di
Ferdinando Latteri –
La vicenda politica in corso, a prescindere dai suoi eventuali esiti, evidenzia una situazione particolarmente delicata e mette a nudo, in tutta la sua profondità la crisi dei sistemi di rappresentanza dell’attuale modello.
Da più parti, si lamenta mancanza di “senso dello Stato”. Non è facile, tuttavia, cogliere le ragioni profonde del disagio, cogliere la vera patologia, al di là dei semplici sintomi. Bisogna capire, infatti, cosa significa “senso dello Stato” e come si può tentare di ricostruirne le fondamenta. Sbaglierebbe gravemente chi si fermasse alla mera constatazione di pur gravi disordini morali.
La mancanza di “senso dello Stato” è l’espressione di una crisi di valori istituzionali, di reale coscienza democratica, di forti e radicate relazioni fra le varie sedi di formazione dell’indirizzo politico e della cooperazione civica, che dovrebbero costituire il fondamento della Repubblica, richiamata all’art. 1 della Costituzione.
La dequalificazione dei toni che caratterizza lo scontro e lo fa precipitare fino all’insulto personale e al coinvolgimento del “privato”, è il risultato di un impoverimento culturale dei gruppi dirigenti, dovuto a un processo di selezione sempre più circoscritto a scelte di palazzo o di piccola cerchia di corte.
I processi di formazione dei gruppi dirigenti, che avevano caratterizzato la prima fase dell’età repubblicana, si sono bloccati determinando il vero male profondo dell’attuale sistema. La crisi, originatasi negli anni ottanta, trovò la sua consacrazione nel trionfo dei movimenti referendari, populisti e filo-maggioritari dell’inizio degli anni novanta.
In quegli anni si manifestarono due processi politico-istituzionali convergenti. Da una parte, si sviluppavano i tentativi di lottare la degenerazione clientelare della democrazia; dall’altra, si affermava il diffuso convincimento della necessità di favorire processi di democrazia diretta. Entrambi spingevano verso la destrutturazione dei partiti, senza che i protagonisti si rendessero conto che i tentativi di riforma elettorale avviati avrebbero determinato danni peggiori dei mali che volevano contrastare.
In assenza di una rete di istituzioni di partecipazione diffusa (associazionismo, partiti, volontariato) e di autonomie reali, si è formato un modello verticistico, trasversale a tutte le posizioni, che tenta di ridurre il confronto a scontro per l’appropriazione della “sala dei bottoni”, come pure teorizzava qualche autorevole giurista politico già ai primi anni ottanta.
La situazione attuale è talmente paradossale che la Corte Costituzionale, con una recentissima presa di posizione, davanti all’esautoramento degli organi territoriali di un partito da parte dei vertici, pur non potendo decidere per ragioni di competenza, non ha potuto fare a meno di segnalare le difficoltà di instaurazione di una corretta dialettica democratica in assenza di qualunque regola di raccordo fra funzione dei partiti e sistema elettorale.
Non ci si meraviglierà di constatare che quei partiti, proprio in quell’area territoriale, sono in profonda crisi, anche con riflessi di rilievo nazionale.
In questo quadro è dunque difficile immaginare che un sistema di oligarchie sempre più ristretto possa cogliere il “senso dello Stato”. Lo dovrebbe fare per “illuminazione” e non per effetto dei processi di legittimazione democratica, che il Legislatore Costituente aveva immaginato come fondamento della Repubblica e dell’esercizio della sovranità da parte del Popolo, che ne è l’unico legittimo detentore.
È necessario tornare a cercare il “senso dello Stato” con una riflessione seria e profonda sullo stesso significato del termine Stato.
Forse, si dovrebbe dire che è necessario riaffermare, in primo luogo, che lo Stato è una realtà più larga e più importante della semplice aggregazione di alcuni organi centrali di potere: è un sistema di istituzioni e di poteri al servizio della società.
Correggendo le tendenze negative che si sono diffuse, si deve evitare di confondere lo Stato con gli interessi personali delle oligarchie e si deve sviluppare, invece, il senso dei valori fondamentali che la Costituzione ha posto alla base della convivenza civile e democratica.
Popolo, sovranità, lavoro, che la Costituzione individua come pilastri della Repubblica, devono essere i veri attori della ricostruzione dello Stato, dell’identità nazionale, del senso di appartenenza, dell’etica dei doveri e delle responsabilità che da valore ai diritti.
Attorno a tali valori sarà possibile costruire, mattone dopo mattone, l’edificio dello Stato, come res publica, bene comune alla cui realizzazione dobbiamo concorrere tutti.