di Enzo Russo
L’attesa era l’emozione che vivevamo ed albergava per giorni nel nostro cuore di bambini.
Ci si credeva fino a grandi, fino a quando il tempo veniva a rompere quell’incantesimo ma, tuttavia, rimaneva per sempre un dolce ricordo che imparavamo a tramandare.
Venivamo in quei giorni a conoscenza attraverso “cunti e fatti” delle vite e delle storie dei nostri avi, dei bisnonni, di qualche nonno che già non c’era più e non aveva avuto la possibilità di conoscerci, di zii vicini e lontani, degli ”anciuletti” come venivano chiamati i morti in tenera età che ci guardavano e ci proteggevano dall’alto. Avevamo un grande rispetto per i nostri morti e per le vite che avevano vissuto fatte di enormi sacrifici, di lavori umili e faticosi, di grandi viaggi in terre lontane, di famiglie numerosissime, di volontà di costruire, anzi di ricostruire, un paese e un futuro. Si veniva a conoscenza di vite di parenti e amici che popolavano interi quartieri, di amori nati e subito riparati dopo rocambolesche “fuitine”, di decine e decine di immancabili “cumpari e cummari”, di parenti lontani di cui sconoscevamo l’esistenza e la cui discendenza viveva ora una vita agiata oltre l’oceano, e di tanto altro ancora.
E poi veniva la notte in cui l’attesa si faceva fremito e diventava imminente l’incontro con i nostri “morticini” che, naturalmente, non sarebbe mai avvenuto perché c’era sempre un momento che la nostra emozione ci fiaccava e ci faceva crollare nel sonno: ed era giusto quello l’attimo che loro aspettavano per venire a trovarci, darci una carezza e lasciare i “duci di mazzapani e l’ossa i mottu” e qualche regalo che noi avevamo tanto desiderato e del quale loro erano inspiegabilmente a conoscenza. Solo i grandi a volte potevano sentirli arrivare e per non disturbarli si ritiravano nelle loro stanze dopo aver lasciato la tavola apparecchiata con acqua, pane e vino per sfamarli e dissetarli.
I nostri morticini prima di andare via nascondevano ogni anno in posti diversi i loro regali e così l’indomani, appena svegli e tutti emozionati, correvamo per casa in una specie di caccia al tesoro sotto gli occhi divertiti dei nostri genitori che ci suggerivano qualche nascondiglio, e con la meraviglia negli occhi quando scovavamo uno dopo l’altro i doni. Ci abbiamo creduto… ci abbiamo creduto davvero con tutto il cuore. In tarda mattinata o nel primo pomeriggio si andava con tutta la famiglia al cimitero a trovare e ringraziare i nostri morticini che erano già rientrati nelle loro case. Era una composta festa dove si incontravano centinaia di amici e parenti e ci si fermava di fronte alle tombe con esposte foto più o meno antiche, con le lucine accese e anche qui si ascoltavano tanti altri racconti e i ricordi si sovrapponevano: poi si sfilava un fiore dal mazzo e lo si sistemava nei vasi già stracolmi.
Oggi non resta più nulla delle nostre vere tradizioni, della nostra sana ingenuità, della sorpresa che era la vita da piccoli. Oggi non esistono più le storie, oggi c’è internet per tutto, oggi i morticini restano nelle loro case perché c’è Halloween e i ragazzi, anche i più piccoli, festeggiano qualcosa che non gli appartiene e non sanno neanche il perché di quella festa e cosa voglia significare.
Tuttavia non è questo il peggio: il peggio è che nei loro occhi non c’è più la meraviglia, che non stanno ad ascoltare “i cunti” che nessuno “cunta” più, che non conoscono più la vita delle loro famiglie e, soprattutto, non possono assaporare il gusto e vivere l’emozione dell’attesa.