INCHIESTAINTERVISTA  – Perché si diventa vittime di usura
Cronaca Regionale

INCHIESTAINTERVISTA – Perché si diventa vittime di usura

Uno al minuto, 50 all’ora, 1300 al giorno: sono i reati consumati a danno delle imprese in Italia da parte della criminalità organizzata. Ma l’usura, ormai, colpisce anche la gente comune. Il racconto di due vittime; Sos Impresa; i limiti della 108; perché denunciare.

Uno al minuto, 50 all’ora, 1300 al giorno: sono i reati consumati a danno delle imprese in Italia da parte della criminalità organizzata. Usura, racket, truffe, furti, rapine, contraffazioni, abusivismo, appalti, scommesse, pirateria: sono oltre un milione (1/5 degli attivi) gli imprenditori vittime di un qualche reato che fa muovere un fatturato che si aggira intorno ai 140 miliardi di euro con un utile che supera i 100 miliardi al netto degli investimenti e degli accantonamenti. Solo il ramo commerciale della criminalità mafiosa e non rappresenta il 7% del Pil nazionale.

Sono questi i dati del XIII Rapporto di Sos Impresa “Le mani della criminalità sulle imprese”, dal quale emerge ancora una volta che la Mafia è sempre più una Società per azioni.

Dal punto di vista delle attività illecite gli interessi della criminalità organizzata si spostano verso quei settori che producono cospicui utili a fronte di un basso rischio: in primis contraffazione e usura. Attività per le quali sono 190mila le imprese che tra il 2008 e il 2011 hanno chiuso in Italia. L’indebitamento delle imprese è raddoppiato nell’ultimo decennio e i fallimenti dal 2008 al 2009 sono passati da +16,6% a + 26,6%. Il numero dei commercianti coinvolti in rapporti usurai è di non meno 200mila unità, ma le posizioni debitorie vanno stimate in oltre 600mila unità. Accanto a questo incremento, ovviamente, si registra anche quello degli usurai: da 25mila sono diventati 40mila. Molti hanno abiti firmati e giacche, una faccia pulita e rassicurante. Purtroppo le denunce sono sempre poche e la giustizia è talmente lenta che il reato di usura può essere considerato depenalizzato.

La storia di Antonio Anile

La crisi economica non fa che accrescere sempre di più il ricorso agli usurai, non solo da parte degli imprenditori, ma anche dell’uomo comune. Gli usurati camminano tra noi, sono padri di famiglia, gente che negli anni si è anche tolta qualche sfizio, ma che ora non riesce più a far fronte all’aumentato costo della vita al quale non è corrisposto un aumento delle entrate. Sono persone disperate, sole, vulnerabili che tentano di nascondere la verità agli amici, ai familiari e, prima di tutto, a se stessi: “Perché fino a quando non scatta qualcosa dentro, fino a quando non si ha paura per i propri cari, si è convinti di potercela fare”.

Un usurato è come un drogato e l’usuraio è la sua droga. E “drogato” è stato Antonio Anile, ex imprenditore di Reggio Calabria, da 4 anni volontario di Sos Impresa, responsabile per il Lazio di Rete per la Legalità.

“Sono una persona normale, perché devi sapere che noi siamo persone normali. Anzi, ora, nonostante tutto, mi sento più normale di prima. Riesco a scherzare: è l’autoironia che ci salva. La mia storia nasce da una stupidata che ho commesso. Perché, altra cosa che devi sapere, è che chi è sotto usura è un cretino, perché lo Stato e la socialità lo hanno messo in condizione di essere un cretino. Prima di arrivare all’usura, percorri i canali istituzionali, provi a farlo, ti rivolgi alle banche, la cui funzione è vendere e comprare denaro. Con gli interessi la banca compra cose. Ma, da 10 anni a questa parte, le banche fanno il riciclaggio del denaro della ‘Ndrangheta. Se si presenta da loro un imprenditore medio, che non ha garanzie da offrire, ma ha una redditività, le banche gli ridono in faccia. E allora cosa fa se non rivolgersi a chi quei soldi te li dà?”.

Cominciamo dal tuo ruolo di imprenditore.

