di Italo Zeus
Man manu ca passuno i jonna
Sta frevi mi trasi ‘nda l’ossa
Ccu tuttu ca fora c’è a guerra
Mi sentu stranizza d’amuri
D’amuri
E quannu t’ancontru ‘nda strata
Mi veni ‘na scossa ‘ndo cori
‘Ccu tuttu ca fora si mori
Na’ mori stranizza d’amuri
L’amuri
Franco Battiato
IL FILM
(ATTENZIONE SPOILER!)
Per chi non capisse il siciliano c’è google, anche se mi sembra chiaro che si parli d’amore. Una stranezza d’amore. Vale a dire un amore strano, più intenso, più coraggioso, più leale, più forte, perché fuori si muore, fuori c’è la guerra, e noi sentiamo la febbre di questo amore che ci entra nelle ossa e che non si può fermare.
Il film di Beppe Fiorello, al suo esordio alla regia, parla di quest’amore che niente e nessuno può impedire.
E’ estate, 1982, a Giarre in Sicilia. Gianni, diciassette anni, viene bullizzato perché gay. E’ un ragazzo silenzioso cupo senza un padre e con una madre che sa e che tenta di sostenerlo, mentre il patrigno vorrebbe cacciarlo di casa per la vergogna. Un giorno per caso un’incidente in motorino gli fa incontrare Nino, sedici anni. Nino è un ragazzo solare con una numerosa famiglia che lo ama. Nino e Gianni diventano amici, un’amicizia intensa che lentamente si trasforma in amore. Per Nino è una cosa nuova che non riesce bene a comprendere ma che lo trascina dentro un vortice di passione. Niente sesso solo baci. Il film non mostra mai un rapporto sessuale tra i due, lo lascia solo capire.
In Sicilia, negli anni ‘80, l’omosessualità era una cosa inaccettabile, che permetteva insulti di ogni genere e “il bar” era il teatro di violenza psicologica e fisica. Gianni vive sopra al bar e lavora nell’officina lì di fronte. In silenzio accetta tutto come se lo meritasse. Accade però che lo stallone del paese lo cerchi per avere in segreto dei rapporti con lui. Gianni lo rifiuta. Intanto a casa di Nino nessuno sospetta. Un giorno, per la malattia del padre, i due ragazzi si ritrovano a lavorare insieme nell’azienda di famiglia che si occupa di fuochi d’artificio. E proprio sotto le luci colorate dei fuochi, il loro amore nasce, cresce e diventa totalizzante.
Durante una festa di paese una signora li vede baciarsi e corre dalla madre di Nino a dirglielo. L’affetto della famiglia si trasforma immediatamente in disprezzo. Nino chiuso in una stanza è sottoposto a interrogatorio, aggredito violentemente dallo zio e dal padre che vogliono costringerlo a confessare. Nino nega, cerca di difendersi ma inutilmente, la rabbia dei due uomini cresce e Nino è costretto a mentire, a dire che non sapeva che Gianni era un puppo.
I due ragazzi sono costretti ad allontanarsi. Lo zio cerca Gianni e lo fa pestare a sangue di fronte al solito bar. Tutti guardano senza intervenire, il ragazzo urla, perde sangue ma i calci, i pugni continuano inesorabili fino a quando Gianni rimane steso a terra in preda a dolori lancinanti. Solo quando lo zio di Nino e i suoi scagnozzi vanno via. Solo allora lo aiutano a salire su in casa. Tutto sembra essere finito, il segreto è stato svelato e il sorriso dei due ragazzi costretti a stare lontani si spegne lasciando spazio ad un dolore che è vietato esprimere.
Passa il tempo che sembra infinito ma la “Stranizza d’amuri” non può essere fermata. La sera della festa del paese Nino va da Gianni e in mezzo alla folla che guarda con stupore i due vanno via insieme. Solo il pazzo del paese sorride, il pazzo trattato da diverso e che capisce.
Il film si chiude con i due ragazzi che fanno il bagno a mare e poi si stendono uno accanto all’altro, si danno un bacio, e si stringono la mano. Fuori campo si sentono due spari.
