In memoria di Samiel Woldeab, Habtom Abraham, Atobrahan Kansay e Metkel Mehari.
– di Corrado Speziale –
Il 14 luglio scorso, dalla nave umanitaria Phoenix, giunta in porto a Messina, sbarcarono 434 migranti, intercettati e portati a bordo mentre si trovavano nelle acque libiche. Durante il tentativo di traversata quattro di loro avevano perso la vita ed in mancanza di un tempestivo riconoscimento, una volta a bordo, vennero catalogati come “sconosciuti”. Così a Messina, assieme all’accoglienza dei profughi, si consumò il dramma per quei quattro corpi senza nome. Si trattava degli eritrei Samiel Woldeab, Habtom Abraham, Atobrahan Kansay e Metkel Mehari, alle cui identità si è potuto risalire nel corso di questi mesi grazie all’impegno di attivisti e ricercatori dell’associazione Migralab “A. Sayad” di Messina. Oggi, a quattro mesi esatti da quella tragedia, i quattro sfortunati migranti verranno ricordati e “riconosciuti” attraverso due eventi che si svolgeranno al cimitero monumentale di Messina e nella sede della Caritas diocesana.
Di seguito, il comunicato con il racconto di questa dolorosa vicenda e di tutto quanto sta dietro al drammatico esodo dall’Eritrea.
Il 15 novembre, Giornata della memoria e del riconoscimento di migranti eritrei: alle 11 nella saletta cimiteriale del cimitero monumentale e alle 16 incontro nel salone della Caritas Diocesana di Messina.
Affinché nessun migrante morto nel Mediterraneo rimanga “senza nome”: il caso degli eritrei Samiel Woldeab, Habtom Abraham, Atobrahan Kansay e Metkel Mehari in un momento di incontro e di commemorazione promosso da Caritas Diocesana e associazione Migralab “A. Sayad”. L’evento si svolgerà con la collaborazione dell’assessore Daniele Ialacqua che sarà anche presente alla cerimonia al cimitero.
Il documento della rete delle associazioni.
Per salutare Samiel Woldeab, Habtom Abraham, Atobrahan Kansay e Metkel Mehari ci incontreremo nel cimitero monumentale di Messina martedì 15 novembre dalle ore 11.00. Parteciperanno amici e parenti eritrei che verranno da altre città.
Nel pomeriggio alle 16.00 l’incontro promosso dall’associazione Migralab “A. Sayad” e dalla Caritas Diocesana di Messina, alla quale parteciperanno la Comunità di S.Egidio, Migrantes, attivisti eritrei, si svolgerà presso la sede della Caritas Diocesana di Via Emilia, 19.
All’incontro sono stati invitati operatori, attivisti, volontari per discutere sulle migrazioni dall’Eritrea. Saranno presenti amici e parenti dei giovani eritrei insieme al mediatore culturale Abraha Tewolde.
Ma partiamo dall’inizio.
È una domenica estiva come tante altre quando uno dei nostri cellulari squilla. A telefonare è un’amica dalla Sardegna che ci contatta per aiutare un giovane eritreo. Il giovane si è ormai stabilito in una città del nord ma continua a cercare amici e familiari scomparsi in uno dei tanti naufragi dell’ultimo periodo. Sin da subito il sospetto è che i suoi parenti siano tra i cadaveri giunti a Messina nello sbarco del 14 luglio 2016. In quella telefonata si addensa il dolore sordo di un’ennesima strage annunciata. Cerchi di immaginare le voci concitate di chi in quel viaggio non si è salvato. Provi a confrontarti con il dolore di chi ha perso di vista in quel naufragio il cugino o l’amico seduto accanto sul barcone. Vieni a sapere che su quella nave i soccorritori mettono nelle tasche dei pantaloni di ognuno di quei morti i nomi.
La diaspora eritrea in Italia sta cercando di rintracciare e dare identità ai morti eritrei che giungono negli sbarchi delle coste italiane. La gran parte degli sbarchi avviene in Sicilia. Anche Migralab A. Sayad con quella telefonata, in punta di piedi e timorosa, entra in quella diaspora.
