GIORNO DEL RICORDO – In viaggio con il collega Enzo Caputo
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GIORNO DEL RICORDO – In viaggio con il collega Enzo Caputo

Interno del castello di Pisino

Per loro bastava una soffiata, la “Corriera della morte”, un rotolo di filo spinato per legarli l’uno all’altro, un colpo alla nuca a quello più vicino al cratere che, precipitando, si tirava dietro gli altri e un cane nero da buttare vivo sui cadaveri per esorcizzare gli spiriti di quelle uccisioni.”

…L’orrido buio straziava le vostre vite.

Poche Lapidi ma nessuna tomba perché i familiari non avevano certo cadaveri da seppellire.. Il viaggio continua direzione Pisino. Dopo aver percorso un viale alberato a colpirti è un piccolo Bar: – Bar Foiba” recita una scritta consunta dal tempo sopra un grande porta marrone. Alle spalle c’è lui il castello di Pisino oggi interessante museo delle armi.

Una finestra attira subito l’attenzione, mi affaccio, si apre dritta sulla foiba. “Da li gettavano i prigionieri. Qualcuno nella folla grida:- “Dal pantano d’Italia è nato un fiore”. “Non udiste pianto di madre e di spose quando l’orrido buio straziava le vostre vite. Un muto e inesausto dolore accompagna la vita di quelli che sono rimasti e il destino ha disperso nel mondo”. Provo a cliccare su Google queste parole e uno dei più importanti motori di ricerca risponde: “Nessun risultato trovato per Non udiste… Ecco; questo basta per farsi un’idea di come, fino a vent’anni addietro, il genocidio degli italiani in terre slave semplicemente non esisteva. Nessun accenno sui libri di storia, nessun professore ne parlava in classe e se qualcuno, seppur timidamente ne accennava lo faceva sottovoce derubricando il tutto come un normale atto di guerra. Poi venne la legge sul “Giorno del Ricordo” che “impose” di ricordare e di capire perchè migliaia di italiani furono buttati vivi nelle doline carsiche, a partire da Basovizza, nel periodo che va dall’autunno del ’43ad oltre al maggio del 1945. Il cimitero te lo trovi davanti appena uscito da Pisino a ridosso di una curva che decliva leggermente a destra. L’ho visto anni fa, d’estate, per caso. Nulla lasciava presagire la sua presenza, ne un’indicazione o un richiamo sulla guida Michelin. Una radura alberata e delle pietre biancastre in mezzo al verde dei prati seminati. Solo una piccola traccia in terra battuta indicava, a chi era capace di accogliere quel muto invito, la presenza di un luogo che forse non ha eguali nella storia della seconda Guerra Mondiale.

Poche Lapidi ma nessuna tomba perché i familiari non avevano certo cadaveri da seppellire.

I corpi dei morti o quello che ne resta, si trovano in parte nelle fosse comuni e in parte nelle cavità carsiche (foibe o doline), dove furono buttati dai partigiani titini o meglio sarebbe dire dalle bande di irregolari che in quel periodo spadroneggiavano nelle terre istriane. Un Cimitero e una memoria negata per troppi anni, come mi raccontarono i “sopravvissuti” di quella che fu la provincia del Quarnaro che torna vagamente alla memoria leggendo nei cartelli stradi che indicano la direzione Rijeka- Fiume. “Abbiamo dovuto tribolare parecchio- mi disse un vecchio sacerdote (che a distanza di anni ha voluto mantenere l’anonimato) per avere il permesso di costruire questo luogo del ricordo- ci sono voluti accordi in alto loco e i primi scricchioli del Titoismo.

La strada continua per poi deviare ed inerpicarsi. I cartelli stradali indicano “Montona” che per gli storici delle foibe si Legge Papo, Luigi Papo da Montona e il suo “Albo d’Oro” sugli infoibati. Il Verde si estende a vista d’Occhio, ricorda le sbalze di Montepulciano. Qui però non si produceva quel rosso liquido che un vecchio adagio recitava:- “Di Montepulciano ogni vino è re”. Il rosso che scorreva era il colore del sangue, prima slavo poi italiano o meglio sarebbe dire sangue meridionale perché è bene ricordarlo a pagare un altissimo tributo di sangue furono specialmente la gente della “bassa Italia” che, spinti in Patria dalla fame, andarono a lavorare in quelle terre. Vi furono mandati come funzionari, insegnati, carabinieri ma soprattutto come finanzieri che erano tutto tranne che fascisti. Per loro era la terra promessa, richiamarono le famiglie e durante il tracollo non fuggirono come quanti si erano macchiati di crimini vari. Non avevano niente da temere erano integrati perciò restarono.

