MEMENTO – 40anni fa è morto mio fratello
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MEMENTO – 40anni fa è morto mio fratello

“QUARANTA ANNI FA E’ MORTO MIO FRATELLO” , IL RICORDO DI MARCELLO DE ANGELIS DI QUEI GIORNI. ED ANCORA: MARGERITA BUI RICORDA IL SUO CAPO SCOUT E LUCA MANCONI  SOTTOLINEO’ IL VERGONOSE SILENZIO DEI GARANTISI SULLA VICENDA DEL PESTAGGIO DI NANNI.

Racconta la cronaca di quegli, di quei fatti, non è solo Memoria ma anche disegnare il clima di violenza di quegli anni e come lo Stato diventava giustiziere.

 

Scrive oggi Marcello de Angelis

Lo so, non è un granché come titolo.
Ma questo è. Quaranta anni sono molti. Io ne ho sessanta, quindi sono due terzi della mia vita, trascorsi con un ricordo fisso in mente che appare quando meno lo cerchi, quando stai per addormentarti o quando ti svegli all’improvviso. Il 5 ottobre del 1980 lo ricorderò per sempre, ogni minuto. Con chi ero, chi disse cosa, dove.
Possiamo solo dire che Nanni, a ventidue anni, quel giorno concluse il suo transito terrestre. Ognuno poi ci metta il suo.
Non ho mai accettato che mio fratello venisse considerato un eroe dei fumetti, un personaggio eccezionale: per me era e sarà sempre solo mio fratello.
Quando dopo dieci anni di esilio e tre di carcere tornai in circolazione, nel 1992, non mancava occasione che qualche sconosciuto mi dicesse: “tu forse non te lo ricorderai, ma io ero il miglior amico di tuo fratello Nanni…”.
La mitomania e lo sciacallaggio non hanno limiti.
Un giorno uno, che non avevo mai visto prima, mi disse: “tu non te lo puoi ricordare perché eri troppo piccolo…”. Non riuscii a trattenermi dal dirgli che in realtà ho poco più di un anno meno di Nanni e che abbiamo dormito tutta la vita nella stessa stanza, quindi era un tantino improbabile che io non mi ricordassi chi fosse il miglior amico di mio fratello… Lui nemmeno si scompose.
Forse Nanni morì ammazzato di botte dalla polizia.
Non può essere provato, ma le istituzioni fecero di tutto e senza esclusione di colpi perché non si svolgesse una vera indagine. Non voglio ripercorrere i dettagli del trattamento che subì e di come arrivò in carcere, ancora ho mal di stomaco a parlarne. Di certo è che, anni dopo, il patologo professor Umani Ronchi scrisse, a proposito della sua vicenda, che un suicidio per strangolamento è il modo più diffuso che si utilizza nelle carceri per dissimulare una morte per altre cause.
C’è poi la storia del suo coinvolgimento nella inchiesta per la strage di Bologna. Siamo davanti ad una vicenda ufficialmente lurida e squallida, eppure ci sono ancora giovani cronisti improvvisati istruiti su Wikipedia, troppo giovani anche solo per immaginare i tempi di cui stanno scrivendo, che improvvisano storie sulfuree buttandoci dentro il nome di mio fratello.
Perché non hanno rispetto di nulla. Forse solo per stupidità e presunzione.
Chi ordì il depistaggio che doveva addossare la strage a mio fratello dopo la sua morte, così che non si potesse difendere da un’infamante accusa, non ha un nome. Chi ordinò alla sedicente pentita Raffaella Furiozzi di fare il suo nome, per fortuna all’interno di un teorema che non resse 48 ore, nessuno ha mai cercato di scoprirlo. La magistratura se n’è totalmente disinteressata.
C’è un’altra vicenda in cui ricorre il nome di mio fratello ed è quella della morte di Valerio Verbano. Come tutte le vicende di cui non si è mai trovato il bandolo, sono convinto che anche in questo caso la verità non emerga perché ci si ostina a guardare in una direzione che qualcuno ha stabilito ignorando o occultando altri elementi. Come con la strage di Bologna e tanti altri “misteri” che misteri non sarebbero se qualcuno avesse indagato con gli occhi aperti e senza paraocchi ideologici.
Ma non spetta certo a me montare teorie, non è il mio mestire.
Il solo fatto certo e incortrovertibile, è che l’unico legame di Nanni con Valerio Verbano è stato il fatto di essere stato accoltellato alla schiena da quest’ultimo, con altri dieci o quindici, alla fermata dell’autobus.
Per un curioso artificio lui, vittima di un tentato omicidio, viene da quarantanni tirato fuori, di tanto in tanto, come se fosse ivece un sospetto criminale. Un’altra vicenda di cui fa male allo stomaco parlare.
Detto questo, solo per soddisfare le curiosità dei cultori della materia, non ho altro da dire. Solo che mi manca. Ma ormai mi mancano così tante altre persone che, paradossalmente, il dolore della sua perdita sembra minore. Più che essere attenuato, è confuso. Confuso con la mancanza di Giorgio, con il quotidiano struggimento per la morte di mio padre. E con quello per la perdita di tante altre persone che ho amato, che fa sembrare questo mondo sempre più vuoto.
Ma poi anche con la tenerezza le gioie, sempre nuove ma antiche, che provo vedendo i miei figli e i miei nipoti crescere, notando le somiglianze. A testimoniare che il sangue è forte ed è una catena dalla quale nessuno può sfuggire
Per fortuna. Gloria a Dio.
Marcello de Angelis

