DON CONO “U SARTU”- Le sue mani si muovevano con disinvoltura, sulle stoffe “incimate” e ricordavano l’abilità dei chirurghi
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DON CONO “U SARTU”- Le sue mani si muovevano con disinvoltura, sulle stoffe “incimate” e ricordavano l’abilità dei chirurghi

Le sue mani hanno tagliato e cucito vestiti sin da piccolo. Era  tra i pochi veri sarti di Brolo, spostò la sua sartoria  da “ntù chianu” del Castello in via Roma vestendo non solo la gente della “marina” ma la piccola borghesia del paese che da lui trovava sempre l’occasione per soffermarsi a chiacchierare. Poi ha fatto orli e giacche per generali e comandanti quando lavorò all’ospedale militare di Messina. Aprì la prima vera edicola del paese e un bar dove ogni scolaro passava a comprare le “masticanti” e i panini, ben fatti dalla signora Santa, sua moglie… Lui era Don Cono. Un vero amico per tanti.

Iniziò a lavorare da giovanissimo, scegliendo quel mestiere per non far il  pescatore, e per non andare a lavorare dentro i magazzini o nelle fabbriche di “spirito”.

Così divenne tra i più gettonati “sarti” del paese.

E nel corso della sua vita non ha mai smesso di farlo, arrivando a vestire  le persone più importanti del paese, e poi anche militari e graduati, gli amici e i compari, ma rimanendo il sarto degli umili, di chi non poteva permettersi un vestito nuovo e per i quali ci pensava lui con rammendi d’arte, buoni a rifar un l’abito per la festa, e per i quali non si prendeva una lira.

Don Cono Ricciardo è morto otto anni fa. Era del 1927 ed aveva visto, sorridendo, e criticando bonariamente tutti e tutto, come cambiava il suo paese, e lui insieme a questo.

Aveva sposato donna Santa Dovico, anche lei sarta. La compagna per tutta una vita.

Santa era una donna gentile nei modi, nel fare, nell’essere, che sorrideva sempre, amatissima da generazioni di scolari, ai quali porgeva i “pesciolini” imbottiti.

Quel panino di farina bianca – una specialità del forno di Luciano Gaglio – da mangiare durante la ricreazione.

Infatti don Cono, lungimirante e attento, curioso nel quotidiano e della vita, aveva anche aperto, sulla piazza Roma appena costruita, praticamente confinante con la sua sartoria, un piccolo baretto.

A gestirlo appunto era la signora Santa e poi le sue figlie, Vittoria, Nunziatina e la più piccola Maria Tindara.

Un bar, ma forse è un eufemismo chiamarlo tale, che era una stanza quasi a servizio di insegnanti e bambini, ma punto di riferimento per il caffè di tanti e per le bibite gelate dai ragazzi che in quella piazza giocavano a pallone sino a tarda sera, d’inverno e d’estate.

Don Cono non era solo sarto, e come sapeva gestire i rapporti umani, sapeva anche far quadre i conti, e ci vide bene quando si inventò, condividendo lo spazio con la sartoria, la prima vera edicola del paese.

Prima di lui, qualche fumetto si trovava solo da Frassica, in piazza Mirenda, e nulla di più.

Da lui arrivavano i quotidiani, i giornali sportivi, le raccolte e le bustine delle figurine, gli Alan Ford, i Topolino,  ed i Tex Willer e tanti fotoromamzi che andavano a ruba e spoi si scambiavano per le viuzze del Castello.

Così Cono Ricciardo, cuciva e si guardava intorno, osservava i nuovi tagli di moda, i rivetti, la lunghezza delle maniche o i tagli delle spalle delle sue giacche, che disegnava con i gessetti che teneva in una vecchi latta aiutandosi con le lunghe righe.

D’estate parlava e si confrontava, seduto sul “bisolo” del bar, con i fratelli Marino, sarti a Torino, si ingegnava i modelli e aveva un armadio pieno di cataloghi e campionari di lane e lini pregiati.

Amava la vita e la famiglia.

Erano sette i figli di Vittoria Pizzino e Cono Tindaro Ricciardo, i suoi genitori.

Di fatto Cono assunse presto il ruolo di “consigliore” dei suoi fratelli, fino alla fine, gestendo discussioni e incomprensioni, ma puntando sempre all’unione familiare.

