Caro Presidente,
nella mia qualità di appartenente all’MPA, sento il bisogno di chiedere un confronto urgente di ampia portata sull’evoluzione del nostro Movimento. La rilevanza istituzionale e politica assunta dal MPA impone di aprire un approfondimento dialettico che veda una ampia partecipazione, specie di esterni, volto a garantire un dibattito reale con i tanti che ci hanno votato e con organizzazioni e movimenti, portato avanti in maniera schietta, senza timori reverenziali, senza interessi particolari, senza interventi stimolati e guidati.
Credo che non serva nascondere il profondo disagio presente tra i nostri militanti e tra i nostri elettori e la diffusa consapevolezza dei rischi che la nostra Organizzazione corre davanti ad ipotesi di cambiamenti improvvisi e in contraddizione con la nostra storia.
La stessa proposta di cambio di nome, se non accompagnato da una profonda revisione dell’attuale modello organizzativo e da una proposta politica coerente, rischia di non avere altro significato che quello di tentare un rilancio di un soggetto ormai debole. Non è, infatti, possibile pensare al cambiamento del nome come se si trattasse di una campagna pubblicitaria di un prodotto qualsiasi.
Allo stesso modo proporre di mettere a capo del partito un intellettuale di sinistra (Camilleri, Saviano) prefigura scelte assunte fuori dai processi democratici interni e verosimilmente non condivise dal nostro popolo notoriamente di ispirazione moderata. Sarebbe un po’ come se a capo del FLI fosse stato nominato, al posto di Fini e Bocchino, Umberto Eco o Violante.
Sulla scena politica, come insegna la storia dei partiti degli ultimi vent’anni, i cambiamenti di nome sono stati il risultato di profondi cambiamenti di indirizzo politico, di organizzazione, di scenario istituzionale, di identità.
Ed è proprio intorno al problema dell’identità politica e degli obiettivi strategici che dobbiamo confrontarci, con la consapevolezza che, a causa di nostre responsabilità, altri stanno già occupando, con sigle e proposte, gli spazi politici che avevamo individuato.
È un vero peccato!
In questi anni, il nostro progetto aveva avuto forti capacità attrattive. L’intuizione di insistere sui sentimenti e sulle aspirazioni meridionaliste nostre e dell’elettorato del Sud rappresentava una grande innovazione. Purtroppo, ci siamo fatti superare dai fatti e dalle iniziative di coloro che stanno reinterpretando il nostro progetto, riproponendolo e gestendolo a modo loro.
In aggiunta, e con una serie di ripetuti e poco comprensibili strappi, ci siamo messi sulla difficile strada del cambio di alleanze, perdendo i vantaggi della partecipazione alle responsabilità e ai meriti della maggioranza nazionale e a un’esperienza di governo che avevamo contribuito a costruire. Allo stesso modo, un governo regionale condizionato e di sterile opposizione a livello nazionale, alla lunga, rischia di condurci fuori dai circuiti reali delle decisioni e del dialogo con l’elettorato.
Siamo certi che si possa costruire una grande forza muovendo da posizioni così difficili?
Voglio aggiungere alcune altre considerazioni per evidenziare quelli che considero gravi errori di prospettiva.
Credo che le alleanze con la sinistra siano, non siano solamente considerate impercorribili dalla maggioranza del nostro elettorato, ma siano peraltro anche difficilmente applicabili sul territorio. Pensare che basti proporre nuove alleanze per vederle ripercuotere sul piano locale, dimostra ingenuità e superficialità. Per decenni in ciascuna realtà locale, la lotta e la partecipazione politica sono state giocate su schemi solo in parte ideologici, in realtà espressione genuina di conflitti, di tensioni, di simpatie e antipatie originate anche da specifici ambienti sociali. Spesso scelte di diverso orientamento politico sono state il risultato, e contemporaneamente il prodotto, di contrapposizioni, di conflitti (anche familiari), di confronti di mentalità che interpretavano anche le posizioni ufficiali della politica.