“La mia storia comincia a Reggio Calabria, in una terra disastrata da ogni punto di vista perché legata in tutto e per tutto alla ‘Ndrangheta. Io lavoravo per una Azienda che aveva una struttura piramidale. Una Azienda con sede al nord, per la quale io curavo tutto il meridione. Ma la mia azienda stava per chiudere. Un giorno mi chiama il mio capo, dicendo che, per salvarla, ognuno doveva mettere una cifra di circa 70 milioni di lire. Era il 1998. Dissi che i soldi non ce li avevo. In realtà guadagnavo bene: 7milioni di lire al mese. Ma quando si fanno lavori di rappresentanza, sai come funziona: devi comprare per far vedere che sei una persona vincente, in base all’A.P.I. che era allora un po’ la nostra filosofia, cioè l’atteggiamento positivo interiore. Io ero uno spot pubblicitario per l’azienda, quindi giravo con macchine grosse, avevo una bella casa, bei vestiti, andavo sempre a cena fuori in un certo tipo di ristoranti. E da parte non avevo nulla o quantomeno avevo poco rispetto a ciò che mi si chiedeva.

Quando ero imprenditore, avevo 7 conti correnti e fidi a perdere. Se non avevo i soldi, chiamavo il Direttore della Banca e non c’erano problemi, perché i soldi giravano. Anche se non c’era molta liquidità in banca. Poi, quando sei in difficoltà, l’ombrello viene chiuso… Comunque di fronte alla richiesta del mio capo di “investire” una cifra consistente, io radunai i miei collaboratori – alcuni di questi facevano parte della fascia bianca della Calabria (Locri, Africo) – e dissi che si chiudeva, perché, per andare avanti, era necessaria una raccolta di fondi, un’opa, di 70-80 milioni e che io non li avevo. Quindi, il rapporto era sciolto! Dopo aver detto queste parole, uno dei miei collaboratori più fidati, che aveva addirittura le chiavi di casa mia, mi venne vicino dicendo che mi avrebbe fatto avere lui i soldi. Quel ragazzo, fino a quel momento era stato il mio alter ego, frequentava casa, mi faceva anche da segretario e spesso guidava lui la mia macchina… Insomma mi disse che dovevamo pagare degli interessi per quella cifra: un 10% mensile. Questo interesse si sarebbe raddoppiato in caso di mancato pagamento del primo mese”.

Quale è il meccanismo dell’usura?

“È complicato, semplice e diabolico allo stesso tempo. Ti spiego: se non paghi il primo mese, il secondo raddoppi la prima rata e in più si aggiunge la seconda. Per esempio, se non paghi i 10milioni il primo mese, il secondo diventano 30milioni. Ovviamente è un meccanismo costruito ad hoc per incastrarti, perché loro sanno benissimo che non ce la farai a pagare quanto pattuito… E con questo “giochetto” sono arrivato ad essere sequestrato, picchiato, finché mi hanno costretto a firmare una polizza di 1miliardo e 250milioni di lire da restituire. Soltanto dopo, e a mie spese, ho scoperto che loro avevano dei collegamenti con alcuni elementi della ‘Ndrangheta. Ma non credere che la ‘Ndrangheta sia una questione calabrese: la Calabria è la sede, ma il nord, il Lazio, Roma sono piene di ’ndranghetisti. Ormai le mafie sono tutte cravatte e vestiti firmati. Sono notai, avvocati. Siedono nei consigli di amministrazione. Ma l’arkè è la famiglia”.

E la tua famiglia?

“Io non avevo detto niente a casa. L’usurato non parla. Ma tutto cambiò dopo che una persona andò a scuola, facendosi vedere da mio figlio, e dopo che arrivarono tre proiettili a casa. Allora capii che non potevo andare avanti così. Lì capii che ero in pericolo io, ma anche la mia famiglia. Perché per gli ’ndranghetisti una persona che non paga è una immagine negativa per “l’azienda”. Ad un certo punto per loro non è più un fatto di soldi, ma di onore. Per loro 100milioni non sono niente: li guadagnavano in un traffico di droga di 2 giorni!”.

Quanto tempo sei andato avanti?

“Io pagai 42milioni e poi la Compagnia saltò. Nel frattempo con me cominciò uno stillicidio, un Inferno dantesco. Mi chiamavano continuamente e avevo anche la loro “scorta” che mi seguiva ovunque andassi. Sono stato sequestrato, sono stato picchiato con una spranga di ferro e sono stato operato due volte. Qualcuno voleva uccidermi, qualcuno intimorirmi. La pressione che esercitavano era enorme. In realtà io sono vivo perché ho fatto credere di avere ancora soldi. Perché ero una persona abbastanza conosciuta, avevo amici di grido, di successo. Questo mi ha salvato. Conoscevo dei politici e molte pressioni le ho subite per chiedere favori, ma mi sono sempre rifiutato di chiedere favori politici per conto di queste persone, non bastavano già tutti i soldi che gli stavo dando?! Se vedi, ho un occhio che mi batte. Per 8 anni ho camminato con una busta di psicofarmaci addosso. E non mi ero mai drogato… Ogni giorno prendevo un cocktail di farmaci, Xanax, Prozac, che mi permetteva di andare avanti. Una volta che dimenticai di prenderle rimasi bloccato sull’autostrada! Era quello l’unico modo per sopravvivere alla pressione. Ora che sono disintossicato, il cervello, da un punto di vista nervoso, comunque sta male. Talmente stressato… Vedi chi cade sotto usura è una vittima incapace di reagire. Non ne esci perché la società non ti aiuta”.

