GIORNALISTI – Giulia Quaranta Provenzano, riflessioni sull’essere artisti così come professionisti dello spettacolo
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GIORNALISTI – Giulia Quaranta Provenzano, riflessioni sull’essere artisti così come professionisti dello spettacolo

Artisti, professionisti dello spettacolo

 Oggi vogliamo dare spazio alla seconda parte di alcune considerazioni della nostra collaboratrice Giulia Quaranta Provenzano, a seguito del suo confronto con il manager Alberto Arnaud – per leggere la prima parte dell’articolo, pubblicato in data 04/05/2023, clicca qui https://www.scomunicando.it/notizie/giornalisti-giulia-quaranta-provenzano-riflessioni-di-vita-e-artistiche/  

Alberto Arnaud: <<Essere nato alla fine degli Anni ’70, a Torino, ha sicuramente influenzato il mio sviluppo personale e professionale. Crescere in una città con una forte storia industriale e altresì culturale e musicale, indubbiamente, ha avuto un impatto sulla mia formazione e sull’identità che ho costruito nel tempo così come sulle mie aspirazioni. L’epoca che mi ha visto bambino e ragazzo è stata caratterizzata da notevoli trasformazioni sociali, economiche e per l’appunto culturali sia a livello nazionale che globale. Negli Anni ’80 e ’90, l’Italia ha attraversato un periodo di grandi cambiamenti. Si è passati dall’egemonia politica della Democrazia Cristiana all’ascesa di Silvio Berlusconi e del Centro-destra. La globalizzazione e le nuove tecnologie hanno dato il via a nuove opportunità e aperto la strada a inedite possibilità per le persone, creando – al contempo – nuove sfide e problemi. La mia famiglia natale era di classe media, ho imparato l’importanza del duro lavoro e della determinazione ma ho anche sviluppato una profonda consapevolezza della necessità di lottare per i propri diritti e per la giustizia sociale>>. Giulia Quaranta Provenzano: Onestamente, stante l’andazzo generale italiano, mi pare che la meritocrazia sia spesso e per la maggiore solo una chimera… il terrore dei raccomandati senza alcun titolo di merito appunto, degli scansafatiche e degli incapaci (specie se tali, incapaci, lo sono per mancanza di volontà e d’applicazione che invece a loro invano si presenta accessibile) e, dunque, tristemente utopia. Ciò fa sì che proprio la giustizia sociale, sbandierata dalla tentacolare e ima mafia del sottogoverno così come e forse ancora più da parte del sistema costituito, si configuri piuttosto come una delle più ciniche e spietate menzogne ai danni soprattutto e in primis di coloro che sono preparati e/o volenterosi e naturalmente predisposti a una qual certa attività ma che non dispongono dei mezzi materiali, economici, di partenza necessari per farsi valere e affermarsi. Chi erano e chi sono oggi i mecenati? Se soldo chiama soldo e soltanto col denaro si fa denaro, si assiste allora alla ghettizzazione di coloro i quali sono dotati di pur ampie e notevoli potenzialità o persino pure ottime capacità che tuttavia richiedono investitori e la collaborazione di un team di specialisti in cui ognuno – secondo le proprie migliori innate attitudini e competenze acquisite e coltivate – cooperi all’espressione e all’esternazione di un’eccellenza che come tale lo è se (ci si trova di fronte a un soggetto della comunicazione curato e rifinito) in ogni singolo e minimo dettaglio. Senza dubbio i mecenati, come ciascuno di noi, avevano e hanno propri personali motivi e motivazioni alla base del favore o no nei confronti altrui e delle concrete sovvenzioni concesse… in passato, ebbene, mi chiedo se vi fosse o non vi fosse un pressoché serrato e invalicabile sbarramento dovuto al ceto e di ceto medesimo come vi è oggigiorno (alt che inibisce la marcia a meno che non si percorrano strade che, a mio avviso, sono licenziose e non onorevoli nonché denigranti dignità e pudore).            