Non sapremo mai con precisione se i conflitti sono tra Guelfi e Ghibellini o tra Montecchi e Capuleti. Tanto intenso e pervasivo è il conflitto di interessi reali e particolari che agita le realtà locali. Sarebbe un errore grave, però, sottovalutare le radici profonde di queste situazioni e pretendere di rimescolare le carte con un semplice ordine dall’alto. Non otterremmo risultati e verremmo travolti dalla realtà.
Altro grave errore sarebbe sottovalutare l’immagine negativa che la nostra inesistente vita democratica interna consegna agli elettori.
Coloro che hanno avuto esperienza di vita politica ai tempi dei grandi partiti possono ancora ricordarne l’intensa e reale democraticità. Il conflitto interno e i percorsi di mediazione e conciliazione erano sotto gli occhi di tutti e consentivano di leggere nell’immagine della vita di partito la proposta reale di democrazia che veniva trasmessa alla società e alle istituzioni.
Chi, come noi, ha vissuto quelle esperienze ricorda, con un certo rimpianto, i tempi nei quali proposte, lotte, composizioni avvenivano sotto gli occhi di tutti. Allo stesso modo, erano evidenti e trasparenti i processi di ricomposizione e di formazione di nuovi indirizzi. Uomini politici di grande peso e carisma guidavano il confronto accettando i risultati in un quadro di testimonianza della tutela dell’interesse generale e di valorizzazione di specifici e legittimi interessi sociali ed economici.
Nella vecchia D.C., ad esempio, ci si scontrava duramente, si determinavano posizioni che contribuivano alla formazione dell’indirizzo politico generale, ma, sempre e comunque, permaneva il messaggio del rispetto per la personalità di ciascuno e della condivisione dei valori fondamentali della società e dello Stato. La maggioranza reggeva il partito, rispettando la minoranza e i rapporti con gli altri partiti.
Quando la linea non riscuoteva più il consenso del Paese, la maggioranza ne traeva le logiche conseguenze, nel rispetto delle regole e della serietà. Era normale, che i Segretari si dimettessero quando i risultati non erano quelli auspicati. Non era un dramma per nessuno e si continuava a lavorare, a confrontarsi, a misurarsi con nuovi progetti e nuove alleanze. Forse dovremmo prendere più esempio da quella storia.
Altro errore mi sembra proporre una forma di organizzazione politica basata su partiti regionali che assumono ognuno le proprie scelte e che potrebbero quindi assumere posizioni diverse a macchia di leopardo.
Anziché un partito del Sud avremmo tanti partiti regionali (quasi nazionali su scala ridotta), senza risolvere i conflitti interni, senza pensare alla complessità dell’interesse nazionale e senza rendersi conto del rischio schizofrenico di costruire diverse maggioranze su diversi territori.
Forse sarebbe meglio e necessario riflettere approfonditamente, rileggere con attenzione le tensioni sociali, rendersi conto che i tentativi di accentuazione regionalistica fanno precipitare verso forme di federalismo esasperato delle quali non si avverte alcun bisogno, correndo il rischio di andare contro la storia e di costituire un partito siciliano indipendentista anziché un partito meridionalista con forte vocazione all’interesse nazionale.
Queste le mie critiche e le mie osservazioni.
Concludo con una domanda e una richiesta che non credo possano venire eluse.
La domanda è: Chi ha deciso? Chi ha deciso il cambio di alleanze? Chi ha deciso di dire no alle proposte di costruire il Partito del Sud con altri gruppi che lo avevano proposto? E soprattutto chi ha deciso di sciogliere il Movimento per le Autonomie per costruire un soggetto indefinito e del quale non si conoscono regole interne e progetto politico?
La richiesta invece è che si tenga una grande Consultazione del popolo del MPA per decidere democraticamente quali alleanze e quale percorso dovrà realizzare il Partito nella prossima stagione politica.
on. Ferdinando Latteri
Deputato nazionale MPA