LE CONSIDERAZIONI DI PADRE ENZO, PROMOTORE DELL’INIZIATIVA E LA RELAZIONE DI PIERLUIGI GAMMERI CHE HA INTRODOTTO IL PRIMO INCONTRO. PER PADRE ENZO QUESTI INCONTRI “FUORI PORTA” CON I GIOVANI – RELAZIONANDOSI AGLI ULTIMI FATTI DI CRONACA DANNO IL SENSO DI UNO SGUARDO PROIETTATO LONTANO.
Scrive Padre Enzo:
Ho avuto modo, di riscontrare, nei giorni scorsi, l’apprezzamento verso l’iniziativa fatta con i giovani al Bar Sport, con i suoi obiettivi mirati e specifici (tra i quali non c’è “attirare i giovani in Chiesa”).
Un primo risultato, forse timido, se vogliamo, ma posso assicurare che le energie messe in campo per raggiungerlo non sono stati timidi. C’è, invece, la consapevolezza che la situazione nella quale ci troviamo a operare presenta sfide più grandi di quello che qualsiasi ente singolo è in grado di affrontare.
Per questo, sono soddisfatto che molta gente ha compreso che l’iniziativa è un seme gettato piuttosto che un risultato. Un seme dal significato grande. Più grande del seme stesso.
Alla luce delle ultime notizie di cronaca locale e che hanno messo in luce le dimensioni del disorientamento giovanile, che rasenta il disastro sociale – lo dico senza alcuna paura di essere tacciato – una parrocchiana mi disse: “L’incontro al Bar Sport….. sì, va bene. Ma qui abbiamo bisogno di raggiungere le fasce più a richio e disagiate della gioventù di Brolo.
La mia risposta è stata lampante, grata allo stesso tempo per l’interesse di chi mi stava parlando: “In questo tempo di interdipendenza globale, in cui le sfide sono enormi e le trasformazioni sociali troppo veloci perché un solo ente possa far fronte a tutto, io come parroco chiedo aiuto ai genitori per primo, e non necessariamente i genitori dei ragazzi in questione. Da solo un parroco non può nulla contro quello che sta avvenendo. Se devo improntare una prima azione come parrocchia, non potrò farlo senza che il paese si muova, esca dalla sua omertà, e prenda in mano sé stesso. Ho bisogno di genitori che mi aiutino e che si affianchino a quelli impegnati nell’oratorio.
L’incontro con i giovani al Bar Sport, al quale seguiranno altri, è nato così, perché un paio di persone hanno accolto il mio appello a “fare qualcosa”, a non restare con le mani in mano. Fra l’altro, una delle cose che abbiamo dimostrato è che persone dalle impostazioni, dalle idee e dall’indole molto diversi fra loro hanno molti punti di contatto, e sono sempre più numerosi gli elementi che ci uniscono rispetto a quelli che possono dividere.
Secondo, resto fermamente convinto di una cosa: ogni ente (dall’amministrazione comunale alla scuola, dalla parrocchia alle varie associazioni (sportive, culturali), devono perseguire l’obiettivo di affrontare la questione giovanile con le proprie risorse e con propri progetti. Non serve pensare a un mega progetto cooordinato da un’unica regia. Serve piuttosto la consapevolezza della necessità di patto sociale di acciaio, nel quale ognuno porta avanti il proprio progetto, sostiene i progetti degli altri e aiuta anche a promuoverli, in una rete di solidarietà e con uno spitito unitario.
Per me, in sostanza, si tratta di amare Brolo. Si tratta di amare il nostro territorio, in nostri giovani, le nostre famiglie, e di prendere la decisione di non girarci più dall’altra parte.
Come ho già detto in altre occasioni, abbiamo una grande battaglia sociale da combattere. L’unico modo che abbiamo per farlo e farlo insieme.
(E.C.)
Pierluigi Gammeri è stato chiamato a condurre il primo incontro, sul tema dei Profeti, vecchi e nuovi, e della Bibbia.
Ecco gli spunti introduttivi.
Quella che io, da non credente, definisco “la più bella storia del mondo” andrebbe a mio parere studiata nelle scuole al pari della Divina Commedia o dell’Odissea per riportarla nel quotidiano delle future generazioni.
Da non credente, il mio approccio a quella che io definisco “una delle storie più affascinanti del mondo”, ha un’impronta decisamente letteraria. Al pari di altre opere, la considero uno straordinario contenitore di bellezza oltre che, senza dubbio, una sorta di paradigma dei valori che stanno alle radici della nostra civiltà.
L’intento è quello di provare a ripartire dal testo, dalle parole, e far si che diventino “traccia” per recuperare quella componente spirituale che non necessariamente ha qualcosa a che vedere con la fede religiosa e che sembra essere scomparsa dal nostro quotidiano.
