Di vecchi e meno vecchi fascismi ci parla Ugo Maria Tassinari.
tratto da http://ugomariatassinari.it/download/amnesia_vivace_-_una_recensione_di_guerrieri/Guerrieri(2).pdf
Di vecchi e meno vecchi fascismi ci parla Ugo Maria Tassinari.
Vecchi, ai nostri occhi di lettori del 2016, il libro è del 2005, sembrano ormai i fatti della prima metà degli anni ’70, anni in cui l’estremismo fascista coincideva con le trame eversive occulte golpiste e stragiste.
Un po’ meno vecchi appaiono gli anni successivi, quelli indicati nel titolo, tra il 1974 e il 1982, quando la militanza fascista estrema tenta di liberarsi dall’abbraccio con i poteri deviati dello Stato e trova l’ “indipendenza” nella lotta armata contro quello stesso Stato che pochi anni prima aveva in qualche modo servito.
L’Autore ricostruisce con una impressionante dovizia di particolari, di nomi, di date, di fatti, la storia dell’estremismo nero in Italia dal 1975, momento in cui il radicalismo politico che conquista i titoli dei giornali e delle tv è quello di sinistra, ai primi anni ’80, quando il fumo dell’ordigno che esplose alla stazione di Bologna diradandosi lasciava scoperte le macerie che quella stessa bomba aveva causato nelle logiche del terrorismo e del radicalismo politico.
Limite che onestamente lo stesso Tassinari riconosce quando parla di «… difficoltà di una ricostruzione storica che continuamente deve fare i conti con la produzione non solo di verità giudiziarie ma addirittura di saperi e strumenti epistemologici di matrice inquirente» [p. 101]. D’altronde questo non può stupirci: l’estremismo di destra ha generato negli anni studiati da Tassinari soprattutto materia da indagine giudiziaria, e penso si possa dire che proprio la ricerca di una politica di destra che fosse alternativa a quella istituzionale (rappresentata dal MSI) ma che non coincidesse – almeno completamente – con l’azione illegale e violenta, sia stata la vera sfida su cui la progettualità di estrema destra si è confrontata.
Lo studio di Tassinari presuppone, parlandone nelle prime pagine, una sorta di disfatta dell’estrema destra dei primissimi anni ’70, disfatta che consegue il fallimento delle “politiche” golpiste e stragiste (Piazza Fontana nel 1969; golpe Borghese nel 1970; strage di Brescia e dell’Italicus nel 1974). Braccato dalla magistratura e senza alcuna vera prospettiva politica, il radicalismo fascista assiste nella seconda metà del decennio all’avvento, per certi versi sconvolgente, del movimentismo di sinistra: il ’77, Lotta Continua, Autonomia Operaia, il movimento studentesco e la ricerca assidua di un trait d’union tra le istanze giovanili studentesche e quelle tradizionali dell’universo operaio. Una stagione della politica su cui si può dare il giudizio che si vuole ma che indubbiamente rappresentò l’ultimo grande movimento di massa nella storia della democrazia italiana, l’ultimo vera voce popolare nei confronti di una dialettica politica condannata all’afasia.
Ciò che il lavoro di Tassinari sembra suggerire, è la presenza nel secondo quinquennio dei ’70 di un lungo percorso di trasformazione dell’estremismo fascista italiano che tenta di farsi movimento propositivo e di massa; è l’emergere in particolare di una base giovanile che è stanca di pensare a se stessa in termini di picchiatori o peggio ancora di braccio armato e occulto del potere borghese e del “capitale”.
È il confronto con l’opposto movimento di sinistra che induce il radicalismo di destra a ricercare un approfondimento ideologico sul senso di essere fascista in rapporto ai grandi temi sociali: se a sinistra c’erano sempre — diluiti in varie forme — gli strumenti interpretativi del marxismo, del materialismo, dell’analisi classista della società, a destra cosa c’era di alternativo da proporre?
osa che non fosse lo sterile culto di reliquie di un’epoca ormai passata, o che non fosse violenza e bombe e stragismo? Ma l’impressione che emerge, tuttavia, nel resoconto di Tassinari, è che la volontà di divenire movimento politico propositivo resti non molto più di un’intenzione: è veramente difficile individuare tra la fine dei ’70 e i primi anni ’80 un’azione politica che non abbia o coinciso con l’azione militare o che non abbia almeno in parte sposato la logica dello scontro violento. Sì, ci sono stati movimenti più propriamente politici come Lotta Studentesca e Terza Posizione, eventi come i Campi Hobbit, “cenacoli” intellettuali intorno a teorici dello stampo di Signorelli, ma per quanto Tassinari (e i protagonisti di quegli anni da lui intervistati) evidenzi un tentativo seppur confuso ed episodico di far “politica” (movimento, dibattito, diffusione d’idee, costruzione di un progetto), resta netta la percezione del “fascista” come individuo (più che gruppo) diviso tra la lotta armata contro lo Stato, l’azione criminale tout court, lo squadrismo anticomunista.
