“Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana
di Giona A. Nazzaro
Paradossalmente, per avvicinarsi a Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana bisogna dimenticare all’ingresso del cinema ciò che si sa, ciò che si pensa di sapere e, soprattutto, le proprie convinzioni ideologiche.
Non per banalmente accettare supinamente la tesi del regista e degli sceneggiatori Rulli e Petraglia ma, semplicemente, per godere, innocentemente (casomai fosse possibile…), di un buon film italiano animato da una tensione civile forte e nobile e che, al tempo stesso, non depone linguaggio e poetica ai piedi dell’altare dell’invettiva.
Premessa quasi pedante e purtroppo inevitabile.
Perché di fronte alla ferita che rappresenta la strage di piazza Fontana nella coscienza e nell’immaginario dell’Italia è quasi inevitabile parlare d’altro, e questo senza tenere conto delle pratiche giudiziarie che nel corso degli anni sono aumentate come l’inevitabile metastasi del cancro della prima menzogna pronunciata per coprire quell’infame colpo inferto a una democrazia debole e fragile.
Un cinefilo melomane ossessionato dalla figura del Padre (maiuscola obbligatoria) che inevitabilmente non può fare a meno di fiondarsi nell’agone della storia (più o meno) recente.
Non a caso la sua versione di Romanzo di una strage, nonostante tutta la tensione profusa nel film, per giungere a offrire l’immagine di una verità possibile, è soprattutto la rappresentazione della lotta titanica fra i figli smarriti sotto la tenda del circo della storia di un paese uscito da poco dalla tragedia della seconda guerra mondiale – sulla soglia di una modernità avvertita come matrigna e ingannatrice – mentre padri lontani, distanti e traditori, celano il loro volto nelle ombre del buio che una mancata rielaborazione dell’esperienza fascista alimentava e ancora alimenta.
Romanzo di una strage è il pianto attonito che constata un tradimento: il tradimento dei padri consumato ai danni dei loro figli.
Anzi. Il sacrificio si compie. E il sangue non si laverà mai.
Rispetto ai due grandi esempi del cinema civile italiano, Elio Petri e Francesco Rosi, Giordana cela la sua voce tra le pieghe di un racconto piano e apparentemente senza scosse.
Lineare, come una classicità post-televisiva. Se in Rosi la supremazia della forma offriva vigore alla tesi politica, non essendo Rosi al servizio di nessuna verità ufficiale pur essendo un intellettuale schierato a sinistra, in Petri la torsione del grottesco (accolta da Sorrentino per il suo Divo), favoriva una deriva barocca spagnoleggiante che, in ultima analisi, diventava angosciata invettiva.
Giordana, invece, si trova a osservare la storia del paese dei padri, dalla prospettiva di un figlio postumo. Maledetti vi amerò, suo primo lungometraggio, distribuito nel 1980, non era solo il segno di uno smarrimento di una generazione alla fine degli anni Settanta, quanto la testimonianza di un esilio dalla storia, propria, individuale e collettiva. E, soprattutto, la documentazione di un paesaggio nel quale i padri, ancora una volta, avevano consumato un atroce tradimento.
In questo senso il cinema civile secondo Giordana è sempre la storia di un figlio ucciso dal padre. Romanzo di una strage, in questo senso, tenta un approfondimento prospettico ulteriore: i figli uccisi, attraverso il lavoro prodotto dallo scavo della verità, vengono ricondotti al ruolo originario di padre negato loro dalla storia e della violenza. La storia interrotta, riconosciuto ciò che l’ha spezzata, può continuare. Forse.
E se dunque prima il cinema di Giordana sembrava come riferirsi a un’autorità esterna (una mancanza interrogata cui il cinema tentava di dare corpo), cui la cinefilia mai taciuta dell’autore conferiva un’identità traslata, con Romanzo di una strage, nel processo di rielaborare un lutto indicibile, il regista si trova a dare vita finalmente a padri, inevitabilmente assenti essendo stati assassinati, ma che è possibile recuperare alla loro funzione educativa, seppur postumi.