L’autentica esperienza spirituale è un dono per tutti, anche per chi la fede non ce l’ha, o ne ha una diversa. E’ qualcosa che ha a che fare con la nostra personale educazione alla vita, col nostro stare al mondo.
Al di fuori di questo dono gratuito non perde di senso la parte più nobile delle nostre esistenze, lasciando spazio soltanto a barbarie, consumismo, bramosia di potere e di denaro.
Un mondo senza questa componente spirituale altro non sarebbe che un luogo infinitamente più povero.
Perderemmo molte parole per raccontarci le cose più belle della nostra vita. Sono quelle parole che abbiamo dentro, nel nostro intimo, distillate per così dire, da quell’alambicco che si attiva quando alziamo lo sguardo per cercare risposte alle nostre domande sul senso del mondo, della vita o della morte.
Di questo umanesimo, di questo profondo sperimentare e conoscere intimamente il nostro personale percorso spirituale è permeato fortemente il testo biblico.
Scrive il profeta Isaia:
Verrà un giorno in cui il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”.
Ecco, non si va sul “monte del Signore” per diventare devoti dei padroni del tempio, ma per conoscere le “vie e i sentieri” della vita. Si va per sperimentare il cammino.
Le parole sono importanti per scoprire la strada, o, per dirla con le parole di Isaia: le vie e i sentieri della vita. Isaia è un profeta, e sono appunto i profeti, nel testo biblico, a rivelarci le parole più belle con lo scopo di condurci alla conoscenza.
Un compito nobile che porterebbe portare a ritenere, quella dei profeti, una condizione privilegiata. Niente di più sbagliato.
La condizione naturale del profeta è l’insuccesso.
Sono invece i falsi profeti a essere ascoltati e seguiti, a rispondere alle aspettative del loro tempo. L’essere seguiti, raggiungere fama e onori, è sempre stato un segno inequivocabile di falsa profezia – e continua a esserlo anche oggi. I veri profeti, invece, sono sempre fuori tempo, scomodi, antipatici, fastidiosi. Il loro è un controcanto. Predicano la difesa dei poveri, degli oppressi, degli ultimi. Lottano contro le ingiustizie sociali continuando a vivere in una società dove i più deboli sono vilipesi e sfruttati.
Come risposta alla loro denuncia, i profeti, spesso incontrano persecuzioni, lapidazioni e, non di rado, la morte.
Conoscere e ripercorrere la storia dei profeti, di ieri e di oggi, è anche un grande insegnamento sulle dinamiche del potere.
I profeti, infatti, non conoscono soltanto l’incomprensione da parte del popolo, dovuta al loro “canto” in controtempo. C’è anche la persecuzione deliberata e intenzionale da parte di chi li comprende molto bene, e per questo li combatte. Per intenderci, gli Erode di ogni tempo riconoscono e conoscono i profeti, e per questo li temono più di ogni altra cosa. C’è, però, qualcuno che crede e ama i profeti. Sono i poveri, gli oppressi, gli umili, gli scartati. Essi, oltre a vedere nel profeta una speranza di riscatto dalla loro condizione ingiusta, si trovano nelle condizioni antropologiche e spirituali per ascoltarne la voce, per comprenderne le parole. Il Regno dei cieli è solo dei «poveri» e dei «perseguitati a causa della giustizia» perché nella loro condizione riescono a vederlo, a capirlo, a desiderarlo.
C’è una definizione di profeta molto bella che Giovanni nel suo vangelo mette in bocca al profeta Isaia. Quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme i sacerdoti per interrogarlo essi gli chiesero:
“Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?”. Giovanni rispose: “Come disse il profeta Isaia: io sono voce di uno che grida nel deserto: / Preparate la via del Signore”
Metaforicamente parlando, i veri profeti gridano sempre nel deserto, e il molto caldo e la molta sete non riescono a zittire la loro voce.
Essi ammoniscono il popolo testimoniando la parola di Dio ed esortandolo ad essere “giusto”.
C’è un passo bellissimo nel primo libro di Isaia che vede il profeta ammonire il popolo riferendogli le parole di Dio:
Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me;
noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità.
Detesto i vostri noviluni e le vostre feste, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi.
Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni, dalla mia vista.
Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova.
Ma come deve essere un popolo “giusto”? Quali sono le sue caratteristiche?
E’ ancora una volta Isaia a rivelarcelo:
Aprite le porte della città: entri il popolo giusto che mantiene la fedeltà e rettitudine. Il suo animo è saldo; tu gli assicurerai la pace perché in te ha fiducia.
Ecco, nella Bibbia il concetto di “giustizia” è strettamente legato a quello di “pace”. Ma quando pensiamo alla pace dobbiamo riflettere sul fatto che la traduzione latina “pax” non riesce bene a rendere l’idea come l’ebraico “shalom”.
