di Giovanni Scaletta
Novecento Sacro in Sicilia – Albergo dei Poveri di Palermo dall’1 ottobre al 7 novembre 2010.
La riflessione che attraversa come un filo rosso tutto il novecento si incentra sull’essere stesso dell’uomo e sulla natura della sua umanità. Che cosa è l’uomo? E’ questa la domanda che, in maniera esplicita, spesso in modo indiretto, l’uomo del novecento si pone. E’ indubbio che il secolo breve con la nascita e la fine dei totalitarismi e delle ideologie si caratterizza per portare alle sue estreme conseguenze la marginalizzazione dell’uomo da se stesso. Travolto dagli orrori e dai patimenti delle guerre e delle dittature, egli deve fare i conti con il male assoluto che si insedia in modo permanente nella sua vita personale e collettiva.
L’uomo del novecento si autorappresenta ora come una domanda aperta, come tensione infinita, come apertura al mondo, come essere in ricerca per dare significato al proprio vivere e al proprio morire, ora come essere confinato nel nulla e nell’assurdo, ora come compagno di viaggio verso la compassione con altri uomini destinati alla sofferenza e alla marginalità.
In questo contesto l’uomo siciliano, icona di secolari ibridazioni storiche e culturali, si autocomprende come enigma oscillante tra mito e fede, impertinenza e sottomissione, diffidenza e desiderio, barbarie e redenzione. Nello svelarsi e nascondersi, assume, per così dire, le sembianze di un dio o di un semidio, i cui opposti si tengono e si nutrono a vicenda.
Gli artisti siciliani, inquieti cantori di bellezza, storia e mito, individuano come esperti scopritori le tracce della presenza ulteriore e misteriosa dell’enigma umano che rimanda al sacro, ai suoi spazi, alle sue rappresentazioni, alla sua scrittura. Il loro mondo poetico nasce come ispirazione da una terra primigenia, satura di vita e di morte, che si incontra e si impasta con il mondo del credere e dello sperare.
L’incontro con il cristianesimo avviene con l’uomo dei dolori e con il nazareno inchiodato al palo della croce.
Un Cristo carnale, scomodo ed autentico, che va incontro alla morte con la mitezza e la rassegnazione del giusto. Il Cristo siciliano è un Cristo che fatica a risorgere. E la fede è condensata tra le tenebre, la sconfitta del venerdì santo e la muta attesa del sabato. Così la sua pasqua si nutre del tarlo della morte e la speranza di una redenzione è grido ed interrogativo per squarciare i cieli, rompere il velo che avvolge il futuro, dare forza ad una pigra luce.
Intrepidi narratori, gli artisti siciliani – ora con sguardo impietoso e crudo, ora con durezza materica ora con trasfigurato lirismo – sono, in questo tempo di dissoluzione e di crisi, compagni di viaggio dell’umano pellegrinare, protagonisti di riscatto sociale, anticipatori di un’aurora che stenta a crescere.