Prende così le mosse la nuova stagione teatrale del “Beniamino Joppolo” e lo fa con un’opera sorprendente, memorabile e complessa, “Puccini d’arte e d’amore”, intrisa d’una pluralità di letture difficilmente sintetizzabile all’interno di un articolo.
Non appena uscito dalla sala, la prima sensazione è stata quella di aver preso parte ad un mirabile crepuscolo, proiettato in una onirica, trasfigurata Toscana degli anni 20 nell’ora che volge il disio,che ai navicanti e ‘ntenerisce il core,citando il Sommo.
Opus crepuscolare dunque, magnum opus di Albertazzi, nel quale, al suono di un’immaginaria campana, anche le arie dell’ irresistibile maestro lucchese suonano come vespri, velati fra tessiture di pensieri, panneggi trasparenti nell’anticamere della memoria, che irrompono veementi, come ricordi; ricordi di donne e d’amori, d’amicizie e d’instanti, ora lievi ora gravi, accidenti fortunati e tormentati, tormentati umori, incompiuti propositi, incompiute opere, incompiuta vita… compiuti e straordinari destini.
Queste, in estrema sintesi, le parole chiave utili a decrittare la rappresentazione della vita e delle opere del “superuomo” Puccini-Albertazzi (o Albertazzi-Puccini, come più vi aggrada).
L’entità in scena non è il solito straripante, energico Giorgio Albertazzi. In scena non v’è infatti l’attore, l’anima, l’uomo Albertazzi, né il personaggio Puccini; c’è invece, come dicevo, un’entità nuova, la cui essenza è, per l’appunto,distillata dall’attore, dall’anima, dall’uomo e dal personaggio insieme. Nella lunga intervista che l’artista fiesolano ci ha rilasciato (a me e ad alcuni colleghi, e che proporremo integralmente a fondo pagina) appena prima dello spettacolo, egli ci dice: Io stavo pensando tempo fa al rapporto fra corpo e anima; c’è un periodo della vita ( qui comincia lo spettacolo ) che sembra che corpo ed anima vadano all’unisono e poi dopo c’è un momento in cui divorziano; corpo ed anima entrano in conflitto. Non so perché, questa riflessione mi ha fatto pensare a Puccini, agli ultimi anni, quando si ricovera a Bruxelles ( nell’ospedale in cui poi morirà ) e dice “speriamo ci siano delle belle infermiere almeno”. Poi un’altra rivelazione parecchio illuminante: il personaggio non esiste diciamoci la verità, smascheriamo questa cosa, sei tu o non ci sei.
In queste parole c’è tutto; ecco così svelarsi le radici profonde di uno spettacolo che ha per protagonista non un personaggio ma la narrazione del momento del divorzio fra anima e corpo – anime e corpi di Puccini e di Albertazzi beninteso, che, tuttavia, divengono universali, incarnando in sé quel momento del divorzio che chiunque dovrà affrontare; mi viene in mente il sermone di John Donne: “E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te”.
Allora, in questo quadro, Albertazzi è il fil rouge non fra sé stesso e Puccini ma di un conflitto eterno, insuperabile, quello appunto dell’anima e del corpo nel momento del divorzio, che lottano al contempo contro l’antagonista, anima e corpo “all’unisono”, personificato dalle figure femminili, ritratte, catturate ed impresse da Albertazzi nel momento in cui questa unità è perfetta. Emblematico e altamente drammatico il momento in cui il canuto artista rimira il corpo nudo, perfetto, quello sì energico, straripante, magnetico, misterioso miracolo, steso accanto a lui, della bellissima Emy Bergamo.
Sorrido perciò leggendo certe recriminazioni di colleghe che lamentano un preteso “necessario fasto”, che provano fastidio a vedere tenori e soprani celati dietro un velo. Penso che – riprendendo una parte dello spettacolo in cui si citano alcune critiche d’epoca rivolte a Puccini, in particolar modo quelle feroci contro la Boheme – questi colleghi abbiano preso una madornale cantonata, non comprendendo lo spirito profondo che muove “Puccini d’arte e d’amore”. Niente necessari fasti dunque; opera crepuscolare sì, ma assolutamente priva di decadentismo dannunziano, considerando anche la storica incompatibilità fra un D’Annunzio e un Puccini che mai riuscirono a collaborare, come testimonia il passo di una lettera dello stesso Puccini al grande librettista Illica che recita: “O meraviglia delle meraviglie! D’Annunzio mio librettista! Ma neanche per tutto l’oro del mondo. Troppa distillazione briaca e io voglio restare in gamba”.