IL COMMENTO
Mi sono dilungato sulla trama del film perchè volevo trasmettere la tenerezza di questa storia tragica che purtroppo è vera. La pellicola infatti si ispira ad un fatto di cronaca ed è dedicato ai due reali protagonisti, Giorgio Giammona ed Antonio Galatola. Ai quali il film è dedicato.
A seguito del loro omicidio nasce la prima sezione Arcigay in Sicilia. Poca cosa ma rivoluzionaria per quegli anni.
L’omicidio viene negato, l’uomo che in un primo momento confessa poi ritrae dicendo che furono i ragazzi a chiedergli di essere uccisi.
Beppe Fiorello stupisce con una regia delicata e sentita e con una ricostruzione perfetta di quegli anni; non solo negli oggetti, nei vestiti, e nelle auto, ma soprattutto nel pensiero della cultura omofoba, estrema ma completamente reale. Il tutto è immerso in un paesaggio selvaggio e bellissimo.
Il film comunque scade in alcune lunghezze, vedi anche la durata, e non riesce ad imprimere a pieno qualche carezza, qualche bacio mai dato. I primi piani sono intensi, il montaggio un po’ lento, non in senso buono, un po’ scolastico insomma, e si sente il retaggio televisivo da cui alla fine Beppe Fiorello proviene. Ma Fiorello può contare su una solida sceneggiatura e sull’interpretazione molto autentica dei due protagonisti. Il coinvolgimento del regista si sente e si manifesta con semplicità ma anche con efficacia. L’uso del siciliano senza sottotitoli costringe lo spettatore ad una concentrazione che esalta il film.
Necessario sicuramente e coraggioso.
QUESTIONI DI UN CERTO GENERE
Io quegli anni li ho vissuti ed era proprio così. Vedere adesso il continuo coming out di gente famosa e normale, sentire, soprattutto i ragazzi, parlare di gay, lesbiche, transessuali, e leggere tutte le sigle e le possibiltà di riconoscersi in qualcosa, fino ad arrivare al termine fluid, mi rende felice.
Ma, c’è un ma secondo me: la parola etichetta.
Qualcuno storcerà il naso per quello che scriverò di seguito, ma è quello che penso.
Nessuno vuole essere etichettato. L’etichetta è qualcosa di sbagliato, di ghettizzante. E così si cercano nuovi nomi, nuovi termini, nuove sigle. Tutto questo però crea confusione. La gente di altre generazioni non capisce. Il termine queer, ad esempio, prima era offensivo adesso no, trans è sbagliato, si deve dire persona in transizione, e così via.
Io non nego l’importanza di questo progresso ma sinceramente lo trovo poco utile. E le etichette non sono forse un modo per riconoscere? Un medico è un medico, un avvocato è un avvocato, un’insegnante è un’insegnante; persino al supermercato esistono le etichette e sono necessarie per capire di che prodotto si tratta. Quindi l’etichetta gay ti fa riconoscere, è una parte di te, ma solo una parte, perché dietro c’è una persona. I nomi sono importanti, il proprio nome è importante. Io sono Italo, prima di essere un insegnante, un regista, un autore. Quando qualcuno mi chiama io so che si sta rivolgendo a me e non a una sigla. Cosa vuol dire pansessuale? Significa semplicemente che ti innamori.
Secondo me la forza del film di Beppe Fiorello sta nell’asserire questo: che l’amore è importante, chi se ne frega dell’etichetta. Se tu ami qualcuno profondamente non ti importa di niente. So che è un discorso un po’ contraddittorio ma io ho amato questo film proprio per un termine che ormai è diventato noioso e facile a dirsi, ti amo; sembra essere diventato ciao.
Sì, io credo nell’amore, quello vero, quello che va oltre tutto, oltre il giudizio, che ti fa sentire la febbre nelle ossa, che ti fa tremare, che ti fa palpitare il cuore quando incontri per strada la persona che ami. E la mia etichetta è questa: persona che ama. E la voglio stampata in fronte, voglio che tutti lo sappiano e che non si confondano perché l’etichetta è chiara non da addito a fraintendimenti.
L’amore tra Gianni e Nino insegna. E anche la loro morte insegna. Non avere un’etichetta significa non avere un nome.
Il proprio nome.
Italo Zeus
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