PAOLO FRESU QUARTET – Al “Monk” di Catania quattro “tempi” in otto concerti da antologia
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PAOLO FRESU QUARTET – Al “Monk” di Catania quattro “tempi” in otto concerti da antologia

– di Corrado Speziale –

Il trombettista sardo è ritornato al jazz club catanese da grande protagonista con una maratona musicale straordinaria, articolata su quattro serate, ciascuna con un repertorio differente, con due set per data. Il suo trio, ormai ben consolidato sotto l’etichetta Tǔk Music, con Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso, è stato ampliato in quartetto con la batteria di Stefano Bagnoli. Il primo giorno è stato proposto “Tempo di Chet”, a seguire, “Tempo di Standards”, “Tempo di Canzoni” e in occasione della ricorrenza del 14 febbraio, “Tempo di San Valentino”. Otto esibizioni di straordinario successo, con repertori da antologia e platea sold out. Un segnale di ritorno a “tempi” di grande jazz dopo periodi di sofferenza.

Il jazz ai tempi di Paolo Fresu & del Monk di Catania. Un’autentica, potente macchina musicale che “si fa in quattro”, dove la forza della passione incontra e incrocia note, storie, affetti, aneddoti e avventure umane e artistiche. Un’operazione in cui il jazz, piuttosto di dividersi in quattro giornate, si è “moltiplicato” in otto concerti. Luogo d’incontro, dall’11 al 14 febbraio, è stato l’eccellente jazz club di via Scuto, nel cuore antico della città etnea. Paolo Fresu alla tromba, flicorno ed effetti, Dino Rubino al piano, Marco Bardoscia al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria, hanno entusiasmato nel segno della tradizione, dell’improvvisazione e al tempo stesso dell’empatia, in un ambiente amichevole e accogliente, dove il jazz si sente sulla pelle di chi lo ama prima ancora di elevarsi all’ascolto dei cultori più esigenti e raffinati.

“Tempo di Chet – La versione di Chet Baker”, ma non solo. Perché di “versioni” eccellenti dal repertorio evergreen d’oltreoceano se ne sono viste parecchie, ad iniziare da quelle di Miles Davis, leggenda del jazz, inseparabile ispiratore, maestro e ideale compagno di viaggio del trombettista di Berchidda.

“Tempo di Chet” è la selezione musicale del progetto su cui è stato inciso l’omonimo album per la Tǔk Music, creato per il teatro con la regia di Leo Muscato. L’opera, forte di oltre cento repliche in giro per l’Italia tra il 2018 e il 2019, con un successo strepitoso, narra le vicende umane e artistiche di Chet Baker, con la compresenza in scena del trio di musicisti insieme agli attori. Cosicché, nella prima serata catanese, il Monk ha vestito il ruolo del jazz club dov’erano ambientate le scene teatrali tratte dalla biografia tormentata, ma al tempo stesso ricca di umanità ed incommensurabile arte e poesia musicale del mitico trombettista di Yale. Con un’aggiunta non da poco: il trio si fa quartetto con l’eccezionale batteria di Stefano Bagnoli, presente nel progetto originario solo in due brani in sovraincisione.

Il secondo giorno, il vastissimo repertorio di Paolo Fresu ha portato alla rivisitazione di brani d’oltreoceano di cui è grande interprete: “Tempo di Standards”. Terzo giorno, omaggio a brani della tradizione italiana, settore cui Fresu ha da sempre dedicato molta attenzione artistica, essendo entrati, molti di essi, nel repertorio della tradizione jazz: “Tempo di Canzoni”. Infine, quarto “tempo” nell’ultima giornata con le “love songs”: “Tempo di San Valentino”. Tra i brani proposti vi erano canzoni che hanno fatto la storia della musica, molte delle quali rese famose anche attraverso la cinematografia.

Abbiamo seguito due delle otto sessioni, la terza e l’ottava, rispettivamente “standards” e “love songs”.

