di Antonio Mazzeo
Rompere il muro di silenzio imposto dalle autorità militari statunitensi è impossibile, ma è probabilissimo che mercoledì 27 aprile nella base militare di Sigonella si sia sfiorata, ancora una volta, la tragedia.
Alle ore 11,35 circa, durante la fase di atterraggio, un cacciabombardiere F-16 è uscito di pista e il pilota si è salvato lanciandosi con un paracadute un attimo prima dell’impatto del velivolo con il terreno.
A seguito dell’incidente è stata ordinata la chiusura dello scalo e i velivoli impegnati nelle operazioni di guerra alla Libia sono stati dirottati sull’aeroporto di Trapani-Birgi. Il comando NATO si è rifiutato di divulgare la nazionalità del caccia, anche se ha riconosciuto trattarsi di un mezzo “di un paese non aderente all’Alleanza atlantica che tuttavia sta supportando la missione Unified Protector”. Il mistero è stato rivelato dall’agenzia France-Press: l’F-16 appartiene all’Al-Imarat al-‘Arabiyya al-Muttahida, l’aeronautica militare degli Emirati Arabi Uniti ed era decollato qualche ora prima da un aeroporto greco. L’aereo è uno dei dodici cacciabombardieri (sei F-16 e sei “Mirage”) che gli Emirati hanno trasferito il 27 marzo scorso nell’aeroporto sardo di Decimomannu per partecipare con la “coalizione dei volenterosi” a guida NATO ai bombardamenti contro le forze armate filo-Gheddafi.
In forza allo Stormo caccia della base aerea di Al Dhafra, l’F-16 “Desert Falcon” è configurato nella versione monoposto “E”, prodotta in esclusiva per gli Emirati Arabi: con un radar AN/APG-80 che fornisce la capacità di tracciare e distruggere simultaneamente bersagli aerei, il velivolo è armato di missili AIM-132 ASRAAM ed AGM-84E SLAM. Per lo sviluppo di questi sofisticatissimi strumenti di morte, gli emiri hanno sborsato più di 3 miliardi di dollari. Il loro battesimo di fuoco risale all’agosto 2009: insieme ai bombardieri strategici dell’US Air Force e ai caccia AMX del 51° Stormo di Istrana e dal 32° Stormo di Amendola dell’AMI, furono eseguiti combattimenti aerei e veri e propri bombardamenti nei vasti poligoni desertici prossimi alla base statunitense di Nellis, Las Vegas.
Quello del 27 aprile è solo l’ultimo di una lunga lista d’incidenti che hanno interessato i velivoli militari schierati sullo salo siciliano di Sigonella. Il 17 febbraio 2005, un elicottero da trasporto MH-53 “Sea Dragon” assegnato all’Helicopter Support Squadron 4 della US Navy, si schiantò su una delle piste durante un addestramento all’interno della base. I quattro membri dell’equipaggio riportarono gravi ferite e furono ricoverati d’urgenza in ospedale. Meno di un anno prima, il 27 agosto 2004, all’interno di un altro elicottero MH-53E si sviluppò un incendio mentre era parcheggiato nella stazione di rifornimento idrico di Sigonella. Il velivolo era rientrato da una missione di volo; gli uomini dell’equipaggio fuggirono miracolosamente dalle fiamme riportando però gravi ustioni e furono costretti al ricovero presso il reparto di rianimazione dell’ospedale Garibaldi di Catania.