Per lui la Famiglia era la Famiglia ed era festa quando la vedeva riunita ritrovando Saverio, imbarcato sulle grandi navi mercantili, Giuseppe, che divenne imprenditore di essenze di agrumi dopo che ci era cresciuto quei dentro magazzini da garzone; Enrico che commerciava in bevande gassate e limoni; Ernesto, tra i primi vigili urbani del paese, con Fiippo Traviglia e Vincenziono Princiotta; Emilio, che amava la lirica, che ne cantava le arie e che emigrò a Verona ma che è bello ricordarlo come quel ragazzo che aprì il primo lido brolese.

Davvero un antesignano di quel che sarà la Brolo dell’intrattenimento estivo del terzo millennio. Si chiamava “Lo scoglio”, tra una vecchia colonia e un grande magazzino di limoni, dove ci suonavano i “Cormorani” ed il Jukebox andava a tutto spiano.

E poi per completare i componenti di quella famiglia c’era Maria, la più piccola che aiutava i genitori a gestire sia il Cinema “Risveglio” che era stato affidato loro da Mariano Scarpaci, compresa l’arena estiva che il Bar della Marina.

Oggi è il Bar del Sole, una volta era l’ultimo presidio abitato di quella strada. Lì finiva la via Marina, di fronte c’era il cinema, a fianco la bettola di Don Santo, di fronte la casa della “Gorgona”.

Il quartiere finiva tutto lì. E quel bar, due stanze appena, una cucina sul retro era anche presidio di freschezza, di granite, di birre ghiacciate d’estate e d’inverno, e  d’inverno, punto di incontro dei pescatori per l’ultimo bicchierino prima di andare a nanna. Era sentirsi a casa.

Poi Don Cono trovò impiego all’Ospedale Militare.

Non si seppe mai cosa facesse di preciso.

Di fatto seppe tessere, anche lì, in un batter d’occhio una rete di amicizie “stellate” incredibili.

Molti a Brolo non fecero il militare per un suo intercedere, e tanti dovrebbero ancora ringraziarlo per le convalescenze “regalate” o una licenza inaspettata.

Era sempre possibile ottenerla.. se ci pensava Don Cono.

Lui entrava ed usciva dagli uffici di quel presidio militare, dalle infermerie, con una non chalance incredibile e così sotto casa sua spesso si fermavano a mangiare o cenare generali e colonnelli, o in transito, o venuti apposta.

C’era sempre un posto a tavola per tutti.

Generoso come pochi, amava la vita, il lavoro, la famiglia e metteva la sua energia in ogni cosa che faceva.

Andando in pensione, non perse vitalità, amava andare alle Terme, era di casa a Chianciano e Salsomaggiore, sempre con l’inseparabile moglie.

Don Cono stava tra la gente, e sopratutto con gli amici di sempre, Nino Dainotti, Peppino “il magnifico”, Nino Zumbo, Pietro Scaffidi Argentina, il fratello di Amerigo, Nino Bacina, e Nino Caruso – tanto per far qualche nome.

Erano gli amici inseparabili, che sapevano però uscire, con discrezione, dalla sua sartoria quando finito d’imbastire il vestito Cono aspettava il cliente per le prove.

Era bravo a fare asole e  sottopunti.

Quando era in sartoria vestiva sempre con camicia e gilè e su questo aveva sempre puntati alcuni aghi con il filo ed una fettuccia metrica intorno al collo con la quale misurava la vita, la gamba, il braccio.

I complimenti, mai di circostanza, diventavano obbligatori quando consegnava i vestiti. Erano veri, lui si schermiva, alzando il braccio, gli spilli in un angolo della bocca, ma alla fine era felice.

Quel “bel vestito” era frutto di un lavoro certosino. Un atto d’amore del sarto verso il suo lavoro e verso il cliente che alla fine diventava amico.

E’ facile ricordarlo d’estate, già in pensioe, al bar del Sole, nel rito quotidiano del portare a casa, ai nipoti “un bucale di granita”…o cercare, all’ufficio turistico sottocasa, un manifesto dei Moda da regalare alla nipote più piccola.

Don Cono era fatto così… una gran brava persona e quando “partì” si avvertì la sua assenza, mancò la sua calda voce e ci fu un grande silenzio.

 

 

La fotogallery

   

 

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29 Aprile 2018

Autore:

redazione


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