Seducenti infine le interconnessioni, le contaminazioni incrociate fra i testi di Puccini, di Dante, di Leopardi, di Di Giacomo e dello stesso Albertazzi, materia questa che meriterebbe un articolo a parte.
Felici, come anticipato, le interpretazioni di Emy Bergamo (nel ruolo del soprano Rose Ader), di Stefania Masala (nel ruolo di Sybil Beddington) e di Giovanna Cappuccio ( nel ruolo della piccola domestica Doria Manfredi, morta suicida nel 1909). Immancabile pre-finale con“Nessun dorma” ( eseguito magistralmente dal tenore Jeon Sangyong) dell’incompiuta Turandot, e gran finale su “Liù poesia!” che scioglie tutti i nodi congedandoci così con un ultimo regalo, quello della rinnovata dimensione onirica, tanto cara a Puccini, che è in sostanza la dimensione stessa del teatro, che ci proietta in un mondo sognante ma paradossalmente più vivo del reale ( parafrasando un pensiero di Albertazzi ).
Da sottolineare anche l’emozione di Anna Ricciardi, del Sindaco di Patti Mauro Aquino e dei registi locali Stefano Molica e Peppino Bisagni nel dare il benvenuto al pubblico per questa intensa nuova stagione, avviatasi in grande stile con notevole sforzo delle persone sopra citate.
Di seguito le parole che Giorgio Albertazzi ha voluto regalarci in una conversazione coi giornalisti a tutto tondo, conversazione che ha tutta l’aria di un manifesto, se non di un testamento artistico vero e proprio:
Perché Puccini?
Eh beh, perché non Verdi! Puccini perché è un grande, veramente un genio straordinario. E’ l’inventore di un sacco di cose, del musical, del canto parlato e tutt’oggi credo che la Boheme sia l’opera più rappresentata del mondo. Io stavo pensando tempo fa al rapporto fra corpo e anima; c’è un periodo della vita ( qui comincia lo spettacolo ) che sembra che corpo ed anima vadano all’unisono e poi dopo c’è un momento in cui divorziano corpo ed anima, entrano in conflitto. Non so perché questa riflessione mi ha fatto pensare a Puccini, agli ultimi anni, quando si ricovera a Bruxelles ( nell’ospedale in cui poi morirà ) e dice “speriamo ci siano delle belle infermiere almeno”. Questo mi ha fatto pensare a Puccini e allora mi son detto che era interessante, allora ho scritto questo testo, poi abbiamo pensato di mettere queste musiche che sono meravigliose. Un gioco, una riflessione, non so. E’ da un po’ di tempo che io faccio queste cose, l’ho fatto con Picasso l’anno scorso, l’ho fatto con l’Imperatore Adriano, l’ho fatto con Giulio Cesare addirittura. Non rifuggo dal far bene il ruolo, mi fa un po’ ridere insomma, un attore si mette lì e fa i tic del personaggio, il personaggio non esiste diciamoci la verità, smascheriamo questa cosa, sei tu o non ci sei. Qui ci sono affinità con Puccini; c’è il fatto che siamo entrambi toscani, che entrambi abbiamo la presenza femminile come ispirazione continua. Ogni opera di Puccini corrisponde ad una donna della sua vita, non necessariamente una donna con la quale ha avuto rapporti sessuali, ma magari di amicizia, come ad esempio col personaggio che c’è qui che è S, che fa Stefania che è un inglese ricca, una musicologa, con la quale lui ebbe una corrispondenza molto frequente. Poi si è ritirata in ballo quella storia della ragazzina di Torre del Lago che si suicida. E’ stato fatto anche un film ma non si sa bene perché si sia suicidata. Lui però nella sua opera… la Liù della Turandot è un po’ il ritratto della Doria Manfredi. Secondo me lo spettacolo è nato in un certo modo, si è raffinato, si è precisato, adesso è mica male, è un gioiello curioso, tanto che io penso di prenderlo e portarlo a parigi.