Se dunque questo è l’arco etico del film, che si tende da Aldo Moro cui la rappresentazione sofferta di Gifuni offre l’immagine ascetica di un servitore totale e assoluto dello stato e della democrazia, al quale la sceneggiatura offre addirittura una battuta dove invoca il martirio pur di difendere la patria e un anelito antimoderno quasi pasoliniano, il binomio Calabresi-Pinelli, antinomico ma complementare, offre l’immagine di una “meglio gioventù” sacrificata ai piedi di un altare del tradimento, di promesse non mantenute. Non a caso Giordana in conferenza stampa evocava Shakespeare, i cui principi chiamati a sostituire i padri riverberano in quasi tutti i personaggi del regista.
Ciò che quindi attrae fortemente nel film, è l’assunzione di responsabilità attraverso la quale Giordana opera, letteralmente, in senso strettamente etimologico, una revisione dell’intera vicenda di piazza Fontana, sottraendo dunque il revisionismo (ossia il vedere di nuovo…) alle spinte più reazionarie del paese. Rivedere per partecipare di una storia cristallizzata in posizioni trasmesse quasi come testimoni generazionali e per andare al di là delle barriere di un linguaggio segmentato. Un’operazione schiettamente cinefila, se si vuole.
Romanzo di una strage, dunque, rischia di essere un film insoddisfacente se lo si approccia con il metro del desiderio non confessato/confessabile che il film aderisca quanto più possibile alle proprie convinzioni ideologiche e giudiziarie sulle strage, ed è facilmente prevedibile che intorno a Romanzo di una strage si scatenerà una teoria di discussioni e polemiche notevole.
Può invece risultare il film più convincente di Giordana, se si accetta il rischio poetico di un autore che osa dare nomi ai propri fantasmi individuandoli nell’agone di una storia collettiva la cui ferita ha contaminato in profondità il corpo della democrazia italiana.
Perché, diradato il fumo delle bombe, a Giordana interessa individuare, soprattutto, il nome del padre. Di un altro padre. Perché un altro padre è possibile.
E con Romanzo di una strage, Giordana ci va davvero molto vicino.
fonte repubblica.it/micromega
il film . la scheda
David di Donatello
Migliore attrice non protagonista a Michela Cescon
Miglior attore non protagonista a Pierfrancesco Favino
Migliori effetti speciali visivi a Stefano Marinoni e Paola Trisoglio
Nomination Miglior film
Nomination Miglior regista a Marco Tullio Giordana
Nomination Migliore sceneggiatura a Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia e Stefano Rulli
Nomination Miglior produttore a Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini e Marco Chimenz
Nomination Miglior attore protagonista a Valerio Mastandrea
Nomination Miglior attore non protagonista a Fabrizio Gifuni
Nomination Migliore fotografia a Roberto Forza
Nomination Migliore scenografia a Giancarlo Basili
Nomination Miglior costumi a Francesca Livia Sartori
Nomination Miglior trucco a Enrico Iacoponi
Nomination Migliori acconciature a Ferdinando Merolla
Nomination Miglior montaggio a Francesca Calvelli
Nomination Miglior sonoro a Fulgenzio Ceccon
da wikipedia:
Reazione di Adriano Sofri
Il primo riscontro che il film ottiene è quello di Adriano Sofri, condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi che, all’indomani della prima del film, contestandone integralmente la ricostruzione dei fatti basata su fonti anonime che vorrebbero far passare la tesi di un “attentato duplicato” (sia nella versione liberamente tratta dal regista, che la versione del libro a cui il film si ispira) pubblica a tempo di record (il 31 marzo 2012) un instant book di 132 pagine – 43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film – per ripristinare, a suo modo di dire, la verità storica, facendo ampio uso del materiale ormai pubblico.
Reazione di Mario Calabresi
Altro riscontro che ha destato interesse è quello di Mario Calabresi, figlio del Commissario Luigi Calabresi, che ha definito il film coraggioso e nebuloso al tempo stesso, in quanto mostra chiaramente l’assenza del padre dalla stanza al momento della morte di Pinelli ma non approfondisce la campagna portata avanti da Lotta Continua, impedendo così di comprenderne a pieno la condanna. Attuale direttore de La Stampa, Mario Calabresi ha pubblicato la sua storia in un libro intitolato Spingendo la notte più in là, tradotto anche all’estero.
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