Secondo appuntamento con i ricordi di Beppe Tovarish. Modernamente è la cassa continua di un Istituto di Credito. Fino a non molto tempo fa andavano forte le casse della biancheria, i contenitori dei corredi delle ragazze da matrimonio.
In passato e per secoli, fino agli anni Sessanta del secolo scorso era un grande contenitore in legno quasi sempre di castagno, di forma parallelepipeda a base rettangolare, fornito di piedi per tenerlo sollevato dal pavimento del locale alla prima elevazione delle case in cui era posizionato, talvolta in terra battuta, quasi sempre umido perchè addossato ad un terrapieno naturale.
La cascia era dotata di coperchio a cerniera e serratura artigianalmente realizzata.
Infatti serratura e chiavi erano fabbricati “a forgia” da maestri fabbri, la parte in legno da maestri falegnami.
Il legname veniva scelto con cura perchè doveva durare molti decenni o addirittura secoli.
Non esistendo le moderne seghe elettriche, i colossali tronchi di castagno segati sul posto con un attrezzo chiamato “u struncaturi” e fatti seccare per parecchio tempo.
U struncaturi era adoperato da due persone esperte al fine di tagliare con regolarità i tronchi evitando difetti e riducendo sprechi.
Chi possedeva una cascia, spesso la lasciava in eredità, ma durante la maggior parte della propria vita, vi conservava frumento, legumi, frutta secca, fichi secchi e il pane.
Costituiva infatti una utile dispensa.
“Cascia china (piena) e panza china (piena) fa cantare e non cammisa nova”.
Nel mondo contadino chi aveva la cascia ben fornita (piena) non pativa la fame, specie nel periodo invernale; nei centri urbani era un’altra storia.
Beppe Tovarish
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