Impressiona, in questo senso, come la storia del radicalismo di destra di quegli anni si risolva soprattutto in storie di individui. È un individualismo che dichiara il limite sociale della proposta di estrema destra, un individualismo che non è espressione di un progetto politico ma ricorda l’anarchia di schegge impazzite che tentano di uscire dal proprio ghetto ma che non riescono a farlo senza passare per la scelta della violenza, della latitanza, dell’eversione e anche della malavita nel senso più tradizionale del termine. Sono le storie dei tanti Tuti e Fedra e Calore e Concutelli e Signorelli e Delle Chiaie e Fioravanti.
E sono storie in cui la generazione “nuova” si confonde con quella più vecchia e le differenze appaiono appena percettibili. In questo senso il decennio di cui parla Tassinari si presenta come una nebulosa compatta e sfocata che si nasconde dietro la porta impenetrabile del Movimento Sociale Italiano, partito politico, quest’ultimo, bloccato per decenni tra il rifiuto di quello stesso sistema democratico parlamentare che lo teneva in vita e l’impossibilità di reciderne completamente i legami. Il MSI fu probabilmente niente di più che la facciata più o meno presentabile, più o meno legale, di un universo “nero” privo di sbocchi; una sorta di “tappo” dietro cui nascevano e morivano le sigle tristemente note dello stragismo “di Stato” (con le dovute differenze che Tassinari evidenzia: Ordine Nuovo, Ordine Nero, Avanguardia Nazionale) e del terrorismo nero (NAR sui tutti).
Eppure dentro l’MSI — ed in particolare dentro la sua appendice giovanile del Fronte della Gioventù — covavano impellenti tutte quelle domande che, tanti anni dopo, avrebbero portato alla c.d. svolta di Fiuggi e alla nascita di Alleanza Nazionale, e quindi l’abbracciare una prospettiva di destra democratica in linea col conservatorismo europeo ed americano. E quelle stesse domande — il dover fare i conti con una società che cambia e che non potrà mai più tornare indietro — covavano anche dentro l’estremismo giovanile orgogliosamente fascista, che se rifiutava l’accomodamento parlamentare del Movimento Sociale (e tanto più avrebbe dopo rifiutato l’accomodamento ideologico, o l’abiura, di Alleanza Nazionale), altrettanto tentava di prendere le distanze dallo sbocco eversivo e cercava incessantemente un dialogo verso l’esterno, un’uscita dal ghetto. In questo contesto nasceva, circa nel 1976, il movimento di Lotta Studentesca che pochi anni dopo sarebbe divenuto Terza Posizione (la cui natura, però, sarebbe rimasta ancora ambiguamente vicina o confusa con l’universo eversivo); in questo contesto si pongono le basi per l’emersione di un “movimentismo” di estrema destra che avrebbe portato, ai giorni nostri, al successo di Forza Nuova, ma anche alle interessanti e tutte da indagare esperienze delle O.N.C. (Occupazioni Non Conformi).
Eppure permane una contraddizione e una confusione in tutto lo svolgimento del libro, contraddizione e confusione tra il continuo parlare di politica e il continuo non fare politica ma scegliere le solite vie della lotta armata, dello squadrismo violento, degli attentati, delle rapine. E non si capisce se tale contraddizione sia stata propria di quel movimento, che non è riuscito ad andare oltre alle “vecchie cattive abitudini”, o se sia di Tassinari stesso che travolto dalla mole di dati processuali non è riuscito (o non ha voluto) approfondire più di tanto né il processo di elaborazione ideologica interno all’estrema destra, né le forme e le modalità dell’attivismo di base in rapporto alle problematiche sociali.
E poi vorrei chiudere con una serie di citazioni dirette, indubbiamente molto più chiare ed eloquenti della mia “confusione”:
– a p. 120 parla Tassinari, con riferimento alla tipologia fascista degli appartenenti al c.d. “gruppo di Via Siena” (1979 circa): «il fascismo […] è azione. Il neofascista è fondamentalmente individualista, tende a filtrare la realtà attraverso se stesso…»;
– a p. 110 Tassinari cita gli atti elaborati da alcuni Pubblici Ministeri romani sul c.d. “spontaneismo armato”: «…lo spontaneismo armato si distingue per “l’odio per tutto ciò che è o appare borghese, il disprezzo per il razionalismo, il gusto estetico della lotta, la passione per le armi, la pratica della rapina, il mito della rivoluzione, il rifiuto del mondo occidentale e delle superpotenze…”»;
– a p. 105 parla direttamente Peppe Dimitri su Terza Posizione (organizzazione di cui è stato uno dei leader): “Nel nostro gruppo era fortissimo il senso della spiritualità. Oltre ai valori della socialità noi sentivamo la necessità di cercare una visione spirituale ed esistenziale diversa verso la realtà.»;
– a pp. 93-94 parla Tassinari, riferendosi al gruppo di EUR/Monteverde (tra cui i due Fioravanti, Alibrandi, Anselmi): “…la sfida inutile, il rischio superfluo, l’eccesso arricchiscono di significato l’azione. […] non si combatte il nemico ma la proiezione del proprio negativo in esso.»
http://www.amnesiavivace.it
Guerrieri. 1975/1982, storie di una generazione in nero
di Ugo Maria Tassinari
Immaginapoli, Napoli 2005
pagg. 292, euro 15
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