scritto da Marco Molendini per il messaggero.it
Il più raro dei nostri cantautori non ama i riflettori.
Ama la tranquillità della sua Asti, le luci scure di scena.
Così ha quasi l’aria smarrita nell’essere praticamente assalito in una di quelle occasioni in cui non si può dire di no.
“E’ un cane di una bellezza stratosferica che due anni fa se ne é andato.
Un pastore francese che io inseguivo tutto il giorno per guardarlo. Ma di notte, quando di solito mi siedo al piano per suonare, era lui che mi inseguiva, si siedeva ai miei piedi ed era pronto ad alzarsi quando sentiva le note, sempre quelle, sono un abitudinario, con cui chiudevo le mie performance casalinghe. Aveva un grandissimo orecchio musicale. Adesso ho un altro cane che si chiama Orazio. A Nelson però ho voluto dedicare questo disco”.
Nelson e una dedica senza musica ma con l’onore della copertina del cd dove il pastore francese campeggia tutto nero, dipinto dal suo padrone cantautore.(Paolo Conte ha anche un “bastardino” che ha chiamato, ovviamente Orazio ndr).
Del resto che la pittura sia un’antica passione di Paolo è cosa nota.
La verità, però, è che ormai Conte ha affinato la sua tecnica di pittore al punto che le canzoni sono ormai schizzi.
Racconta Paolo a proposito, per esempio, dell’esotica escursione di Los amantes del mambo che “è scritta ed eseguita in spagnolo per adeguarmi meglio al sapore della musica”.
E, quanto a Suonno è tutt’o suonno, è un gioco verbale attorno alla parola “suonno” (che alle orecchie di un piemontese deve apparire esotica almeno quanto lo spagnolo): “A Napoli ogni volta che in pubblico mi sono avventurato con il napoletano ho chiesto le attenuanti. E, puntualmente, ogni volta c’era chi dalla platea rispondeva “concesse, avvocato”. Il pezzo, comunque, é lontano da ogni cliché napoletano, anzi ha una cadenza segretamente spagnoleggiante”.
La tavolozza del disco é ancora una volta ammaliante, piena dei luoghi immaginifici della letteratura contiana fra immagini che richiamano improbabili “galosce selvagge dall’instancabile andar”, “una massaggiatrice, pianista dalla nostalgia professionale e dietetica”, l’“esasperante languor di un’odalisca”, dediche personali, una all’umorista inglese Woodhouse, un’altra a un’orchestrina vagamente felliniana, un altro ancora a Manitou (C’est beau).
Non c’è il capolavoro in questo nuovo disco di Paolo Conte, ma forse non è più tempo di capolavori. Due anni fa quando presentò il disco precedente, Psiche, Paolo confessò di avvertire una certa stanchezza del comporre, oggi ammette: “Non mi dispiace contraddirmi. E’ vero, a volte, vorrei dirmi “basta, fai il pensionato” poi, invece, vado avanti. Mi viene voglia di scrivere, poi di registrare quello che ho scritto, poi di farlo sentire”.
Ed eccolo all’ultima fase, la promozione con tutto quello che comporta, dai premi (ieri quello del Fai e uno dei produttori musicali indipendenti), alla televisione con uno speciale di Mollica per il Tg1, un’intervista con Fabio Fazio che ha scelto una sua canzone per il programma con Roberto Saviano, Vieni via con me: “Non lo conosco, Saviano, ma so che è piuttosto pericolosamente impegnato”, confessa a conferma della sua idiosincrasia per l’attualità.
Anzi spiega che il disco è un invito a distaccarsi dalla barbarie del quotidiano. “Della realtà meglio non parlare – dice -. Ci sono battaglie perse in partenza contro certi modi di fare contro slealtà, cattiveria, volgarità, cattivo gusto, in generale e all’italiana”.
Al disco seguirà un viaggio che all’Italia per ora concede solo Milano (9-13 novembre) e Roma (30 novembre 4 dicembre all’Auditorium Conciliazione) il resto è Europa.
Ma già avverte Paolo Conte di queste canzoni nuove “dal vivo ce ne saranno pochissime. Nei concerti il pubblico celebra se stesso in una sorta di festa della nostalgia. Cosí non posso rinunciare ai miei classici»”
( Paolo Conte ha annunciato anche in una recente intervista a Mollica che farà una nuova edizione di “sotto le stele del jazz”, ancora più dolce ndr).
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