Nella Bibbia infatti la pace altro non è che una “promessa di pace per il popolo giusto”. Una pace cioè che non potrà realizzarsi nella vita terrena (se non in parte). Condizione necessaria di questa pace è la collaborazione dell’uomo, il suo essere nel giusto.
L’una presuppone l’altra e non si realizza se non con l’altra.
Una delle più forti visioni profetiche che descrive con linguaggio escatologico questo concetto di pace universale visto come ricostruzione di un rapporto armonioso dell’uomo con il cosmo e con i suoi simili è sicuramente il cantico delle creature e della pace di Isaia
Lupi e agnelli vivranno assieme in pace, i leopardi si sdraieranno accanto ai capretti. Vitelli e leoncelli mangeranno assieme e un ragazzino li guiderà.
Mucche e orse pascoleranno insieme, i loro piccoli si sdraieranno vicini. I leoni mangeranno la paglia come i buoi. I lattanti giocheranno presso nidi di serpenti
e se un bambino metterà la mano nella tana di una vipera non correrà alcun pericolo. Nessuno farà azioni malvagie o ingiuste su tutto il monte del Signore.
Come l’acqua riempie il mare, così la conoscenza del Signore riempirà tutta la terra.
E OGGI
Abbiamo visto la figura del profeta nella Bibbia, ma oggi?
Il profeta oggi è una voce che riesce a vedere anche i desideri profondi, la vocazione ancora inespressa dell’umanità. E ce la dona dicendola, perché possiamo diventare anche noi quello che ancora non siamo.
Splendida allora è stata l’ispirazione di chi ha voluto porre queste parole di Isaia nel muro di fronte al palazzo dell’Onu a New York.
“Egli farà giustizia fra le nazioni e sgriderà molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci; una nazione non alzerà piú la spada contro un’altra nazione e non insegneranno piú la guerra.
Nella storia le parole dei profeti le abbiamo trovate e continuiamo a trovarle di continuo di fronte a noi, come una chiamata costante a far di tutto per farle diventare un po’ più storia, vita, carne.
Nei profeti moderni la promessa di pace diventa speranza, diventa sogno. E proprio questa speranza, questo sogno li abbiamo sentiti urlati al cielo il 28 Agosto del 1963; siamo a Washington, negli Stati Uniti d’America; un uomo, al termine di una partecipatissima marcia di protesta, sta per pronunciare un discorso destinato a diventare uno dei più famosi del XXesimo secolo.
Si tratta di Martin Luther King, un pastore protestante.
Ne propongo uno stralcio.
Io ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità.
Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia.
Io ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità
Oggi ho un sogno.
Io ho un sogno, che un giorno, laggiù nell’Alabama, dove i razzisti sono più che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio, un giorno, proprio là nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme.
Questa é la nostra speranza.
Ma cosa accade invece quando la speranza civile è spenta?
In questo caso il profeta ha ancora una risorsa: può piangere per e con il suo popolo; lo può incitare:
«Popolo mio, le tue guide ti traviano, distruggono la strada che tu percorri»
(Isaia 3,12).
Il popolo diventa “mio popolo”.
Di Dio, e di Isaia.
Il profeta è legato al suo popolo da un affetto smisurato e lo incita, lo sprona affinché la Parola lo aiuti a ritrovare la strada.
Dopo l’apartheid, dopo l’incitazione dei profeti Martin Luther King e Nelson Mandela, avreste mai pensato che un uomo potesse ancora essere giudicato per il colore della sua pelle?
Dopo l’Olocausto, dopo l’orrore dei campi di sterminio, dopo il pianto del profeta Primo Levi, avreste mai potuto lontanamente immaginare che avremmo ancora sentito parlare di razza?
Voglio congedarvi da voi con un brano tratto dall’ultimo librò di Stephane Hessel, un profeta dei nostri giorni. Si tratta del suo testamento morale, sono le parole che ci ha lasciato prima di morire. Insomma è un pò il suo canto del cigno.
Il mio augurio a tutti voi, a ciascuno di voi, è che abbiate un motivo per indignarvi. E’ fondamentale. Quando qualcosa ci indigna come a me ha indignato il nazismo allora diventiamo militanti, forti e impegnati; abbracciamo un’evoluzione storica e il grande corso della storia continua grazie a ciascuno di noi; ed è un corso orientato verso una maggiore giustizia, una maggiore libertà. Ma non la libertà incontrollata della volpe nel pollaio; questi diritti sono universali. Se incontrate qualcuno che non ne beneficia abbiatene pietà e aiutatelo a conquistarli.
Indignatevi. INDIGNATEVI.
E resistete, resistete…resistete.
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