LA STAZIONE & BROLO – L’ULTIMO TRENO..
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LA STAZIONE & BROLO – L’ULTIMO TRENO..

 

 

 

Tanta gente alla stazione di Brolo con Padre Nici al centro, l’onorevole Germanà, De Lorenzo, il “Capo Gaglio”, i giovanissini Peppinello Garofalo e Nino Ferro, Calogerino Ricciardo, De Grigoli e De Lorenzo, mezza segreteria dello “scudo crociato”, tanti notabili , e dietro i “vitelloni” brolesi sorridenti. Erano lì, per l’inaugurazione del Bar della stazione. Era l’anno 1968. E c’erano anche Angelo Scollo e la Sig.ra Mimma. Che da quel giorno hanno gestito il bar per più di un ventennio.

E poi anche personaggi, come Nino Napoli, signori di un tempo, che non ci sono più e che avevano lasciato i tavolini da gioco, quelli della villetta dietro il “Bar Savoia”, da Donna Rosa, proprio per posare per questa foto, regalataci -insieme ad un vagonne di rocordi -èil caso di dirlo – da Pino Scollo.

Sappiamo perchè erano lì, ma chissà chi aspettavano ancora. Chissà chi si aspettavano dovesse arrivare!.

Sorrisi rassicuranti, paciosi.

Brolo in quel tempo era come un treno a vapore, tutti pensavano di salirci sopra.

Sul binario morto, i vagoni caricavano limoni, patate, arance.

E a Brolo si fermavano, Fanfani, Rumor, Florena e poi, negli anni più avanti, Spadolini, Almirante, Rauti, Occhetto, ed oggi, anche Grillo, mentre il paese ha avuto altri onorevoli: Laccoto, i Germanà.

I treni partivano, portavano carichi di umane disgrazie e disperazione in Germania, nelle miniere francesi, a Milano, Torino, a Segrate.

Carichi che sarebbero tornati in estate, per le ferie, il “ne” sulle labbra a testimonianza della permanenza al nord, l’emancipazione di una gonna più corta, i tostapane e il mangiadischi come regali.

I treni percorrevano la pianura, costeggiando il mare, andando per Messina, perdendosi nelle gallerie. Erano treni scarni, i sedili in legno, c’era la terza classe, e li prendevano i nuovi “pendolari”, quelli che andavano ad occupare, per raccomandazione, i primi posti di lavoro, portantini, al “Piemonte”, al “Margherita” grazie alle influenze democristiane del tempo.

E li prendeva anche chi andava a Palermo, chi poteva permettersi di fare l’università in città.

Il treno partiva, anche da Brolo, con il tipico e ritmico rumore.

Trutump, trutump… trutump, trutump….

Il sole irradiava calore attraverso il vetro del finestrino, riscaldava chi partiva.. tutti sorridevano.

E Brolo cercava un treno, il suo treno, dove far viaggiare il sogno del suo sviluppo.

Credeva nelle favole, nell’untore di turno. Si vendeva in buona fede. Prostituta per obbedienza … senza peccato. Dal treno scendevano i primi finanziamenti, si sfasciavano strade, si rovinavano selciati, i cantieri costruivano la provinciale per Lacco, spaccavano le pietre del Lavanaro, bonificavano dalla malaria gli acquitrini lungo la via Libertà, si costruivano le case popolari e poi si urbanizzavano malamente i giardini di limone, veniva fuori il quartiere Kennedy, si disegnavano asimmetricamente strade storte, quella della vergona, oggi via Dante.

E dal treno scendevano poi gli studenti, quelli che le corriere blu di Ballato riportavano nei loro paesi sulle colline, e che poi, riposteggiandosi negli angoli più bui del paese, diventavano riparo, per romantici baci, e nulla di più.

Brolo al quel tempo, sognava il lungomare, il campo di calcio, la scuola media, l’elettrificazione delle contrade.

brolo_stazione_2Ed il treno era lì pronto a ripartire.

Poi dal treno scesero le grandi opportunità: l’Autostrada, lo svincolo, le nuove aziende, le case-vacanza, fatte per i palermitani, quelli che lavoravano già alla “Regione”. …. e dal treno si vedevano i “grattacieli” di via Libertà, e poi gli obbrobri che devastavano irrimediabilmente i quartieri Pompa, “Macello”, le lottizzazioni sfrenate di Ferrara, lo scempio, poi inattuato, di Malpertuso, e le scelte dissennate di depuratori, in zone fruibili per l’espansione turistica, e prima le vasche Imhof mai utilizzate,le case-ville lungo la spiaggia, quasi a chiuderla, un lungomare urbanizzato miopemente, senza lasciar spazio al terziario commerciale.

Chi partitiva si lasciava alle spalle rimpianti, amori e i ricordi di antiche memorie, come il saponificio, i leoni alati delle ville di Piana, il laghetto, appena realizzato, che faceva paura ricordando il Vajont.

Ma i treni si fermavano ancora.