Perché sei arrivato alla denuncia?

“Io ho denunciato non perché credevo nello Stato, per me lo Stato allora non esisteva. Io allora mi rapportavo solo con gli ’ndranghetisti e con le persone alle quali chiedevo soldi. Ormai mi muovevo come loro, usavo il loro slang, ero diventato uno di loro, cioè ero cattivo, aggressivo. In una città come Reggio Calabria tu ti puoi sentire invincibile quando sei accanto a loro. Ti danno questo senso di onnipotenza. Ma era una mera bugia. Quando non avevo più soldi, dopo le ultime aggressioni, dopo che sono andati da mio figlio, dopo che mi sono lasciato con mia moglie, ma non perché non la amassi, anzi l’ho fatto per proteggerla e far credere che io non avessi più niente a che fare con loro – se solo avessi parlato, so che lei mi sarebbe stata vicina -, ho deciso di denunciarli. Volevo uccidermi. Ma non l’ho fatto, perché per farlo ci vuole troppo coraggio ed io ero troppo carico. Quando perdi tutto, onore, dignità e famiglia, non sai cosa fare. Non ho fratelli né sorelle, i genitori sono morti. Non mi sono ucciso perché ho pensato: perché devo lasciare questo ricordo a mio figlio? Questo pensiero mi torna sempre in mente. Li ho fatti soffrire troppo”.

Quale è stato il primo passo che hai compiuto nel momento in cui hai deciso che era giunto il momento di porre fine a questa schiavitù?

“Per prima cosa sono andato da Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. In quel periodo lui era il magistrato più impegnato nella lotta alla ’Ndrangheta del versante ionico. Aveva avuto dei successi. Andai, bussai. Lui disse che era giusto che denunciassi. Mi presentò il colonnello Valerio Giardina, allora comandante dei Ros. Poi fui indirizzato alla Questura di Reggio Calabria”.

Cosa è successo poi?

“Denunciare vuol dire ripercorrere cosa ti è successo, ma poi ci vogliono i riscontri. Quindi ho dovuto rifrequentare quelle persone, mettendomi anche delle cimici addosso. Un inferno! Uno dei motivi per i quali poca gente denuncia è proprio questo. E poi non ci sono in tutte le città uffici preposti per questo tipo di denunce. Come non esiste uno sportello simile a quello di Sos Impresa. È tutto faticoso. Dopo l’ultima aggressione, Gratteri disse che dovevano arrestarli, altrimenti mi ammazzavano. Il giorno dopo l’arresto, uscì la notizia su tutti i giornali. E da quel momento è stato come se avessi avuto la peste suina. Passeggiavo per la via principale della mia città e a malapena mi salutavano. In realtà ne sono uscito perché ho avuto la voglia di vivere. Sono andato via da Reggio Calabria e sono stato anche sotto scorta. Poi sono venuto a vivere a Roma”.

Cosa ti dice tuo figlio?

“Lui è orgoglioso, mi dice bravo. Anche se continua a subire le scelte del padre”.

Quando hai conosciuto Sos Impresa?

“A Reggio Calabria ho conosciuto il signor Marcianò che operava nell’area calabrese, lui poi mi ha presentato anche il presidente di Sos Impresa, Lino Busà, a cui avevo raccontato la mia storia per attivare la richiesta al Fondo per le vittime del racket e dell’usura… Ma anche qui la storia è stata infernale, perché ci sono due pesi e due misure, non si vale tutti allo stesso modo… Cioè non si capisce bene i metri di giudizio per cui la Commissione che presiede al Fondo valuta diversamente le cifre che deve impegnare, ma lì entrano dei fattori che sono determinati con dei precisi calcoli economici, come il mancato guadagno, cioè il profitto che la tua attività ti avrebbe reso se in quel lasso di tempo tu non fossi stato vessato dagli usurai … E poi c’è anche il mistero della valutazione dei danni fisici e psicologici, che un usurato si fa certificare da un Ospedale Militare, anche lì ci sono delle oscillazioni inspiegabili tra queste valutazioni. Comunque, io ho deciso subito di diventare un volontario a Sos Impresa: per evitare che altri facciano i miei stessi errori”.