Testimonianze

 

Margherita Buy racconta il suo capo scout, Nanni De Angelis

Margherita Buy oggi è una delle più note attrici italiane. All’inizio degli anni Ottanta si affaccia al liceo, all’Azzarita. Conosce Nanni benissimo, da sempre: quando lui era capo scout, lei stava nel suo gruppo, da coccinella. Quando Margherita arriva alle superiori, ci trova molti ragazzi con cui aveva perso il contatto, e quasi non crede a quel che vede.

Del Nanni scout, per esempio, aveva un ricordo bellissimo: «Era uno che non abbandonava mai nessuno, molto affettuoso, sempre carino con tutti». Quello del liceo, invece, ai suoi occhi si comporta nel peggiore dei modi: «Aveva partecipato a un pestaggio contro gli studenti di sinistra e aveva materialmente picchiato il mio ragazzo dell’epoca, che era extraparlamentare». Ed è stranissimo vedere come i rapporti umani ti proteggano, nei momenti più duri, ma ti rendano anche più difficile capire le cose, per un istinto di reciproca tutela: «Io e Nanni abbiamo sempre continuato a incontrarci e a salutarci, con rispetto reciproco. Ma non riuscivo più a capire cosa fosse successo a lui, e agli altri: lo vedevo circondato da tipi che mi sembravano terribili, lo vedevo picchiare le persone». A Margherita, per capire cosa è successo nei tre anni che hanno cambiato la sua generazione manca un tassello del mosaico, una spiegazione che non le arriverà mai, non da Nanni. Lo stesso vincolo di amicizia che mantiene un livello di rispetto tra i due, infatti, impedisce anche loro di parlarsi seriamente:

Negli anni del mio liceo io vedevo lui, lui vedeva me, spesso i nostri sguardi si incontravano, talvolta scambiavamo qualche chiacchiera. Ma un vero dialogo no, quello non c’è stato. Credo che Nanni fosse rimasto un… «teorico», un militante ideale, uno che sicuramente preferiva parlare, piuttosto che fare a botte. Non era un assassino, un picchiatore, come la stragrande maggioranza di quelli che per me erano «i fascisti». Forse avrebbe desiderato un’altra strada, ma non l’ha trovata. Quando ho saputo quello che gli è successo ho sofferto, mi è dispiaciuto molto.

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FONTE: Luca TeleseCuori Neri, Sperling & Kupfer

5 ottobre 1980

Manconi rompe il silenzio dei garantisti sulla morte di Nanni

Nel libro “Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi”, Luigi Manconi e Valentina Calderone dedicano un intero capitolo a Nanni De Angelis, trovato impiccato a Rebibbia, il giorno dopo l’arresto e un brutale pestaggio in questura.

L’exerge è un verso di Massimo Morsello:

“Cosa importa se la morte te l’ha data un’altra mano o te la sei data tu”.
Il finale del capitolo sottolinea il vergognoso silenzio dei garantisti sulla vicenda di NanniNazareno De Angelis, detto Nanni, nasce a Roma il 31 luglio del 1958. Fin da piccolo, insieme al fratello Marcello, mostra un grande interesse per la politica. Inizia a militare nell’area dell’estrema destra italiana, diventando in breve il responsabile «militare» di Terza posizione della sua zona, il quartiere Trieste-Parioli. Tra i suoi amici più stretti, Massimiliano Taddeini e Luigi Ciavardini. Il secondo avrà un ruolo importante in questa storia.

Nel 1980 Ciavardini intraprende con maggiore determinazione la strada della lotta armata, entrando a far parte dei Nuclei armati rivoluzionari. Il 28 maggio 1980 compie, con alcuni militanti dei Nar tra cui Valerio Fioravanti, un’azione ai danni di una pattuglia di poliziotti in borghese in servizio davanti al liceo romano Giulio Cesare, teatro, in questi anni, di molti scontri tra opposti gruppi politici. Il progetto dei Nar è quello di impadronirsi delle armi dei poliziotti, ma la situazione precipita rapidamente. In macchina ci sono due agenti. Un terzo è fuori, ma i neofascisti se ne accorgono troppo tardi. Perdono il controllo della situazione e iniziano a sparare. Uno dei poliziotti all’interno della vettura viene crivellato di colpi. Si chiama Francesco Evangelista, detto «Serpico», ed è ritenuto uno dei migliori poliziotti della questura di Roma. Morirà poco dopo.