Dopo una ricerca presso il cimitero di Messina, in cui le quattro salme sono custodite dal momento dello sbarco, scopriamo che sulle cartelle i quattro uomini venivano catalogati come “sconosciuti”.
Per l’associazione Migralab “A. Sayad” di Messina, composta da attivisti e ricercatori che studiano le migrazioni con l’approccio critico del sociologo Abdelmalek Sayad, era importante capire cosa era successo a quegli uomini fuggiti da un regime militare ed autoritario ed evitargli se possibile la “doppia pena”, cioè dopo aver subito da innocenti la pena di una morte assurda dover subire anche la pena dell’oblio e del rimanere dei “senza nome”.
Per raccogliere la richiesta di un giovane amico eritreo, arrabbiato e addolorato per i suoi connazionali giunti morti in Italia, e soprattutto grazie alla sua insistenza nel voler sapere chi sono quegli uomini, cerchiamo di capire come far superare quest’altra frontiera a quei corpi senza vita. Veniamo a sapere dell’apertura da parte della Procura della Repubblica di Messina di un’indagine sullo sbarco del 14 luglio per la presenza di scafisti. Successivamente scopriamo dalle carte cimiteriali che l’inchiesta è seguita dalla dott.ssa Stefania La Rosa della stessa Procura. Ad una richiesta ufficiale rivolta alla magistrata per conoscere le identità dei quattro corpi nelle bare, segue un periodo di attesa tra mille incertezze, visti i primi dinieghi. Chiedere e richiedere di conoscere le loro identità è stato un viaggio emozionale e carico di perplessità. Ci riusciremo trovando risposta alle istanze umanitarie provenienti dalla diaspora eritrea o ci scontreremo con una burocrazia kafkiana sorda e arroccata nel proprio castello di carte? Una domanda che ci siamo posti con angoscia finché una volta conclusasi l’inchiesta, la stessa magistrata, dott.ssa Stefania La Rosa, ha concesso all’associazione Migralab “A. Sayad” l’accesso agli atti per poter proseguire ad ottenere i dati richiesti, inviandoci alla questura di Messina-Squadra Mobile-II sezione.
Nel frattempo con stupore scopriamo che in realtà uno dei familiari era stato ospite in uno dei centri di primissima accoglienza di Messina. Sicuramente la sua condizione non gli ha permesso di reclamare quei corpi.
E proprio perché non è facile reclamarli o riconoscerli per le loro pessime condizioni, per noi si è aperta una pagina importante per la storia dei morti nel Mediterraneo, che spesso giungono nei cimiteri siciliani con un numero o addirittura con la dicitura di sconosciuti. In tanti, attivisti e giornalisti, da anni stiamo cercando di capire cosa succede e per questo ci sono anche dei ricercatori della Vrije University di Amsterdam, che dopo varie fasi di ricerca sui registri funebri di alcuni paesi mediterranei in cui arrivano molti morti annegati nel mar Mediterraneo, hanno chiesto all’Unione Europea di costituire un Osservatorio Europeo sulla morte dei migranti. Sui dati raccolti dai ricercatori in circa 500 registri funebri delle coste di approdo, si può leggere che dal 1990 al 2013 sono stati 3188 i cadaveri recuperati e di questi corpi circa il 65% è rimasto sconosciuto.
I fatti drammatici del 3 ottobre 2013 davanti alle coste di Lampedusa, in cui i tantissimi morti non hanno trovato la loro identità per mille difficoltà burocratiche o perché il loro stato fisico era deteriorato per poter consentire dei riconoscimenti, potevano segnare un punto di non ritorno per la coscienza collettiva europea. Questo a distanza di tre anni purtroppo possiamo dire che non si è verificato Certamente però lo strano silenzio del governo eritreo su quell’inaccettabile strage ha ulteriormente stimolato tanti attivisti e ricercatori nel fare luce su questo esodo straordinario dall’Eritrea.
Nei fatti la morte di uomini e donne eritrei in quel naufragio segna uno spartiacque nella narrazione delle migrazioni e ci fa soffermare sul fatto che subito dopo quella tragica notte in cui morirono anche molti siriani, l’Europa aprì le porte ai siriani, glissando sugli eritrei morti in massa in tanti altri tragici naufragi.