Non solo imprenditori. Non solo borderline: la storia di Fausto Berbardini.

Fausto Bernardini è il responsabile dello sportello del Lazio per Sos Impresa. Anche lui, volontario, è stato usurato.

Cosa accomuna le vittime?

La convinzione di uscirne presto. Mentre sei dentro, non hai la capacità di capire che è impossibile avere una azienda che ha degli utili del 120% all’anno”.

La tua storia è quella di un uomo che si era messo a disposizione dei giovani e che, per portare avanti le attività dell’associazione sportiva, è finito in mano agli usurai, “amici di amici”.

“Racconto la mia storia per far capire che le vittime di usura non sono solo imprenditori. Io non ero imprenditore, ma cadere nella morsa dell’usura è abbastanza facile”.

Come è cominciata questa disavventura?

“Io sono di Settecamini e ho sempre operato nel mondo del sociale come catechista e come educatore dei ragazzi al di fuori dei cancelli, i cosiddetti ragazzi del muretto. Ad un certo punto, un gruppo di ragazzi mi chiese di intercedere presso il parroco per fare attività sportiva nei campi della parrocchia. Feci da intermediario e il parroco disse di sì. Dal livello amatoriale, nel giro di 4 anni, siamo arrivati in ambito nazionale con risultati strabilianti in tutti i campi. In tutto c’erano un 200 ragazzi. Noi eravamo sovvenzionati dagli sponsor.

Poi, dalla parrocchia, fummo costretti ad uscire, perché davamo fastidio. E allora andammo in un impianto per il quale pagavo 30mila euro l’anno. Quindi, per andare avanti, usavamo i soldi degli sponsor e i miei risparmi. Uno scherzetto che, tra iscrizioni, struttura tecnica e medica, costava 100mila euro l’anno. Ma nel 2006 gli sponsor ritardarono nel pagare ciò che avevamo stabilito. Io avevo emesso degli assegni postdatati, ma erano in prossimità di scadenza e non li potevo fermare, per cui mi trovai costretto ad andare a coprire questi assegni del valore di 10mila euro circa. Mi rivolsi ad un commerciante della mia zona, che un paio di anni prima era stato nostro sponsor. Lui mi disse che non li aveva, ma che conosceva un amico che aveva un armadio pieno di soldi. Ovviamente lui sapeva in mano a chi mi stava mettendo e in seguito ho denunciato anche lui. In realtà lui stesso era usurato… Ma capita spesso che gli usurai ti obblighino ad usurare: quando si è vittima di usura si fa questo e quest’altro”.

Quali furono gli accordi?

“Lui mi disse di star tranquillo, che dovevo pagare al mese un 10%. Mi disse di non preoccuparmi che era un amico. Lui venne nel negozio e gli chiesi 10mila euro. Lui mi disse che me ne dava 9 e che mi faceva ad un mese due assegni per un totale di 10mila euro. Alla fine del mese ovviamente, non avevo questi soldi. Gli sponsor ritardavano. Mi ritrovai quindi a rinnovare l’assegno. Da quel momento è stato un dramma, perché non sono riuscito ad uscirne più. Mi mandarono in protesto. Da quel momento avevo le ali tagliate nel credito legale e sono entrato in questo tunnel dove quei 10mila euro sono diventati 300mila in un anno e mezzo. Ed era un continuo chiedere e un continuo dare. Ad un certo punto non avevo neanche più i soldi per mangiare. Ero arrivato a chiedere agli usurai il sabato anche 20 euro per far la spesa. Dipendevo totalmente da loro”.

E la tua famiglia?

“Aveva visto che non si mangiava più e che non si comprava niente. Pensavano che dipendesse dai soldi messi nell’associazione sportiva. La verità l’hanno scoperta quando ho denunciato”.

Come si svolgevano le tue giornate?

“Io arrivavo alle 6 in ufficio, poi uscivo e giravo per Roma come un ossesso, cercando di riconoscere qualcuno a cui chiedere soldi: un ex collega, un cliente mio o dell’azienda per la quale lavoravo e lavoro tutt’ora, compagni di scuola delle mie figlie. Ho chiesto soldi a tutti, anche alle suore, ai vescovi, ai preti. Mi hanno aiutato loro ed anche i miei colleghi italiani e inglesi”.

Quale potere esercita l’usuraio sulla sua vittima?