Sabato, il segnale è immediatamente tangibile: Con Eighty-One di Ron Carter, è già “tempo di Miles…” con annessi e connessi, in stile ed energia. Il suono circolare col flicorno da poco revisionato è il primo straordinario omaggio della serata, direttamente dalle virtù di Paolo Fresu. Altrettanto colmo di pregi, con tromba sordinata e flicorno finale, virtù pianistiche e ritmi sostenuti, sarà Bye Bye Blackbird, anch’esso di ispirazione davisiana. Sempre sull’onda del genio dell’Illinois, Darn That Dream, con taglio “cool”, rivela calore e intensità. Eccellente, ad un tratto, il dialogo Rubino – Bardoscia. Dear Old Stockholm, dalla tradizione svedese, l’avevamo già apprezzata nel tempo in duo, Paolo Fresu – Uri Caine. Stavolta è in ensemble con la coralità e lo spirito del quintetto di Davis, tra ritmo e qualità esaltanti con un interplay esemplare. Tra le tante “versioni” di Round Midnight c’è pure quella intrisa d’emozioni per un ricordo che lega indissolubilmente il trombettista sardo a Chet Baker all’epoca del Festival Jazz di Sanremo: è un jazz coinvolgente, frutto di un incontro ideale, che seduce il “Monk”, che prende il nome dall’autore di questo brano, tra più famosi di sempre del repertorio jazz. Il quartetto ne onora ed arricchisce la storia. Sul finire, la prima delle due sessioni “standards” offrirà anche una “perla” generalmente poco proposta nei concerti jazz: dal Brasile, Corcovado, firmata Jobim, un sound raffinato che poggia su sentimenti che traspaiono dal ricercato lavoro del quartetto con Stefano “Brushman” Bagnoli che adagia il tempo sulla leggerezza delle sue spazzole.

Lunedì, l’ultimo set dell’ultima serata, inizia con una “song” che ha segnato il passaggio di testimone da Cyndi Lauper a Miles Davis: fa sempre un grande effetto ascoltare Time after Time, nell’armonia e nello stile che hanno caratterizzato quel periodo in cui Miles Davis fu sedotto dal pop.

Da un’icona all’altra il passo è breve. Con Everything Happens To Me si ritorna al carisma di Chet, attraverso una versione colorata e ben articolata del brano. In sequenza, senza interruzione e a gran ritmo, con tanta energia, le note volano su But not for me e atterrano magnificamente e inaspettatamente su A Love Supreme, l’omaggio all’amore cosmico di John Coltrane: “Un inno universale che appartiene a tutti coloro che amano questa musica straordinaria che proviamo ad alimentare ogni giorno con la nostra passione”, è la riflessione di Paolo Fresu. Le tue mani, composto da Pino Spotti e reso famoso da Mina è l’altro brano particolarmente in tema con la serata: “Una metafora della passione e dell’amore attraverso l’utilizzo del nostro corpo”, spiega Fresu prima di regalare un’atmosfera unica attraverso questa ballad dal finale emozionante e visionario. Da qui, l’aggancio al ritmo e al tema trascinante di Nature Boy, che esalta le qualità artistiche e tecniche del quartetto. A seguire, Someday My Prince Will Come, nella versione di Miles Davis, ci riporta per alcuni tratti all’amore “da favola” di Biancaneve. Ma il pezzo in esteso assumerà mille altre forme e sfaccettature dentro una struttura variegata. Blue Room, nel finale, sarà un omaggio, un gesto romantico per Chet Baker, costituito dalla sua stessa, emozionante voce, così come mandata in teatro. L’ultimo brano è un salto nel passato con lo sguardo sulla contemporaneità: 1624, Si dolce è il tormento. Il brano di Monteverdi è una melodia bellissima e al tempo stesso una canzone d’amore struggente, vissuta nella sua interezza la sera di San Valentino.

“Ricorderemo queste quattro sere con particolare passione. Se ciò accade non è solo merito della musica ma anche di ciò che le gira intorno”, ha detto alla fine Paolo Fresu. “Quello che è mancato in questo periodo – ha aggiunto il trombettista – non è tanto la musica, perché ciascuno di noi ha continuato a sentirla e a farla per se stesso. È mancato, piuttosto, viverla stando insieme, che per noi è una ricchezza indescrivibile”.

Giuseppe Privitera, l’anima del Monk Jazz Club: “Sono stati quattro giorni impegnativi, ma siamo felicissimi d’aver ritrovato gli amici che vengono ad ascoltare i nostri concerti. È stata una grande maratona che ha visto otto concerti straordinari. La cosa particolare è che anche all’interno dello stesso spettacolo, tra primo e secondo set, con la stessa tematica, sono risultati due concerti completamente diversi. Tutti quanti bellissimi”.

18 Febbraio 2022

Autore:

redazione


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