La storia dei figli di un mafioso.
di Rino Giacalone
La provincia è quella di Trapani. Quella dove Paolo Borsellino e Giovanni Falcone volevano rafforzare le strutture investigative per un semplice ragionamento: dicevano infatti che se a Palermo esisteva l’anima militare di Cosa Nostra, la cupola, a Trapani c’era ben altro, c’era la mafia infiltrata nell’economia, nelle impresa, nelle banche, dentro le istituzioni, e dunque pensavano che quel fenomeno andava in un qualche modo fermato.
Come è finita è risaputo. La mafia trapanese che un tempo sparava tanto quanto quella palermitana, oggi è sommersa, vive dentro le imprese, essa stessa è impresa, una volta faceva eleggere i politici, oggi elegge mafiosi destinati a presentarsi come politici, mafiosi dalle grandi possibilità imprenditoriali, manager del commercio e del cemento.
Comune denominatore lo stesso di sempre, Matteo Messina Denaro, il boss latitante dal 1993, quello che con l’ex fidato gioielliere Ciccio Geraci, ora pentito, si vantava che da solo aveva riempito un intero cimitero per i suoi morti ammazzati, adesso con le mani pulite dal sangue delle sue vittime, comprese quelle delle stragi mafiose del 1993 di Roma, Milano e Firenze, Matteo Messina Denaro guida la mafia che è diventata impresa, capace di intercettare quei fondi pubblici che arrivano in un provincia povera che invece di diventare ricca si ritrova ogni giorno sempre più povera nonostante i finanziamenti pubblici che arrivano in maniera ricca e copiosa. Per completare la descrizione di questo territorio non si possono non citare i tanti, sindaci compresi, che mostrano sottovalutazione al fenomeno: in provincia di Trapani c’è un paese del Belice, Campobello di Mazara, il paese dove era andato ad abitare il fratello del capo mafia latitante, Salvatore Messina Denaro, e dove facevano base i favoreggiatori del boss che smistavano i suoi “pizzini”, che secondo la prefettura va sciolto per inquinamento mafioso, rapporto che da due anni è fermo al Viminale, bloccato, congelato, non c’è nemmeno una rispondenza politica tra Governo nazionale e amministrazione locale, la Giunta è espressione di Pd e centrosinistra, ma questo non dice nulla in un territorio (provinciale) dove c’è molta trasversalità e dove da un giorno all’altro è possibile assistere a cambi di casacca di consiglieri, quasi si fosse al mercato delle vacche, dove la vicinanza alla mafia non ha colore politico, ma se un senatore del Pdl è finito indagato per la sua vicinanza anche con imprenditori di marca mafiosa, Tonino D’Alì, il sospetto ha sfiorato anche un senatore del Pd Nino Papania che aveva come giardinieri di casa due mafiosi, uno di questi molto attivista per il Pd.
A Trapani una volta dinanzi ai morti di mafia si diceva che la mafia non esisteva, oggi dopo una lunga sfilza di arrestati e condannati (ma tanti sono quelli che stanno uscendo dal carcere per fine pena) si dice che la mafia è sconfitta, in oltre 20 anni in pratica il concetto che si vuol far passare è lo stesso, “la mafia non esiste”. Per non parlare poi dei sindaci che sovvenzionano le manifestazioni per la legalità a condizione che non si parli di mafia e di Messina Denaro. Oppure delle cronache giornalistiche che occultano i processi “pesanti”, trattando come cosa normale il fatto che un imprenditore dal carcere possa permettersi di mandare messaggi a politici, senatori e prefetti, perché gli impegni presi prima del suo arresto, per far lavorare le proprie imprese, vengano mantenuti. Ecco la cronaca di questo processo è finita su due giornali, il resto dei mass media hanno posto la sordina, sarebbe stato imbarazzante parlare dei protagonisti di questa storia, ancora una volta si incrocia il senatore D’Alì, che però nega e si dichiara stupito del coinvolgimento, lo stesso senatore che ad un prefetto che voleva tutelare i beni confiscati andò a dire che stava facendo troppo il favoreggiatore dello Stato che gestiva quelle società. Sodano da oltre 5 anni attende da Trapani, città dove fece il prefetto la cittadinanza onoraria, negata dal sindaco Fazio, esponente Pdl.