“Il meccanismo sul quale gioca l’usuraio è quello della dipendenza psicologica. Io facevo quello che dicevano loro. Mi chiamavano 5 volte al giorno: ho ricevuto 3mila chiamate in un anno e mezzo. La dipendenza era talmente forte che, nonostante il terrore che provavo ogni volta suonava il cellulare, rispondevo subito perché li vedevo come gli unici in grado di aiutarmi. Quando li ho denunciati, avevo la sensazione di denunciare mio padre. Uno dei motivi per i quali non ci sono molte denunce è la vergogna. La dipendenza psicologica è lo scoglio più grande, non tanto la paura delle ritorsioni. In realtà, se non avessero minacciato la mia famiglia, io il giorno dopo mi sarei fatto spezzare le gambe…”.

Come usano l’usurato?

“Se non hai soldi da ridare, ti fanno portare la droga, se fanno anche spaccio, ti fanno fare il cambio degli assegni, diventi procacciatore di altre vittime… A me, per esempio, avevano detto di comprare un appartamento e intestarlo all’associazione sportiva per mettere dentro clandestini. Io mi sono fermato una settimana prima di fare questa cosa…”.

Cosa ti ha spinto a denunciare?

“L’ultimo periodo non riuscivo neanche a pagare un minimo degli interessi, che si aggiravano intorno ad 11.500 euro… solo di interessi. Non avevo più un centesimo. Ricordo che, a fronte di una settimana di ritardo, le loro minacce si fecero molto più pesanti. Un giorno suonarono e li riconobbi: erano montenegrini. Scesi e uno di loro mi alzò da terra: erano ex pugili, degli armadi di muscoli. Uno di questi mi schiacciò contro il cancello e mi disse che mi avrebbero spezzato le gambe e sarebbero andati da mia figlia, di cui sapevano tutto, se non avessi pagato. Tornai a casa disperato. Litigai con la mia famiglia per l’ennesima volta e dormii sul divano. Ero diventato irascibile, io che non avevo mai fatto del male a nessuno. Ero diventato cattivo. La mattina dopo, come sempre, uscii presto. In ufficio arrivò un collega: mi aveva prestato dei soldi e aveva avuto un figlio. Aveva bisogno che glieli restituissi subito. In quel momento crollai e trovai la forza di raccontare la mia vicenda. Fu lui a spezzare questa catena e lo ringrazierò sempre. Mi accompagnò a fare la mia prima denuncia”.

Quale è stato l’iter della denuncia?

“Prima andai alla Dia e poi dai Carabinieri. Operando nel mondo del sociale, avevo grandi rapporti con le Forze dell’ordine, ero da loro tutte le settimane. Mi conoscevano bene. Dopo la denuncia, in tempi brevissimi, individuarono i miei usurai e li arrestarono”.

Sei un caso raro, considerato che solo il 9% di coloro che denunciano arriva a sentenza.

“Le mie indagini sono durate meno di un mese e mezzo. Io ho denunciato il 7 novembre e il gip aveva tutto in mano prima di Natale. Ha aspettato le vacanze e ha emesso il 22 gennaio l’ordinanza di arresto. Ovviamente per un paio di mesi io e la mia famiglia siamo spariti. L’unico che avevo avvisato era il direttore sportivo: gli avevo detto che tutte le attività dovevano cessare fino a mio ordine, questo per evitare ritorsioni sui ragazzi. Il processo si è chiuso totalmente nel giro di un anno”.

Cosa è successo da quel momento?

È cominciata una seconda vita: mi sono riappropriato di me stesso e della mia famiglia. Certo ho distrutto il mio patrimonio e le relazioni sociali e tuttora non sono una persona ben vista nel mio quartiere, perché la società “civile” vede l’usurato come il drogato: dicono “se l’è andato a cercare”, “è pericoloso”, “è un deficiente”. È difficile da accettare, ma è così. Ad oggi non posso entrare in banca perché mi si accende la luce verde! Ma la cosa importante è che ho ricostruito tutta una rete di relazioni sociali al lavoro. Poi ho conosciuto Sos Impresa. Perché dopo la denuncia ho cominciato a documentarmi. Ho cominciato a visitare tutte le associazioni antiracket su Roma e la più tempestiva e quella che mi ha dato più fiducia e che mi ha aiutato anche psicologicamente è stata proprio Sos Impresa, per la quale svolgo attività di volontariato, aiutando le vittime nel loro percorso di denuncia e reinserimento”.

Come hai fatto a ricostruirti?