Eppure attualmente sono gli eritrei a costituire quasi il 30% degli arrivi nelle coste siciliane e calabresi. Nessuno ne parla, tranne alcuni autori e giornalisti che hanno iniziato a spiegare che gli eritrei scappano da una dittatura spietata, da uno Stato-Caserma instaurato dal presidente Isaias Afewerki, che nel 1993 guidò l’Eritrea verso l’indipendenza dopo un conflitto trentennale con l’Etiopia e per questo si guadagnò, e continua ancora oggi a goderne, stima e fiducia in Occidente.
Di Afewerki in realtà non si sa molto, in particolare della sua dittatura, anche se una commissione di inchiesta dell’ONU ha accusato l’Eritrea di violazione sistematica dei diritti umani. Quando si parla di migranti giunti nelle nostre coste, la narrazione dei media (tranne alcuni importanti servizi) è meccanicamente quella di parlare in maniera generica di migranti economici da sottoporre a superficiali e generiche identificazioni attraverso la pratica hotspot, considerata da Amnesty International una delle ultime lesioni e violazioni di diritti umani perpetrati dall’Italia.
Siamo di fronte a politiche migratorie che ci confermano sempre di più quanto bisogna fare i conti con una frontiera di silenzi e ostruzionismi. Ma narrare è il nostro compito e immaginiamo quel viaggio iniziato dal campo di Sawa e finito a Messina.
Da cosa scappano gli eritrei?
Da oltre un decennio gli eritrei scappano da uno “Stato-Caserma”. In questi ultimi dieci anni circa 400 mila eritrei sono scappati da un futuro di vita che per loro prevede la leva a tempo indeterminato. Dall’età di 17 anni sia uomini che donne vengono arruolati per entrare nel campo di Sawa, dove le condizioni per le reclute sono invivibili. Dalle storie che sono state raccolte in questi anni, sia le donne sia gli uomini se rimangono in Eritrea rischiano di restare imbrigliati nel sistema panottico dello Stato-Caserma istituito da Afewerki. Quanti possono sopravvivere in un campo in cui le condizioni sono quelle di stare in celle irraggiungibili sia dagli uomini che dalla luce del giorno?
Da questo paese del Corno d’Africa provenivano le oltre 360 vittime del naufragio dell’ottobre 2013 davanti alle coste lampedusane. Già in quel tragico momento andava acceso un dibattito in Italia e nel resto dell’Europa per capire le cause di questa fuga di massa. Sarebbe emerso che in Eritrea non c’è scampo: o fuggi o muori languendo in un sistema governativo basato su un servizio militare a vita. Eppure questo regime autoritario continua ad accrescere il suo potere anche grazie alla complicità e agli aiuti dei paesi occidentali convinti così di bloccare eventuali nuove partenze.
Le morti nel Mediterraneo ormai non si possono considerare conseguenze inattese di incidenti ma un vero e proprio genocidio. In ogni sbarco arriva una percentuale di morti sempre più alta. A sentire i numeri snocciolati dai media sono tra i 10 e i venti morti al giorno. E’ un genocidio perpetrato sotto gli occhi di tutti.
A Samiel Woldeab di anni 16 circa (come riportato nel documento della squadra mobile), a Habtom Abraham di anni 23 (circa), a Atobrahan Kansay di anni 40 (circa) e a Metkel Mehari di anni 17 (circa), va il nostro affetto. Non siamo riusciti a conoscerli, a vedere i loro volti. Ma li vogliamo commemorare. Vogliamo lasciarli dormire in pace nella città di Messina con la loro identità e la loro storia di origine che è quella drammatica di tutti gli eritrei che finora sono riusciti a scappare dallo Stato-Caserma di Afewerki e hanno superato una traversata che per non contare più morti si dovrebbe trasformare in un corridoio umanitario.
Non si può più oscurare la morte dei migranti nel più grande cimitero del mondo: il mar Mediterraneo. Bisogna invece illuminare tutti questi avvenimenti per raccontare la complessità contemporanea dei paesi coloniali e il ruolo dell’Europa in questo genocidio.
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