Ciavardini e Fioravanti si avvicinano alla macchina per impadronirsi della mitraglietta che si trova all’interno. Fioravanti spara altri colpi e una delle pallottole di rimbalzo colpisce Ciavardini al volto. Questi, gravemente ferito, scappa in motorino, cade dopo pochi metri e ferma un taxi che lo riporterà a casa. Il giorno dopo, però, il tassista fornisce alla questura l’identikit e l’indirizzo di Ciavardini, il quale, prudentemente, si è già dato alla latitanza. Non può usufruire di una rete di appoggio e, dunque, si affida agli amici di sempre, Taddeini e De Angelis.

Anche quest’ultimo nel frattempo si è reso latitante, perché ricercato per «associazione sovversiva»: e tuttavia non si sottrae alla richiesta d’aiuto proveniente da Ciavardini. Prima progettano insieme la fuga all’estero, poi Ciavardini convince De Angelis a restare a Roma. Ha un amico che può aiutarli a nascondersi.

L’appuntamento è per il 4 ottobre, in via Nazionale. Ciavardini vorrebbe andarci da solo. De Angelis tuttavia ottiene di accompagnarlo. Nel luogo dell’incontro però trovano i poliziotti ad aspettarli. De Angelis prova a scappare, viene inseguito, raggiunto e messo a terra. Qui avviene un violento pestaggio: De Angelis è scambiato per Ciavardini e, al suo posto, subisce l’ira dei poliziotti per l’omicidio di Francesco Evangelista. In caserma riceve lo stesso trattamento.

Secondo la testimonianza di Ciavardini, al loro arrivo trovano due file di poliziotti, prima in cortile e poi in corridoio. De Angelis viene fatto passare in mezzo a loro, subendo una lunga serie di colpi. È un massacro. Nel pomeriggio De Angelis viene portato all’ospedale San Giovanni, i sanitari lo ricoverano e indicano una prognosi di almeno sette giorni. Incredibilmente – e qui sta, con tutta probabilità, il passaggio cruciale della vicenda – il giorno dopo, 5 ottobre, De Angelis viene portato a Rebibbia e messo in isolamento. Dopo venti minuti viene trovato impiccato.

In Parlamento, nella risposta all’interrogazione del senatore Michele Marchio, il sottosegretario Angelo Sanza evidenzierà, forse suo malgrado, proprio quel punto essenziale: nonostante la disposizione medica del «ricovero in osservazione» presso l’ospedale San Giovanni, con una prognosi di sette giorni, De Angelis viene «dimesso nella tarda mattinata del 5».

Il trasferimento dall’ospedale al carcere di Rebibbia presenta ulteriori irregolarità. Inizialmente, la destinazione doveva essere il centro clinico di Regina Coeli, ma il percorso viene modificato; agli operatori del 118, poi, secondo la testimonianza dell’autista, non viene «consegnata alcuna certificazione medica, né copia della cartella clinica». Ma saranno i risultati dell’autopsia a evidenziare crudelmente quanto il corpo di De Angelis abbia patito e quanto sia rimasto profondamente segnato.

La descrizione del volto effettuata dai medici è eloquente: si parla di «aree escoriate di forma irregolare» ricoperte da «piccole croste ematiche e polvere bianca», «escoriazioni di centimetri due» che «si inseriscono in un’area ecchimotica» e altro ancora.

Ma il resto del corpo non viene risparmiato: ecchimosi di varia grandezza e colore sul torace, sulla schiena, escoriazioni sulle braccia, i gomiti, le gambe. La madre di De Angelis, la signora Rosa, sarà l’unica a vedere il corpo del figlio all’obitorio: «Era quasi irriconoscibile. Povero Nanni. Lo hanno massacrato».

Ma non sono solo i segni visibili sul corpo a indicare le sofferenze inflitte a De Angelis: «Interrogandosi sulle condizioni neurologiche» scrive Luca Telese in Cuori neri «i periti dell’autopsia spulciano anche nelle cartelle di ricovero immediatamente successive all’arresto: all’ospedale San Giovanni, due ore circa dopo il fatto, il paziente viene dichiarato “in stato di incoscienza”.

Si tratta di un punto estremamente importante, perché a nostro giudizio dovrebbe essere oggetto di un ulteriore approfondimento istruttorio. Quello stato, spiegano, sarebbe la prova “di uno stato di sofferenza del sistema nervoso centrale”».

