Un pensiero diverso, forse fuori dal coro della lettura della sentenza di lunedì sera letta nell’aula del tribunale di Patti
“Indipendentemente dal giudizio sull’ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci [il nostro é positivo, umanamente e politicamente ndd], la sentenza che condanna [(dopo 7 giorni di camera di consiglio, infligge ai 91 imputati – assolti 10 – più di sei secoli di carcere, confisca ditte individuali e società agricole e sequestra beni per 4 milioni)] “i boss della mafia dei Nebrodi è cosa buona e giusta”…
A scriverlo è Antonio Arena – giornalista pubblicista, saggista, esperto di politica europea ed estera, dal 1978 al 2014 già funzionario italiano presso il Parlamento europeo che non disdegna di esser anche editorialista del nostro fogliaccio – che aggiunge:
“Speriamo che lo Stato possa riprendere il controllo del territorio (ma non ci spero molto). Una nota di colore sull’ignoranza e sul depistaggio mediatico: la stampa (soprattutto la siciliana) insiste nel classificare i loro reati come “truffa alla UE”, quasi che queste soggetti avessero furbescamente fottuto i soldi all’Europa e non invece – come è nella realtà – al bilancio italiano (che implementa il bilancio comunitario – sono fondi in parte “di ritorno”) e soprattutto sorvola sul fatto che tali fondi sono stati sottratti a chi avrebbe potuto utilizzarli per uno sviluppo duraturo e sostenibile dei Nebrodi…”
E conclude: “Poi “derubricando” mediaticamente il reato a quasi “furto con destrezza” nei confronti di una entità lontana e “nemica” ingenera una sorta di “ammirazione ed invidia” in chi vorrebbe emularli nel “fottere i soldi alla UE”…”.
la sentenza
il processo
Si è celebrato davanti al tribunale di Patti. Pene durissime, dopo 7 giorni di camera di consiglio, per un dibattimento con 101 imputati, celebrato in tempi record e che ha visto impegnati 4 pm della Dda di Messina: l’aggiunto Vito Di Giorgio, i magistrati Fabrizio Monaco, Antonio Carchietti e Alessandro Lo Gerfo. Il processo nasce dall’operazione denominata “Nebrodi” che, oltre a ricostruire l’organigramma dei clan messinesi, ha scoperto una truffa milionaria, commessa dalle cosche, ai danni dell’Ue.
Novantuno condanne e 10 assoluzioni
I condannati sono stati 91, gli assolti 10 mentre il sequestro di beni è stato per circa 4 milioni di euro . Non solo. Nell’ambito del maxi processo dei Nebrodi, la Corte (il presidente del collegio ha impiegato 35 minuti per leggere il dispositivo) ha anche deciso per tutti i condannati per i reati mafiosi l’interdizione perpetua, l’interdizione per 5 anni per quelli condannati per associazione ma senza le aggravanti mafiose, la confisca di 17 ditte individuali e società agricole, la confisca di buona parte dei milioni di euro sequestrati nel 2020.
Dovranno poi essere risarciti gli imprenditori agricoli che hanno denunciato l’appropriazione dei terreni da parte dei mafiosi, e le associazioni antiracket e tutte le altre parti civili costituite.
Sono state riconosciute soltanto due provvisionali per complessivi 8mila euro alle associazioni costituite, per il resto si deciderà in sede civile.
Le motivazioni saranno note tra 90 giorni.
La truffa alla Unione europea
Gli imputati erano accusati a vario titolo di associazione mafiosa – per molti di questi però questa aggravante è caduta – , truffa all’Ue, falso, estorsione, trasferimento fraudolento di valori. A istruire l’atto d’accusa alle “famiglie” mafiose dei Nebrodi dei Batanesi e dei Bontempo Scavo è stata la Dda di Messina che in 20 mesi ha ricostruito davanti al tribunale di Patti gli organigrammi dei clan svelando complicità di prestanomi e insospettabili professionisti.
La “mafia dei pascoli” non c’è più, hanno sostenuto i pm. Al suo posto c’è una organizzazione imprenditoriale al passo coi tempi e capace di sfruttare le potenzialità offerte dall’Unione Europea all’agricoltura. Prevalentemente su base familiare, in rapporti con Cosa nostra palermitana e catanese, la mafia dei Nebrodi ha continuato a usare vecchi metodi come la minaccia e la violenza, ma i taglieggiamenti spesso erano finalizzati all’accaparramento di terreni, la cui disponibilità è presupposto per accedere ai contributi comunitari; «settore, questo, – scrisse il gip che firmò oltre 90 misure cautelari e il sequestro di 151 imprese – che costituiva il principale, moderno, ambito criminale di operatività delle famiglie mafiose».
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