Alberto Arnaud: <<È importante sottolineare che se non si lavora con una grande persona diventa difficile che si diventi un grande artista. (…)  Curare e rappresentare gli interessi di qualcuno – come manager – richiede un equilibrio tra diverse abilità e qualità come la pianificazione, la sperimentazione, la razionalità, l’istinto e l’empatia. È importante per l’appunto pianificare attentamente il percorso di carriera degli artisti, cercare nuove opportunità, prendere decisioni rapide e gestire gli aspetti finanziari. L’empatia, dal canto suo, è fondamentale per comprendere le esigenze personali proprio degli artisti e per collaborare con loro per raggiungere obiettivi comuni (…)>>. – Giulia Quaranta Provenzano: Mi trovo d’accordo con tutto ciò. Senza un manager che sia credibile e stimato nel settore di proprio interesse, settore in cui ci si vuole muovere e di cui si vuole fare parte non come saltuarie comparse o meteore, è altamente improbabile che si riesca a emergere. L’esperienza e i contatti che appunto un già noto manager ha, ma altresì che – se vuole – sa e che ha “peso” per intessere e instaurare, sono infatti pressoché imprescindibili affinché venga concesso spazio a un artista e questo specialmente se quest’ultimo è all’inizio del suo percorso nel mondo dello spettacolo. È cioè, spesso e volentieri, grazie alla fiducia e all’affidabilità precedentemente acquisita dal manager che viene concesso credito a un “suo” (nuovo) cantante, ballerino, attore e non solo del quale costui fa da garante del non poco valore. L’immagine pubblica e la reputazione sono fondamentali ed estremamente importanti non solamente nella carriera di un artista, bensì pure di colui che deve procurargli gli ingaggi e ne deve curare gli interessi artistici e pecuniari. Dal mio punto di vista, come lei stesso ha dichiarato, è essenziale per entrambi i suddetti ossia sia per il manager che per l’artista avere un aspetto curato e stiloso e fedele all’immagine e ai messaggi che si trasmettono con le proprie perfomance (sia esse musicali che d’intrattenimento più in generale, etc.). Professionalità e rispetto nel rapportarsi con il proprio team e collaboratori, coi clienti effettivi/storici e con quelli ancora potenziali, col pubblico e coi fan sono altrettanto doverosi – riuscendo presumibilmente a conquistare, così, una più duratura attenzione e la fedeltà da parte di coloro ai quali ci si offre e con i quali si condivide un qual certo “quid”. Per quello che concerne gli obiettivi comuni, penso che lo scopo ultimo delle due parti in causa debba sì essere il medesimo (ad esempio, il sold out a un concerto) ma che non necessariamente medesimo debba essere il bisogno intimo a cui si attinge nell’atto/la motivazione/la leva interiore che muove all’azione in vista dell’esito nel quale si configura l’intenzione. Certo è che più punti in comune si hanno a livello di funzionamento del cervello e ragionamento e meno facilmente si cadrà in fraintendimenti e malcontenti, più valori condivisi si hanno e meno si incorrerà nel dover magari affrontare situazioni e contesti lontani da quelle che sarebbero state le proprie prime scelte e preferenze se non entrassero in campo ragioni prettamente commerciali o comunque estranee di molto alla propria personalità. L’equilibrio tra ideale e concreto, tra realtà e immaginazione, tra volere e potere richiede l’acconsentire almeno un po’ al baratto e fiducia non unicamente in sé ma altresì nell’esistenza e in coloro che la coabitano assieme a noi e senza i quali magari non avremmo sondato alcuni terreni né aperto alcune porte e attraversato soglie e quindi nemmeno ci saremmo avventurati in talune occasioni d’arricchimento esperienziale impensabili per la nostra forma mentis fino a poco prima di quel momento.   

