxista-leninista ma che la rifiutava nella sua formulazione ortodossa, il “materialismo dialettico”[32]. Negli ambienti estremisti avviene una vera e propria rifondazione caratterizzata e contraddistinta dal nuovo ribellismo. Dopo il “nazimaoismo” (scherzosamente definito come il Trans-Mao-Nazitse-Tung[33]) e dopo la disillusione verso un “fascismo immenso e rosso”[34]. Vi è la percezione che fra le nuovissime generazioni, a destra, sta montando lo scontento e sta crescendo una nuova volontà e una inedita, rabbiosa, disponibilità a lottare.

…………………..

[1] A più mani, Hobbit Hobbit, Roma, Libreria Editrice Europa, 1982, pag. 23.

[2] Il “Palazzo” è la definizione coniata da Pier Paolo Pasolini nei suoi Scritti Corsari per indicare il Potere.

[3] “[…] Mi piacevano quelli di Radio Alice, perché erano dei libertari. Noi, i sostenitori della “società ordinata” (dall’alto, ovviamente) eravamo i veri ANARCHICI INDIVIDUALISTI. Spinelli (e non solo), notti brave, vacanze in sacco a pelo: questa era la nostra “vita segreta” (segreta per chi non ci conosceva). Perciò molto semplicemente nel ‘77/78 si passa alla clandestinità, alla lotta armata”. Fabrizio Zani in: Ugo Maria Tassinari, Guerrieri, Napoli, Immaginapoli, 2005, pag. 118.

[4] Carmen Bertolazzi , I miti, i valori, le armi, (intervista a Livio Lai) , in “Antigone”, maggio-giugno 1986. Ora in: Luciano Lanna e Filippo Rossi, Fascisti immaginari, Firenze, Vallecchi, 2003, pag. 284.

[5] Terza Corte d’Assise di Roma, Il fenomeno associativo, gruppi e bande, la militanza nella Falange libanese, la latitanza a Londra, cit, pag. 308.

[6] “Le iniziative autonome spontanee nascono in posizione conflittuale con il passato che è sottoposto a critica politica e strategica”. Fabrizio Zani in: Ugo Maria Tassinari, Guerrieri, Napoli, Immaginapoli, 2005, pag. 82.

[7] Roberto Nistri, ex dirigente di Terza Posizione, in: Ugo Maria Tassinari, Fascisteria, Roma, Castelvecchi, 2001.

[8] Adalberto Baldoni, Noi Rivoluzionari, Roma, Settimo Sigillo, 1986, pag. 153.

[9] Adalberto Baldoni – Sandro Provvisionato, A che punto è la notte?, Firenze; Vallecchi, 2003, pag. 252. Il 1977 vedrà lo sviluppo di gruppi provenienti dall’estrema destra sempre più attenti ai bisogni sociali ed al carovita. A Roma, tra gli altri, risulta utile ricordarne uno dal fantasioso nome di “Gasparone e i Briganti della Tolfa”, molto attivo nei confronti dei rincari dei servizi pubblici.

[10] Adalberto Baldoni – Sandro Provvisionato, A che punto è la notte?, Firenze, Vallecchi, 2003, pag. 251.

[11] Adalberto Baldoni – Sandro Provvisionato, A che punto è la notte?, Firenze, Vallecchi, 2003, pag. 251.

[12] Luca Telese, La guerra è finita e noi non siamo più gli stessi (intervista a Sergio D’Elia e Marcello De Angelis), in “Vanity Fair”, 22 giugno 2006.

[13] “Un po’ tutti eravamo dell’idea di un’organizzazione di tipo misto, con isole di spontaneismo, piccoli gruppi in clandestinità chiusa alle BR, gruppi alla Prima Linea”. Fabrizio Zani in: Ugo Maria Tassinari, Guerrieri, Napoli, Immaginapoli, 2005, pag. 117.

[14] Adalberto Baldoni – Sandro Provvisionato, A che punto è la notte?, Firenze, Vallecchi, 2003, pagg. 255-256.

[15] QUEX, n. 1, ottobre 1978.

[16] QUEX, n. 4, marzo 1980, pag. 8.