Si era concluso tragicamente invece l’incidente capitato il 16 luglio 2003 ad un terzo elicottero da trasporto dello Squadrone HC-4: nell’impatto del velivolo con un terreno nei pressi di un distributore di benzina fuori il centro abitato di Ramacca (Catania), persero la vita quattro marines USA. Secondo un testimone oculare, prima di precipitare al suolo il mezzo militare avrebbe tentato senza successo di atterrare presso un invaso per irrigazione. Attorno ai resti del velivolo fu creato un vero e proprio cordone sanitario: le autorità statunitensi vietarono ai Vigili del fuoco e ai Carabinieri di avvicinarsi alla zona d’impatto e a domare le fiamme e transennare l’area intervenne solo una squadra specializzata della US Navy. Alcuni testimoni oculari denunciarono la presenza tra i soccorritori di una unità di controllo per l’inquinamento chimico e batteriologico. Il rapporto ufficiale della marina militare statunitense affermò che a causare l’incidente era stato un incendio scoppiato nel vano motore n. 2 dell’elicottero “a causa del danneggiamento di un bullone An3”. “Altri fattori che potrebbero aver causato lo schianto – si legge ancora nel report – i forti venti e il mancato coordinamento tra la cabina di pilotaggio e il resto dell’equipaggio. Il pilota non riuscì inoltre ad accrescere la potenza per arrestare la discesa dell’elicottero prima dell’impatto”. L’inchiesta accertò però che gli incendi ai motori dell’MH-53 erano tutt’altro che un evento raro. Il 27 giugno 2002, durante un atterraggio a Sigonella, forse proprio per le fiamme sviluppatesi accidentalmente a bordo, un quarto MH-53E dell’Helicopter Support Squadron 4 si era schiantato sulla pista: l’elicottero andò interamente distrutto ma l’equipaggio se la cavò con qualche lieve ferita.
Il 5 luglio 1990 fu la volta di un cacciaintercettore F-104 del 4° Stormo dell’Aeronautica militare italiana a precipitare nelle vicinanze della città di Caltagirone (Catania), subito dopo il decollo dalla base di Sigonella. Il pilota, Sergio Scalmana di 30 anni, morì sul colpo. Il caccia si era levato in volo insieme ad un altro F-104 per un’esercitazione sul Canale di Sicilia, quando improvvisamente il capitano Scalmana comunicò alla torre di controllo di avere noie al motore e di essere in procinto di tentare un atterraggio di emergenza sulla Statale 417 Catania-Gela. Il pilota perdeva però il controllo del mezzo che si schiantava in aperta campagna, prendendo fuoco.
Ancora più dietro negli anni, tra gli incidenti ai velivoli della stazione aeronavale siciliana, si ricorda quello avvenuto il 19 novembre 1998 ad un elicottero CH-46 “Sea Knight”, precipitato per cause ignote al largo di Riposto, cittadina ad una trentina di chilometri a nord di Catania. Quattro le vittime. Anche stavolta i militari USA invitarono con un messaggio scritto Carabinieri, Marina militare e Guardia costiera italiana “a non prestare assistenza” al velivolo scomparso in mare, “perché autonomi”.
Gravissimi i rischi di dispersione nell’ambiente di radioattività ed altri agenti inquinanti in occasione di due incidenti verificatisi nella seconda metà degli anni ottanta nella baia di Augusta (Siracusa), utilizzata per gli scali delle unità navali e dei sottomarini a propulsione nucleare USA e NATO. Il primo avvenne l’1 aprile 1986, quando a bordo della portaerei “USS America”, ormeggiata in rada, un caccia si scontrò con un elicottero presumibilmente del tipo SH-3H “Sea King”. Le autorità si rifiutarono di fornire le dinamiche dell’incidente ma ammisero che per i danni subiti l’elicottero fu trasportato alla base di Sigonella per essere sottoposto a complesse riparazioni. Il “Sea King”, utilizzato dalla US Navy per la guerra sottomarina, al tempo era adibito al trasporto di testate nucleari di profondità del tipo B57, con una potenza distruttiva variabile dal mezzo kiloton ai 20 kiloton.
Il 22 aprile 1988 un altro elicottero CH-46 si schiantò sul ponte di volo della nave munizioni “USS Mount Baker” durante le operazioni di rifornimento presso il pontile NATO di Augusta. Restò ferito un operaio italiano che stava effettuando sull’unità statunitense dei lavori di manutenzione. La “Mount Baker”, utilizzata al trasporto di carburante e altri materiali infiammabili, era pure adibita allo stoccaggio di testate (convenzionali e nucleari) destinate alle imbarcazioni e ai velivoli d’attacco della marina militare USA. Anche in questo caso le indagini furono precluse all’autorità giudiziaria italiana.