Alberto Arnaud: <<La bellezza, per me, è un concetto che va oltre l’aspetto estetico e che si collega a ciò che suscita emozioni e sensazioni positive. Può essere trovata in molti luoghi e situazioni, dalla natura al design di un oggetto. L’arte invece, a mio parere, rappresenta un mezzo attraverso cui l’essere umano esprime se stesso e comunica messaggi – spesso essa va oltre l’aspetto visivo e coinvolge anche il suono, il movimento e l’interazione con il pubblico. Il principale pregio e potere appunto dell’arte, secondo me, è quello di essere in grado di far nascere empatia e comprensione tra le persone. L’arte difatti può rappresentare un ponte tra differenti culture, generazioni e lingue. Attraverso di lei possiamo imparare a conoscere differenti opinioni e punti di vista e a superare le barriere che potrebbero impedirci di connetterci con gli altri… e, dunque, in questo modo proprio l’arte può rappresentare uno strumento per promuovere la pace, la comprensione reciproca e il rispetto delle diversità>>. – Giulia Quaranta Provenzano: Mi domando sovente se il bello universale sia o no cittadino solamente del mondo delle idee e ancora non sono arrivata alla soluzione di questo nodo, per me, più che gordiano. Etimologicamente con bellezza s’intende “la qualità capace di appagare l’animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione”, ma meritata e degna in base a quale tipo di sensibilità e criteri? Le norme su cui si fondano i giudizi e le diverse linee d’azione o di condotta non sono arbitrarie in quanto anche il convenzionale, il normato appunto, è frutto di una pregressa regolarizzazione che è stata mossa da esseri umani – e dunque da (più) individui con un personale bagaglio, con una specifica personalità – che si sono posti in accordo quale sorta di deus ex machina per tutti noi indistintamente? Mi sembra quindi di non poter uscire da una simile regressione all’infinito nella soggettività che, sicuramente, consta di elementi tanto geografici e temporali che sociali e famigliari e di dna in prima battuta! Concordo comunque nel ritenere che quello che si percepisce come bello genera e fa godere di piacevoli emozioni, ma che le sensazioni piuttosto che il messaggio che qualcosa/qualcuno presenta e trasmette per essere considerato tale debbano obbligatoriamente essere sempre e in ogni caso positivi non saprei dirlo e sinceramente però neanche lo credo. Opere d’arte di denuncia e che rappresentano il cruento, così come un qualcosa di triste, e che si propongono nella medesima forma intensamente impressionante/sconvolgente del rappresentato non sono allora belle e tantomeno possono dirsi capolavori? La semiotica non riguarda solo l’arte… tuttavia in essa vi è tantissimo materiale in ballo, elaborato-prodotto-trasmesso, sul quale soffermarsi. Per me per l’appunto l’arte è tutto ciò che è in grado di commuovere e s-muovere la coscienza, reazione che più spesso si ha quando si è “costretti” a uscire (poiché non, o non del tutto, volontariamente catapultati fuori) dalla propria confort zone e deliziosa, gradevole, bolla d’interesse e sollazzo. Stante e in base a questa mia ottica, sono pertanto del parere che non vi sia profonda e generosa beltà che non vada a braccetto con apertura al confronto e inesausta ricerca di comprensione e verità, competenza, consapevolezza del reale, responsabilità verso il potenziale e presto effettivo, dedizione e sincero impegno militante. Mi viene difficile pensare che esista qualcosa/qualcuno che metta d’accordo tutti e che risponda al favore e a una validità temporale e geografica omnicomprensiva, che si estende a ogni parte dell’universo. Senza dubbio, eppure, hanno visto la luce alcuni indiscussi capolavori immensi e a oggi intramontabili qual è – per citarne uno solamente – “La Pietà” di Michelangelo Buonarroti sebbene, non di meno, l’eccelso sia quanto più si avvicina alla magia e alla magia ancora non c’è spiegazione.             

5 Maggio 2023

Autore:

redazione


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