La vittima di usura rimane marchiata. Psicologicamente è un danno permanente. Ma devo dire che ho cercato di trasformare il negativo di questa vicenda in positivo. Non ho il rimpianto di aver costruito l’attività sportiva, ma di averla distrutta. Ho fatto un errore e lo pagherò per tutta la vita”.

Come si spiega a dei figli l’usura?

“Quella è stata dura. Una ora ha quasi 20 anni e l’altra ne ha 15. La prima stravedeva per me. Aveva 16 anni allora. In quel momento è stata dura. Devi pensare che lei ha saputo della mia vicenda il giorno in cui ci hanno portato via i carabinieri per portarci in un luogo segreto. È stata strappata dalla sua vita, dai suoi amici. Tutti l’hanno emarginata. È stato un percorso duro”.

Cosa è successo al ritorno?

“Appena tornati, rilasciai subito un’intervista su un settimanale di zona perché era uscito di tutto: dicevano che mia moglie aveva un cancro, che mia figlia era incinta, c’era chi diceva che ero finito in mano agli strozzini. Volevo mettere a tacere tutti e quindi ammisi il mio errore”.

Come è cambiata la tua vita?

Ho un debito con le banche – senza considerare quello contratto con tante altre persone – tale che l’85% del mio stipendio va a loro. Ma va bene così: ho tarato la mia vita su questa situazione. E ho scoperto la grande solidarietà nella mia azienda. La mia azienda che non mi ha mai creato problemi, non mi ha licenziato neanche quando sono sparito 2 mesi ed ora ha anche regalato il numero verde ad Sos Impresa”.

Andando nelle scuole a raccontare la tua esperienza, cosa ti colpisce?

“Mi colpisce dei ragazzi il senso di legalità che hanno”.

Sos Impresa: una storia lunga 20 anni

“Sos Impresa – spiega il Responsabile Ufficio Stampa Bianca La Rocca – nasce subito dopo la morte di Libero Grassi, ucciso dalla mafia nell’agosto del 1991 dopo aver intrapreso un’azione solitaria contro una richiesta di pizzo. Nel febbraio 1992 nasce Sos Impresa, con il movimento di Tano Grasso, a capo dei commercianti di Capo d’Orlando. Sos segue la strada relativa a estorsione, usura e criminalità economica in genere. E le vittime che seguiamo non sono solo commercianti”.

Quanti sportelli ci sono in Italia di Sos Impresa?

“Non ci sono solo sportelli di Sos Impresa. Operano sul territorio anche Associazioni a noi legate perché aderiscono al nostro modo di agire. Per esempio a Rimini, che si occupa di tutta l’Emilia Romagna e del nord Italia, c’è Davide Grassi che ha messo su l’Osservatorio contro il disordine economico e l’usura. Non è emanazione di Sos Impresa. Ma siamo entrati in contatto e, visto che gli obiettivi sono gli stessi, ha aderito a Sos Impresa. Poi, Sos Impresa, insieme ad altre associazioni ha dato vita alla Rete della Legalità di cui, oggi, fanno parte 50 associazioni, alcune territoriali, altre con dimensioni nazionali. Possiamo dire che, dalla Lombardia alla Sicilia, copriamo pressoché tutto il territorio nazionale”.

Cosa vi aspettate dal Governo?

“Noi ribattiamo sempre che la migliore prevenzione parte dall’informazione, che dovrebbe partire dalle scuole, anche primarie, con corsi di educazione all’uso consapevole del denaro. Sicuramente è importante anche l’aiuto delle istituzioni e degli enti locali, ma non inteso come pioggia di finanziamenti che servono a poco. Il nostro è un lavoro di puro volontariato, ciò di cui abbiamo bisogno è della collaborazione dello Stato per rafforzare la nostra azione e quello di decine di altre associazioni e fondazioni che operano sul territorio. Cosa che non sempre succede. A volte hai magistrati e forze dell’ordine che ti stanno vicino, a volte viene negata perfino l’evidenza.

Il comitato antiracket rimane fermo per mesi su procedure burocratiche, mentre le vittime continuano ad attendere il risarcimento. Poi abbiamo avuto casi complessi o perché le forze dell’ordine non riuscivano ad avere prove sufficienti per incastrare gli usurai o, perché, come ci è accaduto, l’imputato di usura è morto durante il processo e, quindi, il reato si è estinto. In tal modo, si annullano anche le procedure di risarcimento del danno.

Cosa trova l’usurato presso i vostri sportelli?