Ventisei anni fa, il 12 luglio 1984, un’identica impenetrabile cortina fu innalzata attorno ai resti del quadrigetto C141B “Starlifter” dell’US Air Force precipitato in contrada Biviere, nel comune di Lentini, Siracusa (nell’incidente morirono i nove militari a bordo). Ancora una volta i militari statunitensi di Sigonella vietarono il soccorso ai mezzi locali e impedirono con la forza che giornalisti e fotoreporter si avvicinassero all’area. “Sentii improvvisamente il rumore di un aereo che volava a bassa quota”, ha raccontato un residente di contrada Biviere. “Presi la macchina fotografica e riuscii a scattare qualche fotogramma appena qualche secondo dopo l’assordante boato. Nel breve volgere di alcuni minuti giunsero i mezzi di soccorso americani. Ricordo che da un automezzo dei pompieri, forse per il forte calore che emanavano i resti del velivolo, esplose un serbatoio contenente una sostanza schiumosa investendo un po’ tutti quelli che erano accorsi. Un militare americano, armato di un grosso fucile a pompa, accortosi che io stavo scattando delle foto, si avventò verso di me tentando di strapparmi dalle mani la macchina fotografica. Non vi riuscì perché ebbi il tempo di scappare”. Massimo fu il riserbo sul carico trasportato dal velivolo e il segreto militare fu esteso pure alle cause di incidente. Per una quarantina di giorni, la strada statale 194 che collega Catania a Ragusa fu interdetta al traffico veicolare.
Solo a seguito di uno studio del colonnello dell’US Air Force Paul M. Hansen sugli incidenti con oggetto i C141B (ottobre 2004), la Flight Safety Foundation di Washington ha pubblicato sul proprio data base una scheda descrittiva di quanto accaduto a Lentini. La fondazione segnala che la destinazione del volo era la base aeronavale di Diego Garcia, Oceano indiano. “Immediatamente dopo il decollo da Sigonella – si legge nella scheda della Flight Safety Foundation – il motore n. 3 del velivolo accusava una grave avaria. Il motore iniziava ad emettere dei rottami che causavano il danneggiamento del motore n. 4. I rottami entravano pure all’interno del compartimento di cargo, incendiando un pallet contenente vernici. L’incendio alle merci trasportate produceva uno spesso fumo velenoso che rendeva il controllo visivo dell’aereo estremamente difficoltoso. L’aereo finiva su un ripido terrapieno ed esplodeva ad appena 198 secondi dal decollo. Gli esami tossicologici effettuati dopo l’incidente indicavano che i membri dell’equipaggio avevano ricevuto potenzialmente livelli fatali di cianuro dal fumo assorbito prima dell’impatto”.
Sono dovuti trascorre più di vent’anni perché sull’incidente aereo di Lentini venisse aperta un’inchiesta da parte della Procura delal Repubblica di Siracusa.
L’avvocato Santi Terranova, legale dell’Associazione per bambini leucemici “Manuela e Michele”, ha chiesto di accertare le cause dell’altissimo tasso di malformazioni congenite e dell’anomalo aumento di patologie leucemiche, tumori al cervello e alla tiroide, registrati tra il 1992 e il 1995 nel comprensorio dei comuni di Lentini, Carlentini e Francofonte. Secondo il Registro Tumori della Usl di Siracusa, infatti, il tasso di mortalità in quest’area è tre volte maggiore che nel resto d’Italia. A legare la vicenda del C-141B e lo sviluppo delle patologie oncologiche, l’ipotesi che a bordo del velivolo USA ci fosse un carico di centinaia di chili di uranio impoverito, utilizzato come contrappeso.
Secondo il professore Elio Insirello, biologo dell’Istituto di Ricerca Medica e Ambientale di Acireale (Catania) e docente di genetica molecolare all’Università di Messina, esisterebbero “chiare correlazioni tra la presenza di uranio impoverito nell’aereo, il tempo trascorso tra l’incidente e l’entità delle patologie tumorali” riscontrate a Lentini. “Alcuni testimoni oculari affermano inoltre che subito dopo l’impatto fu prelevato uno strato di terreno nell’area interessata, procedura utilizzata per la decontaminazione delle zone colpite da radioattività”, aggiunge Insirello.
Gli scuri contorni della vicenda sono oggetto dello straordinario film-documentario Morire a Lentini, recentemente prodotto dai giornalisti Giacomo Grasso e Natya Migliori della “Gemini Movie” di Catania.