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La lingua dei siciliani

di Marcello Russo.

Chiunque abbia raggiunto la maturità scolastica o abbia avuto la possibilità di entrare nel tempio della cultura e della sapienza, vale a dire l’università, alla domanda sulla lingua che si utilizzava in Sicilia, si sarà sicuramente sentito rispondere: “latino, francese, tedesco, spagnolo, dipende dalle varie dominazioni!”.

Tesi suggestiva questa, che ha affascinato anche me non per altro perché non riuscivo a capacitarmi di come tutto un popolo riuscisse ad apprendere in poco tempo una lingua ad esso sconosciuta e allo stesso tempo come un intero popolo e uno Stato non avessero una propria lingua.

Per diverso tempo mi portai dietro questo mistero fin quando non incominciai ad appassionarmi a tutto ciò che riguardava le mie radici, ed andando alla ricerca di quante più notizie possibili sull’argomento, rimasi sconcertato, forse anche per la sua ovvietà, dalla risposta che trovai: I SICILIANI PARLAVANO IN SICILIANO!

Credevo con questa risposta di avere soddisfatto la mia curiosità, invece, entrai in un circolo vizioso di quesiti e dubbi che riguardavano, ovviamente, l’origine, lo sviluppo e la persistenza di tale lingua nonostante l’incontro dei siciliani con altre culture.

Partendo dall’origine, alcuni studi farebbero risalire i suoi caratteri fonetici fondamentali niente poco di meno che alla preistoria. Si suppone che Sicani ed Elimi, abitanti la zona sud-ovest dell’isola, avessero delle affinità linguistiche con i Cartaginesi e che quindi la loro fosse una lingua semitica; i Siculi, situati nella parte orientale della Sicilia, invece, avrebbero avuto delle affinità linguistiche con i Greci, anch’essi stanziatisi nell’area orientale, e quindi che la loro fosse una lingua indo-europea.

Queste due anime siciliane, vennero sempre in contatto influenzandosi a vicenda, sia grazie ai rapporti commerciali che i cartaginesi intrattenevano anche al di fuori della loro sfera d’influenza; sia per i continui passaggi di controllo del territorio ai due contendenti.

Questa distinzione di affinità linguistica la ritroviamo anche successivamente sia con i bizantini, cioè greci, che non a caso scelsero Siracusa come capitale della provincia siciliana, divenuta anche capitale imperiale dal 663 al 668; allo stesso modo non è nemmeno casuale che la conquista araba inizia nell’area occidentale e che venne scelta Palermo come capitale dell’emirato siciliano.
Sono proprio gli arabi a lasciare un grossa impronta nella lingua; grazie alla loro cultura appresa attraverso la trascrizione dei libri di epoca greca e quindi tramite la conoscenza di tale lingua, essi fungono da ulteriore collante tra le due anime linguistiche siciliane; anche se come ipotizza Carmelo Trasselli, alcune delle voci siciliane di etimo semitico che vengono attribuite agli arabi in realtà potrebbero esserci arrivate dagli ebrei, la cui presenza nell’isola risale sin dai tempi dell’Impero romano.

Con l’arrivo dei normanni ed in particolare con Ruggero II, la Sicilia ritorna ad essere uno Stato indipendente. Inizialmente il compito affidato loro dal papa doveva essere la latinizzazione, non solo linguistica, della Sicilia; il loro latino non era quello di epoca classica, che in Sicilia non si è mai parlato, ma di stampo medievale.
Pietro Sanfilippo, nel suo “Storia della letteratura italiana”, ci segnala che già in quest’epoca l’Abate Morso riferisce di un diploma greco del 1155, conservato nell’archivio della Cattedrale di Palermo, dove vi era, nella parte esteriore di esso, un trasunto in siciliano reputato, dallo stesso abate, contemporaneo all’originale greco.
Come ritiene il Sanfilippo, se ciò fosse vero significherebbe che già mezzo secolo prima di Federico II, si scriveva in siciliano, ma che se non si può provare di averlo scritto, si può ben affermare, in quell’epoca, di averlo parlato.
La definitiva affermazione del Siciliano come lingua scritta, avviene con la Scuola Siciliana, dove notevole influenza nello sviluppo delle sue produzioni la ebbe la poesia provenzale portata dai normanni.
Il progetto di Federico e del figlio Manfredi, oltre che culturale fu politico; essi infatti intendevano creare una lingua unica sia in Sicilia che nel resto della penisola italica per portare avanti il proprio progetto imperiale ed isolare la Chiesa.

Con l’invasione angioina, avallata dal papato, la Sicilia perde la propria casa regnante e così anche la scuola poetica siciliana smette di produrre.

Attraverso il Vespro e l’arrivo degli aragonesi si ricostituisce il regno siciliano. Federico III, nipote per via materna di re Manfredi, ed i suoi successori, purtroppo, rimangono impegnati per novant’anni nelle attività militari di riconquista del territorio peninsulare e a loro volta di difesa dagli attacchi angioini per dedicarsi alla cultura e riprendere l’attività della Scuola Siciliana.

Il siciliano rimane lingua non solo di uso corrente ma anche amministrativa sino a quando la Sicilia nel 1410, con Ferdinando di Castiglia, divenne vicereame, venendo preferito l’italiano.

Al di là di ogni agente esterno, la lingua siciliana rimane comunque la lingua del popolo siciliano come lo è tutt’oggi.

Da questo excursus si evince come il processo di strutturazione della nostra lingua duri millenni, ma segue sempre un suo filo conduttore rientrante all’interno di una grande cultura mediterranea dove chi è venuto da fuori, anche se ha apportato determinati elementi, si è dovuto adattare ad un sostrato linguistico già esistente, manifestandosi nel medioevo, non a caso nel momento di massimo fulgore politico del Regno di Sicilia, come vera e propria lingua.

Marcello Russo

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