[17] In: Fabrizio Zani, “Posizione teorica per una azione legionaria”, foglio ciclostilato, 1978. Zani, già aderente a Ordine Nero, divenne successivamente esponente dei NAR e redattore di “QUEX”, il bollettino di coordinamento dei detenuti nazional-rivoluzionari.

[18] QUEX, N. 3, 1980.

[19] La figura di Mario Tuti rappresenterà il punto di rottura tra la “vecchia guardia” del golpe e delle trame e la generazione della lotta armata contro il sistema. Per una nuova generazione di militanti, Tuti sarà il primo combattente a prendere le armi per scendere sul terreno della guerra allo Stato.

[20] Mario Tuti, Precisiamo, in “QUEX Presenza”, bollettino a diffusione interna del Centro Studi QUEX, a cura dei detenuti politici nazional-rivoluzionari, Carceri penali Novara, marzo 1981. Il testo in maiuscolo è nel documento originale.

[21] Julius Evola, La dottrina aria di lotta e vittoria, Padova, Edizioni di AR, 1970.

[22] Prospettive dell’Azione Rivoluzionaria, documento ciclostilato, senza luogo di pubblicazione, 1977.

[23] Fogli d’Ordine, documento ciclostilato, marzo e maggio 1978, espressione del gruppo dirigente della rivista “Costruiamo l’Azione”, sequestrato a Rovigo il 21 dicembre 1978.

[24] Il percorso esistenziale di Pasquale Belsito, ex militante di Terza Posizione e ultimo latitante dei NAR, arrestato a Madrid il 30 giugno 2001, è paradigmatico riguardo alla figura del “guerriero metropolitano” e del “soldato politico”.

[25] Pierluigi Concutelli, La guerra rivoluzionaria, Padova, Edizioni di AR, 1982.

[26] Franco Giorgio Freda, La Disintegrazione del Sistema, Padova, Edizioni di AR, 1969. L’opera era stata pubblicata la prima volta anonimamente come espressione di AR. Le successive edizioni sono a nome di Freda, Padova, Edizioni di AR, 1982.

[27]Fogli d’Ordine, cit.

[28] Fogli d’Ordine, cit.

[29] Può apparire curioso rilevare come Sergio Calore abbia attuato un personale superamento delle barriere tra Destra e Sinistra sposando l’ex brigatista rossa “pentita” Emilia Libèra, conosciuta durante la detenzione nel penitenziario di Palliano.

La Libèra, membro della colonna veneta delle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente ed ex militante dell’Autonomia romana, è stata protagonista assieme all’allora suo compagno Antonio Savasta, a Cesare Di Lenardo, Giovanni Ciucci ed Emanuela Frascella del sequestro del generale statunitense in forza alla NATO e vice-comandante delle forze terrestri alleate nel Sud Europa James Lee Dozier, rapito a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato a Padova il 28 gennaio 1982.

[30] Sergio Calore, dichiarazione facente parte degli atti d’inchiesta del giudice istruttore di Bologna, dott. Vincenzo Luzza, cit. in: Gianni Flamini, Il partito del Golpe, vol. IV, tomo II, Ferrara, Italo Bovolenta editore, 1985, pag. 498; si tratta di una dichiarazione.

[31] Deposizione in Corte d’Assise di Roma, 1982, cit. in: Maurizio Fiasco, La simbiosi ambigua, in: Raimondo Catanzaro (a cura di), Ideologie, Movimenti, Terrorismi, Bologna, Il Mulino, Ricerche e studi dell’Istituto Carlo Cattaneo, 1990, pag. 168.

[32] In G. Buso, La vicenda e i gruppi della Destra radicale in Italia. Un profilo dei Soldati Politici, Tesi di dottorato, Università di Firenze e Torino, 1993.

[33] Claudio Scorretti, La Nazionale era rivoluzionaria ma io stavo sempre in panchina, in: Maurizio Cabona e Stenio Solinas (a cura di), C’eravamo tanto a(r)mati, Vibo Valentia, Edizioni Sette colori, 1984.

[34] Raffaello Belcaro, Queste lettere non sono fatte per essere bruciate, in: Maurizio Cabona e Stenio Solinas (a cura di), C’eravamo tanto a(r)mati, Vibo Valentia, Edizioni Sette colori, 1984. La definizione è stata coniata dallo scrittore francese Robert Brasillach.

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