Oddio, a me sta cosa fa ‘n pochetto paura.

Sta cosa dei libri distillati, cioè. “Distillati, non riassunti”, dice lo slogan. Che io di distillata conoscevo solo la grappa, e nemmeno troppo bene.

Questa trovata di marketing che ci è scoppita addosso tra Natale e Capodanno, peggio dei botti proibiti di Napoli coi nomi dei calciatori. Due best sellers al mese, portati in edicola da Centauria, che promette di “ridurre le pagine, non il piacere”: tipo pubblicità dei preservativi, praticamente. E sterile uguale. Margaret Mazzantini e Stiegg Larson, Paolo Giordano e Dan Brown, Jon Green e Nicholas Sparks: chiunque abbia venduto un tot di copie finisce sotto la mannaia del distillatore. Via paragrafi e capitoli, via la metà delle pagine, via la metà del prezzo. Che sarà senz’altro una trovata economica pazzesca, ma a me fa salire il nazismo. Sì, ha ragione il nostro buon Camillo, che ritiene che da questa bagarre sui libri distillati si stia ricavando un ottimo distillato di banalità. Eppure io trovo che sia un gran segno dei tempi. Tempi in cui abbiamo superato il concetto di Bignami, e di facilitazione, e ci sembra normale prendere l’opera di un cervello e strapparne brandelli che stiano in tasca. Per comodità. Per banalità. Lo dice benissimo Antonio Manzini nel suo Sull’orlo del precipizio, pubblicato da Sellerio appena un mese fa (giuro, scrivo una Brioches quanto prima): sembrava una kafkiana fantascienza, e invece succede. Succede che la consapevolezza del bello – unica categoria esclusivamente umana, che fa dell’uomo ciò che è – si getta nell’utile. Nel facile. Scadendo forse non nel brutto, ma nel triste ammetterete di sì. Mi pare di risentire quella mia conoscente che mi disse di aver scelto un certo libro, da regalare, perché voleva un regalo importante, e questo libro era “grosso”. Non ricordava neanche il titolo, ma sapeva riprodurne la dimensione con le dita: perché questo contava. Svendere a peso le idee, un tanto al chilo: sarò qualunquista, signora mia, ma quanta mestizia.

E poi te lo immagini, tu, quel poveraccio di editor che – sicuro – per una miseria di compenso s’è dovuto mettere lì con l’evidenziatore come al liceo, a leggere e sottolineare tomi di letteratura nella vana ricerca dell’inessenziale?

Estenuante supplizio di Tantalo per lui, poraccio, dannoso quanto inutile: perché in letteratura, l’inessenziale, non c’è. Meglio: non esiste l’essenziale. Esiste l’opera, tutta, esiste la storia, tutta, ed esiste lo stile dell’autore.

Unico. Essenziale manco per niente, ma irripetibile. E immutabile. Come prendere l’Apollo e Dafne di Bernini e tagliar via le foglie e le dita, che tanto il concetto si capisce lo stesso. Come andare all’Alhambra di Granada e abbatterne la metà, ché occupa troppo spazio.

Un’idea barbara, fuori dal mondo. Eppure venderà.

Perché è una scusa. Sta storia che non si legge per mancanza di tempo è una bubbola, su.

Non si legge per un sacco di motivi, e il tempo è l’ultimo: se fosse davvero solo un problema di tempo i racconti brevi andrebbero a ruba. Ma è la scusa che usano tutti: e ciò che ne nascerà, da questa trovata, non sarà un nuovo esercito di lettori, ma certamente un esercito di compratori.

Quindi, la scommesse di dimezzare il tempo di lettura per favorire gli acquisti, non è un’idea così peregrina.
Ed è per questo che io la odio.

Sai qual è la fregatura?

Che ‘sti cosi, alla fine, andranno via come il pane.

E appena verranno diffusi i dati di vendita, quelli come me – e come te – si faranno il fegato marcio.

Altro che grappa.