Il mestiere più difficile al mondo? Essere brava! Più dell’astronauta, del medico, dell’ingegnere. Essere brava non te lo insegnano a scuola, non lo apprendi sui libri, non ha a che fare col talento. Bisogna sudare, e non solo in palestra. Disciplina, vocazione al sacrifico, etica della rinuncia e strategia della finzione. Proprio così, la finzione: apparire sempre perfette, sorridenti, smaglianti, composte, amorevoli, disponibili, accondiscendenti, piacevoli. Tutto per un unico fottutissimo scopo: sentirsi adeguate.
Nessuno saprà mai cosa si nasconde dietro un tacco 12, oltre la patina lucida di un trucco ben assestato, sotto un vestito che fascia un corpo strizzato all’inverosimile. Il corpo, appunto: l’involucro esteriore dentro cui si agita una materia esplosiva alimentata costantemente dal demone dell’inadeguatezza. E per tenerlo a bada non c’è scampo: serve un “corpo giusto”. Così, tra bisturi, botulino e continui tentativi di dimagrire, l’esercito delle donne ingaggia la sua quotidiana lotta nella ricerca di una bellezza esteriore che le faccia sentire accettate all’interno di una società che appare, sempre più, come la «terribile dittatrice di canoni estetici che contengono il pericoloso germe dell’etica».
È un tematica scottante, spesso scomoda per entrambi i sessi, quasi un tabù nell’era della mercificazione del corpo in cui il modello “velina” regna incontrastato. Complimenti, dunque, a Paride Acacia che con “Volevo essere brava”, spettacolo andato in scena giovedì allo Joppolo di Patti nell’ambito della rassegna “Scenanuda”, ha saputo scavare con intelligenza, lucidità e ironia dentro l’inaccessibile universo femminile. O meglio, dentro una sezione ben definita di esso: quella popolata dalle donne in costante competizione con se stesse e con la categoria delle “stronze magrissime”.
Helen, Bernice, Carmen, Tiffany, Dana, Carol e Nina (protagoniste dello scritto “Il Corpo Giusto” di Eve Ensler, da cui lo spettacolo di Acacia è liberamente tratto) rappresentano l’emanazione delle “imperfette”, di tutte quelle donne che non si sentono mai all’altezza delle aspettative di massa e che convivono giornalmente con la paura del rifiuto più grande: quello materno. Le sette donne si muovono sulla scena come soldatesse in guerra al ritmo di musica rock, in una sorta di palestra- lager dove tra vomito, rabbia e rivendicazioni si sottopongono a diete disumane e a ritocchi invasivi.
Applausi a scena aperta per Gabriella Cacia, Francesca Gambino, Elvira Ghirlanda, Laura Giannone, Rita Lauro, Anna Musicò, Giovanna Verdelli e Milena Bartolone, perfette interpreti di un testo anarchico e irriverente che prende di mira il corpo delle donne, sezionandolo alla luce della cultura capitalista ormai globalizzata. Fatta di diete, bisturi e botulino.
Foto (Domenico Genovese)
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