Insomma in questo scenario è comprensibile, ma non dovrebbe trovare giustificazione alcuna, che ci si sente dire che tra la mafia e l’antimafia molti preferiscono stare in mezzo, come se l’antimafia fosse l’altra faccia del male, in questo territorio spesso si sente citare Sciascia e il suo articolo sui professionisti dell’antimafia ma spesso si dimenticano i morti ammazzati per mafia e la compassione spesso è dedicata ai familiari dei colpevoli di questi misfatti. E per questo diventa giustamente dirompente la lettera di tre ragazzi, giovani mazaresi, che la mafia hanno scoperto di averla avuta in casa, impersonata dal padre, Giuseppe Sucameli, oggi 62 anni, architetto, fino al maggio 2007 insospettabile capo dell’ufficio tecnico del Comune di Mazara. In quel mese di maggio fu arrestato dalla Squadra Mobile di Trapani, operazione “Blackout”, con altri si era dato da fare per aiutare la latitanza di due capi mafia nel frattempo arrestati, Natale Bonafede e Andrea Manciaracina. Lui intercettato durante questa indagine si scoprì essere non uno qualunque, ma uno che poteva sedere alla tavola dei summit affianco ai capi mafia più potenti della Sicilia, Totò Riina e Mariano Agate. Sucameli sconta oggi condanna a 25 anni per traffico internazionale di droga, circa 10 anni per avere aiutato i mafiosi a stare latitanti, 8 anni per avere avuto anche una “partecipazione” nell’affare dell’eolico, la costruzione di un impianto eolico alle porte di Mazara a suon di mazzette per politici e mafiosi. Insomma un pezzo di 90.
Una storia la sua finita in sordina, a Mazara pochi ne parlano, ed è come se a Sucameli vada garantito ancora rispetto, d’altra parte lui sarebbe finito dentro gli ambienti che contano, anche quelli della massoneria.
Ma il muro di gomma si è rotto. E per merito dei suoi figli. Un fatto che a Trapani non ha precedenti. Eccezion fatta per la storia di Rita Atria che nel verbale di un magistrato affidò le sue conoscenze sui segreti appresi dal padre ammazzato dalla mafia, o quelli di Piera Aiello, cognata di Rita,anche lei andata a testimoniare su chi aveva ucciso il marito. Ma di giovani che hanno preso carta e penna e parlare come diceva Peppino Impastato che la mafia è una montagna di merda e dentro questa mafia c’è anche loro padre del quale adesso non vogliono sapere più nulla, è una cosa che non ha precedenti. Anzi ci sono precedenti al contrario di figli che hanno rinnegato il padre per essersi pentito.
Ma adesso basta parole del cronista, è tempo di leggere quelle scritte da Francesco, Alessandro e Dario Sucameli. La loro lettera è stata pubblicata oggi in prima pagina sul quotidiano regionale La Sicilia, con molta evidenza, proprio perché quello che è stato scritto non è qualcosa di ordinario in una Sicilia che pesso cerca il riscatto a parole, i tre giovani Sucameli invece dalla parola passano ai fatti, e parlano ai loro coetanei e a tutti gli adulti. Probabilmente anche al loro genitore rinchiuso a scontare le condanne in un carcere lontano dalla Sicilia. La mafia è possibile sconfiggerla, loro ce lo dicono a chiare lettere:
“Oggi si compie il diciottesimo anniversario della morte di Paolo Borsellino.
In questo giorno decidiamo di onorare la sua memoria, quali figli di un imputato per mafia, testimoniando la nostra indignazione per lo scempio che del nostro nome ha fatto nostro padre e chiedendo scusa a quanti sono stati direttamente o indirettamente colpiti dalla sua azione criminosa.
Questo noi facciamo per dimostrare che la verità rende liberi; che l’amore e la testimonianza di uomini giusti sono in grado persino di rompere le barriere dell’omertà e il muro di quel marcio e malinteso senso dell’onore e della famiglia che tanto e tutto giustifica.
E in primo luogo chiediamo scusa ai cittadini mazaresi, quelli onesti, che ogni mattina sperimentano la fatica di una vita dignitosa, senza padroni né padrini.
Ecco, noi vogliamo dire a tutti che l’esempio di uomini come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci ha reso capaci di riconoscere ancora l’onore e la dignità vera di una vita vissuta onestamente, di superare l’equivoco della solidarietà familiare e chiamare le cose con il loro nome: mafia.
E scusate se con l’occasione vogliamo ricordare l’esempio di uomini miti e giusti, ma a voi tutti sconosciuti, quali sono stati i nostri nonni Francesco e Giuseppe che oggi non ci sono più e che rimangono il vero senso della nostra origine e che ci danno la forza di tenere la testa alta e di lottare per riabilitare il nostro nome.
Sappiamo, facendo questo, di rappresentare anche la voce di altri nostri cari, che per pudore mantengono il riserbo e che vivono in mestizia il dolore per tanta vergogna.
Chiediamo ancora scusa a tutti per lui: la mafia è solo una “montagna di merda”…anche quella che incontrate ogni giorno dentro il bar e sorridente vi invita a condividere un caffè, con quella sconvolgente normalità del male che avvolge la quotidianità della nostra terra.
Voglia essere questo il nostro piccolo contributo di testimonianza e di resistenza alla Sicilia onesta
Grazie Paolo, grazie Giovanni: gli unici uomini d’onore che riconosciamo.
Mazara, 19 luglio 2010
Francesco, Alessandro e Dario Sucameli
Dal sito di Nadia Furnari, associazione anoimafie Rita Atria – facebook