Cultura

GIORGIA & GIACOMO – Leggendo “Canto Notturno”

Al Comprensivo di Brolo diretto dal professore Giacomo Arena. Uno spunto di riflessione ma anche di attenzione. Quando le lezioni in classe diventato focus di apprendimento e di discussione.

la scuola che ci piace

Una lezione corale, con gli alunni di una terza “media”, sotto la conduzione della docente Mariella Squillacioti al comprensivo di Brolo.

Da qui, parlando di Leopardi e del suo “Canto Notturno”, nascono gli elaborati, sul testo, degli alunni.

Pubblichiamo – ma ve ne erano di altrettanti validi –  quello di Giorgia Princiotta, della 3B.

Mi sono sempre chiesta quale fosse il senso della vita, quale fosse il nostro posto, qual è lo scopo? Si, siamo vivi ma perché? Lo siamo davvero o sopravviviamo?

Leopardi possibilmente per scrivere il canto notturno si è posto la stessa domanda, ma alla fine la risposta è soggettiva a qualsiasi persona tu lo chieda ti risponderà con un pensiero che la maggior parte delle volte non colmerà i vuoti provocati dalle troppe domande che ti poni, alle quali non puoi rispondere perché qualsiasi risposta non sarà mai abbastanza, non sarà mai la risposta esatta che vuoi sentirti dire, qualsiasi persona provi a rispondere alla tua domanda esprimerà un pensiero influenzato dal suo stato d’animo, felice o triste che sia non può essere uguale al tuo, non può bastare. Eppure non ha senso, non ha mai avuto senso, esseri umani destinati a morire, andare a scuola poi fare figli e fargli ripetere il tuo stesso loop  un miliardo di volte, perché? Se tanto dimenticheremo e saremo dimenticati, e se qualcuno a volte ci penserà quando si scorderanno di noi o moriranno i loro pensieri, se mai espressi, moriranno con loro. Cominciamo dalla nascita nasciamo soffrendo per essere subito consolati dai genitori per poi morire cercando in vita qualcuno che ti consoli per gli errori commessi dei quali ti penti, cerchi qualcuno con cui invecchiare, a volte anche qualcuno con cui restare piccoli e ingenui, senza pensieri, qualcuno con cui essere te stesso, con cui aprirti, qualcuno a cui far conoscere chi sei, ma tu chi sei? Conosci davvero ciò che vuoi fare, chi vuoi essere? Ma nessuno potrà consolarti se non conosci te stesso talmente tanto da saperci convivere senza il bisogno di nessuno.

Alla fine possibilmente sarà ciò che nessuno riesce a vedere a restare vivo per sempre, la nostra anima.

Leopardi si pone molte domande e lo faccio anche io ma la domanda più grande che mi pongo adesso è, lui è riuscito a rispondere alle sue domande, ha trovato un senso?

 Giorgia Princiotta –  Scuola Sec. 3B

 

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchi erel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colá dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,

perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir della terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
— A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono? —
Cosí meco ragiono: e della stanza

smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre lá donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrá fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente; ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so giá dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
— Dimmi: perché giacendo

a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.

 

Redazione Scomunicando.it

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