Secondo il fratello, Marcello De Angelis, la commozione cerebrale, tanto più pericolosa perché in precedenza Nanni aveva già subito dei traumi – «l’ultimo sei mesi prima, durante una partita di rugby» –, viene totalmente sottovalutata e trascurata. E potrebbe essere questa la causa prima della morte. «L’ultima volta che hanno verificato la sua condizione in cella» racconta «erano le 17: era sdraiato sul letto, lo sguardo fisso. Tra quel momento e l’ora indicata come quella del decesso, sarebbero trascorsi appena venti minuti, nel corso dei quali Nanni avrebbe strappato un lenzuolo, lo avrebbe intrecciato per ricavarne un laccio e un cappio e ci si sarebbe impiccato. Ma la distanza tra il nodo e il pavimento, considerata l’altezza di mio fratello, è tale da presupporre che si sia dovuto buttare in ginocchio per rimanere soffocato. La famiglia apprenderà della morte di Nanni solo dal telegiornale della sera.

Nonostante il corpo martoriato indichi chiaramente che De Angelis abbia subito violenze, nonostante la cartella clinica del San Giovanni mostri le sue gravi condizioni (e indichi che De Angelis sarebbe dovuto rimanere sotto osservazione in ospedale), nessun approfondimento di indagine viene disposto. Quattro anni dopo, i due procedimenti originati dalla morte di De Angelis (l’uno per omicidio colposo, l’altro per lesioni gravi) vengono archiviati.

La vicenda dell’arresto, del ricovero, della reclusione e, infine, della morte di De Angelis richiama atti e comportamenti, meccanismi e procedure già descritti nelle pagine precedenti. Sembra riproporsi qualcosa di simile a una specie di «modello» di trattamento degli «individui pericolosi» da parte delle forze dell’ordine. De Angelis viene presentato come un pericolo pubblico da mettere nelle condizioni di non nuocere a qualunque costo e, se necessario, fino all’annichilimento.

D’altra parte, la sua figura si presenta come tra le meno dotate di difese e guarentigie: la riprovazione nei suoi confronti, anche in ragione dell’accusa falsamente mossagli di aver ucciso un poliziotto, è prevedibilmente accentuata dall’etichetta che motivatamente lo accompagna: quella di fascista. Si può dire, in altri termini, che – per quanto riguarda una quota significativa dell’opinione pubblica e del sistema mediatico – non vale per De Angelis e per quelli della sua parte quella sorta di «attenuante generica», per quanto raramente dichiarata e quasi mai ammessa, applicata nei confronti di coloro che a sinistra praticavano la «lotta armata». Ovvero il fatto di essere in qualche misura «compagni che sbagliano».

È quanto argomenterà saggiamente Leonardo Sciascia, citato da Luca Telese in Cuori neri, quando, in A futura memoria scriverà:

Fra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale, anche se si tratta di viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver preso le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente. Se fossero stati rampolli della sinistra da un pezzo mi sarei dato da fare per loro, avrei sottoscritto petizioni… Ma ahimè, appartengono alla destra, e allora, anche se intuisco che qualcosa non funziona, nei processi a cui sono sottoposti, non mi sento abbastanza sollecitato a indagare più a fondo.

Qui non si intende richiamare un’antica polemica sulle ambiguità culturali e politiche che si manifestarono a proposito delle origini del terrorismo di sinistra e a proposito delle aree di consenso intorno a esso. Si vuole piuttosto sottolineare come quelle ambiguità, diffuse in una certa mentalità e in alcuni segmenti del sistema mediatico, che funzionavano in qualche modo da schermo, ancorché assai fragile, per il terrorismo di sinistra, non valevano – certo non valevano in quella misura – per il terrorismo di destra.

Questo contribuì ad archiviare senza alcuna reale contestazione di natura politica o legale la morte di De Angelis.

Come si è detto l’autorità giudiziaria deciderà per il non luogo a procedere nei confronti degli agenti che hanno partecipato al suo arresto; e, per quanto riguarda la morte in carcere, non verrà svolta alcuna indagine approfondita e non verrà verificata alcuna responsabilità, nemmeno di omissione o negligenza.

Insomma, l’archiviazione giudiziaria e politica della morte di De Angelis risulta agevolata dal contesto in cui matura. La vittima appartiene all’area del neofascismo rivoluzionario: quello che ha rotto violentemente con la linea politica del Movimento sociale italiano (pur conservando qualche residua relazione con settori di esso), ritrovandosi isolato in una situazione di assoluta marginalità. Di fronte alla morte, così densa di aspetti contraddittori, di un giovane di 22 anni, a parte qualche rarissima eccezione (come quella, già ricordata, del senatore Marchio), non si ode, nella società italiana, alcuna voce garantista.

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8 Ottobre 2021

Autore:

redazione


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