“Gli operatori alla prima chiamata cercano di capire quale sia il problema. Può essere anche una forma di sovra indebitamento. A volte le persone chiamano, pensando di ricevere soldi. Se è un caso di sovra indebitamento, per esempio, viene indirizzato verso fondazioni che si occupano di questi casi. Se è veramente una vittima di usura, gli viene fissato un appuntamento con i legali. Al primo incontro il potenziale usurato si incontra con altre vittime, come Antonio, Fausto o Gabriella Sensi: colui che viene ad incontrarti è spaventato, diffidente e si vergogna da morire. L’usurato è una persona sola, con il suo intimo fracassato. Quindi, è importante per farlo tranquillizzare che al primo incontro parli con persone che hanno vissuto la sua stessa condizione. Quindi in questo primo colloquio bisogna capire cosa è vero di ciò che viene raccontato. Poi c’è l’incontro con lo psicologo, con il commercialista e l’avvocato”.

State facendo qualcosa per modificare la 108?

“Sono anni che parliamo di una riforma. La 108 era una buona legge di cui il Presidente di Sos Impresa, Lino Busà, è stato uno degli estensori. Però, ormai, mostra i segni del tempo. Chi commette reato diventa furbo. È sempre più difficile dimostrare il reato di usura, che, di fatto, oggi è depenalizzato, visto che arriva quasi sempre in prescrizione. L’iter per il risarcimento del danno è diventato farraginoso e lento. Antonio Anile, per esempio, aspetta da sette anni. E poi, chi non è imprenditore non può accedere al fondo. Infine, la 108 ha fallito sul campo della prevenzione, se, come è vero, che il reato dilaga e le denunce diminuiscono ogni anno. D’altra parte la prevenzione non può limitarsi ad affiggere un manifesto con scritto “Non andare dagli usurai”, mentre intorno c’è il deserto. La recente riforma presentata dall’On. Centaro non è l’ottimale, ma è già un passo avanti. I tempi della politica, si sa, sono lentissimi”.

Cosa tutela una vittima dagli usurai una volta che sono usciti?

La vittima ha paura. Ma se c’è una legge buona che consente un iter giusto la vittima non dovrebbe avere paura. Fin quando non si svolgono i tre gradi di giudizio nessuno tocca quella persona. Ovviamente questo vale senza considerare l’usura di mafia o ‘ndrangheta che è un altro film. Il punto iniziale di tutto è convincere la persona a denunciare e il tessuto civile nel quale vive spesso non aiuta”.

“C’è da dire che il Lazio è la regione più colpita dall’usura – aggiunge Antonio Anile -. Non parliamo della Calabria, della Sicilia. Parliamo delle tre Venezie, di Milano invasa dagli ’ndranghetisti che si sono buttati sull’Expo. Parliamo di Torino colonizzata da gente del sud. Non hai visto il sorgere di acquisto e vendo oro? Sono luoghi di ricettazione. La forbice tra ricchezza e povertà si è talmente allargata… Sai che un miliardo di persone nel mondo vive con un dollaro al giorno e questo fa sì che l’antistato superi lo Stato nella gestione sociale di penetrazione del territorio?”.

Il fondo è solo per gli imprenditori: come tutelare gli altri?

“In realtà – continua Bianca La Rocca – si potrebbe aggirare l’ostacolo se ci fosse maggiore cooperazione. Spesso vediamo che le Regioni fanno una legge fotocopia di quella nazionale e la applicano sul territorio. Sarebbe invece molto più proficuo assumere un ruolo complementare, coprendo, ad esempio, le famiglie e i lavoratori dipendenti. La Regione Lazio si sta muovendo in questo senso. Ci vorrebbe maggiore cooperazione anche tra noi: le fondazioni laiche e cattoliche, o la Caritas potrebbero essere aiutate con altri fondi a favore di famiglie in stato di indigenza in modo da accelerare gli iter ed evitare che intere famiglie finiscano in mano degli usurai”.

Come sta cambiando lo scenario?

“In base al Rapporto, si evidenzia che l’estorsione sta calando, perché si rischia di più. Con l’usura non rischi e ti entrano comunque i soldi in tasca. Se fino a qualche anno fa la ‘ndrangheta non faceva usura, ora anche questo è diventato uno dei business più redditizi. In alcuni casi applica tassi inferiori a quelli bancari, dal momento che il fine è unicamente quello di spogliare l’imprenditore dei suoi beni. L’usura, in questo caso, ha il duplice scopo di ripulire il denaro sporco e di aumentare gli introiti.