E’ vero, qualcuno non è più partito, altri non si fermavano più, segnali di una stazione che presto sarebbe stata disabilitata.. al punto che oggi resta aperta perchè il “comune” la pulisce, se ne prende cura, e l’abitazione del capotreno diverrà un centro-sociale, mentre l’antico rifugio antiaereo ospita mostre d’arte.

brolo_trenoMa in tanti ancora  prendevano quei treni – come ancora gli studenti, quei giovani che sono la speranza del paese –  accontentandosi dell’accelerato, lento, in ritardo, ma che certamente sarebbe arrivato, qualcuno oggi l’ha ancora perso…

È difficile aspettare.

E la gente della foto – di quella foto – ormai è per tanti solo un ricordo.

Per altri resta il ricordo di quei primi viaggi in treno.

I grandi tralicci metallici legati fra loro dai fili elettrici che li rendevano simili a giganti incatenati; i filari delle vigne al ponte naso allineati, bassi, con i ficod’india a proteggerli dalla salsedine, come soldati schierati prima della battaglia.

E ancora quei paesi arroccati sulle colline che corrono via veloci, come i notri pensieri, come il treno che sussulta sui binari, che sfocano all’orizzonte, al pari delle ville che intravediamo e delle lunghe file dei platani al limitare della pianura, e le palme a Gliaca che disegnano il profilo di un borgo da lì a poco devastato dall’edilizia selvaggia.

La Statale che s’intrecciava con la linea ferrata attraverso passaggi a livelli sempre degni di un riverente timore, con le loro storie di dolore e tragedie.

L’aria trasparente, il cielo terso di un azzurro intenso, come il mare che costeggiava i binari, contro il quale risaltavano le mille sfumature di verde della campagna, lì a ridosso, con l’immagine – la nostra – trasparente, riflettente sui vetri, luridi e schizzati, come i bagni maleodoranti, sempre privi di acqua.

Vagoni tipicamente zeppi di un odore inconfondibile, di umane miserie, che ti porti sugli abiti e che ti identificano come un “viaggiatore”.

E poi lo sguardo abbassato verso le traversine, riflessivo, che si sofferma sui quei binari invasi da ogni genere d’immondizia.

Prima i pacchetti delle “Stop” e delle Nazionali, verdi o bianche, oggi ricolmi di altro. Lattine, bottiglie di plastica vuote, scarti e carte, giornali e gratta e vinci usati, segno inequivocabile dell’inciviltà umana; traccia tangibile del passaggio irrispettoso dei barbari di un medioevo moderno.

Sulle labbra, se si andasse a rifare quella foto, nessun sorriso lieto, ma quello sarcastico di gente delusa.

Poi tutto sarebbe uguale – tranne, appunto, il sorriso della gente per bene – in fondo anche oggi si potevano trovare onorevoli, politici, nullafacenti, biscazzieri, bari, signori, poeti e popolani – quelli ripresi nella foto – ed ancora principi, baroni, vassalli e valvassori, quaquaraquà, migrantes, schiavi e liberti, servi della gleba tartassati da sorprusi e gabelle, oggi imu e tares.

Ancora un fissare in un click un costretto medioevo, ora moderno, dove solo principi e baroni, faccendieri e politici erano, e sono, dediti ad accumulare ricchezza e potere, a rubare e poter mangiare, abbuffandosi, a scapito dei più deboli, a depredare sogni e speranze.

Un novello quanto “moderno guazzabuglio”, da prima, seconda e terza replubblica.

Nella foto ora ci sarebbe solo un sorriso malinconico.

Quello di chi voleva una vita normale, un lavoro tranquillo, senza ambizioni, anche commessi nel negozio di Buttò, che vendeva di tutto, anche le coppole, o in qualche libreria dimessa e polverosa, sotto un cielo ancora generoso e premuroso, in una soporifera periferia del sud, o i un baretto, lungo di tratturi che portavano al “lago”, abitato da mille marocchini fantasmi, vivendo in una qualsiasi casa senza la facciata .. per quella ci sarebbe stato tempo.

Il sorriso di chi voleva una vita normale, fatta anche di bollette, ma con la certezza di poterle pagare a fine mese; di turni di lavoro – appunto di lavoro, quello che non c’è -, di cene intime, la pizza con gli amici, i film visti cento volte al “Risveglio”, o scaricate grazie ad un generoso e-mule, di noie domenicali – anche quelle senza le auto per l’austerity con una ragazza sarda che faceva sognare tutti – di ferie, di mano nella mano guardando come ebeti le vetrine dei negozi che sarebbero stati chiusi, per la crisi, dopo qualche anno..

Ma quel treno, ora non arriva.

E sarebbe stato bello vederlo ancora arrivare, prenderlo, con una valigia di cartone, ricca di tanto, con i nostri sogni che diventano realtà e non solo promesse.

Ricca di noi.

Noi che crediamo ancora in questo paese.

E la stazione, all’imbrunire dell’ennesima rotazione, diventa il comodo ricovero per mille frustrazioni.

Per mille sogni spezzati. per mille sogni rubati.

Per un futuro negato.

Che bella quella foto.

Erano gli anni sessanta e si andava incontro verso un irrimediabile passato.

 

20 Novembre 2013

Autore:

admin


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