Il rapporto di Albertazzi con la Sicilia.
Ora tutti gli attori ai quali si chiedono sempre queste cose, sempre dicono io amo e qua e là. Io veramente amo la Sicilia. Prima di tutto ho avuto dei trascorsi siciliani, Siracusa è il teatro dove quasi quasi ho debuttato, perché stavo con Salvini quando nessuno di voi era ancora nato, nel secolo scorso, poi sono stato direttore per cinque anni di Taormina Arte.
La donna siciliana! Da dove viene? Viene dal mare? E’ una sirena? Non so! Questa è un’altra cosa che mi affascina. Insomma, io, malgrado che rasento il secolo, però c’è ancora tempo, energia, mi piacerebbe tornare in sicilia.
Siracusa è molto bella, anche Palermo. Sono stato molto tempo a Palermo. Lì ho fatto Dante nelle piazze di Palermo, con lo stabile, c’era Carriglio, al Biondo. Era bello nelle piazze. Poi è venuto anche Benigni a fare Dante nelle piazze, però io l’ho fatto vent’anni prima. Le piazze piene di gente, perché è un poeta popolare Dante malgrato tutto, sembra difficile invece è diretto. Ho conosciuto Buttita, questo poeta siciliano; un tipo straordinario, nativo, naturale! Innazi a tia a menti si runchia! Una volta facevano un concorso di poesia e lui era presidente di questo concorso; allora c’erano questi giovani poeti che leggevano i versi per hobby e lui li giudicava. Un giovane si emozionò e lui gli ha detto “commu na vecchia mincha ti afflosciasti”
“Il vero titolo non sarebbe questo, però era un po’ complicato lo spreme. Io volevo intitolarlo Puccini e il canto parlato, perché la cosa fondamentale di Puccini, che lo diversifica da Verdi e da tutti gli altri musicisti, è che lui in realtà voleva che ogni parola fosse piana, gonfia di musica, però che il pubblico doveva avere l’impressione di una conversazione, che la gente parlasse; da lì ad arrivare al musical il passo è breve. Poi invece scelsi vissi d’arte e d’amore perché è il finale della Tosca. La musica entra dentro… eh beh, vedrete, è curiosa la cosa; sempre considerando che io non mi metto a fare Puccini, non mi interessa; lo racconto; però raccontandolo divento anche forse, in qualche momento Puccini. Poi approfitto del teatro per dire le mie cose, per dire che momento sto vivendo della mia vita, che momento è. Il tempo che vola; non fai a tempo a fare le cose. Io mi ricordo quand’ero ragazzo, certe volte a Firenze mi sembrava che l’estate non finisse mai, adesso l’estate non dura niente, tutto vola, tutto va via, perciò bisogna afferrare quello che c’è e l’arte è l’unico modo secondo me ( anche l’ironia, il riso, il sorriso ) per esorcizzare i tempi difficili in cui viviamo. Sono tempi difficili e duri che questi qui che non si risolvono con l’abbattersi troppo; bisogna cercare di reagire. Sapete che nei momenti difficili della storia ( in Europa per esempio durante i bombardamenti di Londra da parte dei V2 tedeschi e anche a Berlino ) i teatri erano pieni? E’ strano che il teatro riunisce nei momenti difficili. Questo è un mistero un po’, perché vanno lì? Perché ci sono le persone vive! E’ un mondo tutto finto in cui viviamo noi, tutto immagine; forse nel teatro c’è la persona, ci sono gli esseri viventi, c’è la sensazione di uno stare insieme in quel momento; sarà questo, è per questo che il teatro è immortale, che sia bello o brutto, perché purtroppo non può essere sempre bello. Teatro scolastico, accademico, un po’ noioso ce n’è tanto, però ogni tanto c’è qualcosa di vero, che ti lascia un’impressione sublime, che ti fa pensare che la serata non è sprecata”.