Ti faccio un banale esempio. A Roma, poco tempo fa, vi erano circa 400 telefoni sotto controllo per indagare sul traffico di droga. Dalle intercettazioni è emerso che quasi tutti gli spacciatori e trafficanti erano anche usurai. Abbiamo saputo di usurai che hanno chiesto alle proprie vittime di diventare spacciatori o corrieri per vedersi cancellare il proprio debito”.

Come per tutti i reati compiuti da clan mafiosi e camorristici, l’organizzazione è importantissima. Per fortuna cominciamo ad assistere alle prime condanne di associazioni mafiose finalizzate all’usura.

La parola al Presidente, Lino Busà

Da 15 anni alla guida di Sos Impresa: come si è evoluto e involuto il fenomeno in questi anni?

“C’è un maggiore interesse della mafia. La mafia è stata sempre fuori da questo reato. Da qualche anno a questa parte è diventato un reato praticato soprattutto da camorra e ’ndrangheta. Di meno la mafia, nel senso di cosa nostra. E questo perché consente di pulire il denaro e di arricchirsi senza prendere tanti anni di carcere, come potrebbe avvenire con l’estorsione. A questo si aggiunge anche la volontà di stare vicino alle imprese arrivando poi a prelevarle. Molte servono da copertura. L’usura è meglio di giocare in borsa, perché dà utili grossi. E questi usurai in giacca e cravatta, non più con la coppola, sono attenti alle aste, ad accaparrarsi beni immobili, imprese, terreni, negozi… Prima era un reato di marginalità sociale. Era un reato che coronava la carriera criminale. Anche chi andava dagli usurai era marginale, era gente povera, erano contadini, dissipatori, giocatori d’azzardo. Ora chiunque potrebbe diventare un usurato. Oggi si va da un usuraio anche per pochi soldi, per evitare di finire nella black list delle banche”.

Quali i limiti della 108?

“La 108 noi per quanto ci riguarda purtroppo, nonostante siamo stati i promotori, è fallita nei suoi obiettivi. Doveva contribuire a far emergere il reato e invece se nel 1996 erano 2500 le denunce ora sono neanche 350, sul piano nazionale. Nulla se consideriamo la vastità del fenomeno. L’altro aspetto è che doveva dare un aiuto immediato alle vittime. Invece l’iter burocratico è lunghissimo. Anche sul versante della prevenzione siamo di fronte al fallimento. Perché il meccanismo è piuttosto contorto, sempre incentrato sulle banche. E quando si parla di prevenzione, si parla di persone in difficoltà con le banche… E’ un cane che si morde la coda. È inutile firmare protocolli a livello ministeriale, con i presidenti, con la Banca d’Italia e le associazioni. Basta che l’ultimo direttore di banca di una banca sperduta dica di no e la persona non avrà soldi. Bisognerebbe rimettere le mani alla luce di 15 anni di esperienza e non mi sembra ci sia l’intenzione…”.

Su che progetti state lavorando?

“Sul piano strategico lavoriamo sull’antimafia delle opportunità e delle convenienze. La denuncia è elemento necessario ma non sufficiente. Bisogna che ci siano convenienze per quanto riguarda gli imprenditori che sono soprattutto vessati da attività estorsive. Quindi prevedere corsie preferenziali nei processi. La denuncia non deve essere una drammatizzazione della situazione. Invece di premiare il coraggio civile, oggi viene colpito. Nel mondo delle imprese c’è un tam tam: se tu che denunci sei uno sfigato, perché chiudono i rubinetti e non lavori più… Non mi conviene denunciare. È chiaro che questo non aiuta e non incentiva. Allora dicono: “sì pagavamo gli estorsori, gli usurai, ma almeno lavoravamo… Ora che abbiamo denunciato, non lavoriamo più”. Alla luce di questo dov’ è la convenienza? Se chi denuncia, invece, viene premiato, ricevendo per esempio appalti, invece di darli alle cosche dell’ndrangheta, tutti direbbero: “Ecco ha denunciato, ma ora sta meglio!”.

Se si volesse fare una battaglia seria contro la mafia, bisognerebbe fare questo. Il numero delle persone che denuncia per usura, poche di più per l’estorsione, servirebbe moltissimo strategicamente… Tra le altre iniziative, anche quest’anno organizzeremo la terza edizione del No Usura Day, a novembre. Stiamo aprendo altri sportelli, sempre con spirito di volontariato e gratuità, senza prendere finanziamenti pubblici, perché non siamo professionisti dell’antiusura e dell’antiracket!”.

26 Aprile 2012

Autore:

admin


Ti preghiamo di disattivare AdBlock o aggiungere il sito in whitelist