Pagarono cara la scelta. Il viaggio continua direzione Pisino. Dopo aver percorso un viale alberato a colpirti è un piccolo Bar: – Bar Foiba” recita una scritta consunta dal tempo sopra un grande porta marrone. Alle spalle c’è lui il castello di Pisino oggi interessante museo delle armi. Una finestra attira subito l’attenzione, mi affaccio, si apre dritta sulla foiba. “Da li gettavano i prigionieri. – “Ho tanta nostalgia dell’Italia, vorrei vederla prima di morire- mi dice un’anziana signora italiana – sicuramente oggi passata a miglior vita. Parla piano, i ricordi le fanno paura. -Perché non è rientrata le chiedo? -Non mi è stato consentito e ho pure un fratello in Italia. Una lacrima le solca il viso, piano senza fare rumore. Spiega più di mille parole il dramma vissuto dai nostri connazionali.

Molti erano siciliani, alcuni dei Nebrodi a partire da Capo D’Orlando – Ogni tanto, come segno di distensione le Autorità del luogo pubblicano un elenco dei prigionieri italiani (degli infoibati non si tenevano conteggi), si accendono le speranze. Per loro bastava una soffiata, la “Corriera della morte”, un rotolo di filo spinato per legarli l’uno all’altro, un colpo alla nuca a quello più vicino al cratere che, precipitando, si tirava dietro gli altri e un cane nero da buttare vivo sui cadaveri per esorcizzare gli spiriti di quelle uccisioni. Mi avvio al ritorno. “Pula – Pola” indica la cartellonistica. Il mare è dell’azzurro del cielo. Sembro non vederlo… “La bora fischia tra le vie semideserte di quella che sembra una città fantasma, le saracinesce sono abbassate.

Vedo italiani che si affannano dietro carri colmi di masserizie, la nave che li porta in Italia, la stazione di Bologna dove “mani pietose” distruggono il latte destinato ai bambini affamati. Sono fascisti … dicono. L’auto si dirige verso il centro. Si sentono ancora gli spari. Par di vederlo il generale De Winton accasciarsi a terra.

Di fronte a lui una giovane donna dagli occhi nerissimi fiera e decisa, la pistola fumante in mano aspetta di essere ammanettata. Almeno per quel giorno la consegna di Pola alla Jugoslavia non poteva essere fatta. Maria Pasquinelli.

La “Pasionaria” che per prima, nel 43 si spese per diseppellire gli infoibati, aveva detto No all’oblio della memoria. Il Viaggio volge alla fine. Trieste che vuol dire Basovizza. E’ un giorno qualunque del 1990. Ci sono solo loro, quattro o cinque, con in mano una bandiera consunta dal tempo rigidi sugli attenti. Aspetto che finiscano la cerimonia, domando del gesto al più attempato di loro: “-Ho 93 anni, dice, sono un reduce della X° Mas – Ogni qualvolta possiamo rendiamo gli onori ai nostri connazionali infoibati.” Non oso ribattere che ho letto da qualche parte che in quella foiba ci sono anche vecchie artiglierie della Prima guerra Mondiale e altro materiale vario.

Pure fosse, ci sono comunque anche i nostri connazionali meridionali. Non so di quale parte della scissa X° fosse. Ho provato a chiederlo. Lapidaria la risposta: Siamo tutti rimasti X° – solo che quelli bloccati al Sud divennero “Mariassalto”. Bisognerà aspettare il 2004 affinché il ricordo diventi Legge nazionale.

Ritorno a quel 10 febbraio del 47 a Pola: Qualcuno nella folla grida:- “Dal pantano d’Italia è nato un fiore”.

Enzo Caputo

l’oblio e la politica, anche questo sono state le foibe

10 Febbraio 2024

Autore:

redazione


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