IL LIBRO NERO. IL RACCONTO DI PATTI, TRA FATTI E RICORDI SCRITTO DA ENZO RUSSO, CHE PARTE DAGLI ANNI SESSANTA. LO PUBBLICHEREMO IN PIU EPISODI UTILIZZANDO LE FOTO CONCESSE ALL’AUTORE DA DARIO LAGUIDARA.
Scrive l’Autore
Sono nato nel 1959 e cresciuto fino ai miei dieci anni in un quartiere. Sì, proprio così. Non sono cresciuto in una singola abitazione, ma nel mio quartiere che assomigliava più che altro a un grande condominio dove convivono parenti e amici che si conoscono tutti.
La città in cui sono nato, che domina uno spettacolare golfo sulla costa nord della Sicilia proprio di fronte alle isole Eolie, è attraversata e tagliata in due da una lunga strada che collega i due estremi delle periferie e che una volta rappresentava l’unica trafficatissima arteria, a doppio senso di circolazione lungo la tratta Messina-Palermo, da dove erano costretti a transitare tutti i veicoli compresi quelli pesanti. Solo dopo l’apertura dell’autostrada, che avvenne due anni prima che io prendessi la patente, si decongestionò un po’ il traffico e venne creato un senso unico.
Al centro della cittadina si trova la grande piazza principale con il monumento ai caduti da sempre chiamata “supra u ponti” perché anticamente sotto di essa scorreva un torrente che fu poi coperto. Venendo da ovest, lato Palermo, poco prima della piazza “supra u ponti” si apre sulla destra una piccola strada, Via Regina Elena, lunga non più di 80 metri, che inizia con tre scalini e che sale verso l’incantevole centro storico del quale è considerata la porta d’ingresso.
Il primo edificio che fa angolo sulla sinistra tra questa via e la strada principale era la casa della mia famiglia e il portone d’ingresso si trovava subito dopo i tre scalini. Al piano terra c’era il negozio di abbigliamento e di vendita di corredi di mia nonna che è stato per tantissimi anni il più conosciuto e apprezzato non solo a Patti, la mia città, ma anche nell’intero hinterland.
Ed inizia il racconto
Mia nonna riusciva a vendere un corredo a tutte le madri delle future spose, che lo iniziavano a pagare con piccole rate già da quando le figlie si facevano fidanzate ufficialmente. Le mamme a questo corredo commerciale aggiungevano stupende coperte fatte “all’uncinetto” o al “chiacchierino” che richiedevano a volte anni di lavoro, tovaglie da tavola che ricamavano a mano, asciugamani di lino per il bagno sempre ricamate o con bordi lavorati all’uncinetto con cotoni speciali. Mia nonna era rimasta vedova giovanissima quando mia madre, prima e ultima genita, aveva solo un anno e si era dedicata a questa attività con tutta se stessa ed era davvero un’artista in questo campo, dava consigli o addirittura faceva scuola a molte “cummari” e ha lasciato in eredità tanti di questi capolavori. Il corredo per la casa che vendeva mia nonna, con lenzuola e tovaglie da “tutti i giorni”, tovaglie ordinarie da tavola, numerosi asciugamani in cotone e teli da bagno, fazzoletti, una buona scorta di centrini, e tanto altro ancora era ritenuto indispensabile. E poi c’era sempre un magnifico regalo per chi comprava il corredo che quasi sempre era un piccolissimo ed inutile televisore portatile con due antenne allungabili e orientabili con cui non si riusciva a vedere nulla. Bisognava stare molto vicini e, dopo aver con fatica captato il segnale, bastava un piccolo movimento nella stanza per dover spostare le antenne. Di solito si teneva in cucina e la cosa migliore era che uno ci stesse accanto e impugnasse una delle antenne in modo da fare egli stesso da ponte. Ma, tuttavia, restava il regalo più ambito.
La mia casa aveva tre piani. Al primo abitava la sorella di mia nonna, signorina e maestra di scuola elementare, con una ciocca di capelli che formava un punto interrogativo rovesciato sulla fronte, un vezzo a quell’epoca, grandissima viaggiatrice grazie ad una associazione italiana di maestri di scuola elementare. La zia teneva in casa come soprammobili ricordi di tutti i suoi favolosi viaggi nei cinque continenti, ai quali era proibito avvicinarmi in quanto li avrei sicuramente rotti o danneggiati. Al secondo piano abitava la mia famiglia. La mia stanza che dividevo con mia sorella (mio fratello sarebbe nato in un’altra casa quando mia sorella e io avevamo rispettivamente 17 e 16 anni) stava tra la camera dei miei genitori e quella di mia nonna e di fronte c’era un piccolo bagno. L’ingresso si apriva su un saloncino con un divanetto, due poltroncine e la grande poltrona di mia nonna la quale nei freddi inverni teneva sempre tra i piedi “a conca” cioè un contenitore rotondo con la brace accesa per riscaldarci, il tutto era posto a semicerchio di fronte al televisore in bianco e nero che era un’enorme scatola più profonda che larga. Sulla destra una scala portava al terzo piano dove si trovava un piccolo saloncino, l’ampia cucina con accanto la sala da pranzo usata solo nelle grandi occasioni e nelle feste natalizie e infine un altro bagno. Sul lato che dava “supra u ponti” avevamo una grande e panoramica terrazza dalla quale si vedevano le Eolie e “a petra nto menzu u mari”, un grande scoglio posto al centro del golfo di Patti.
Quell’anno avrei compiuto otto anni nel mese di maggio e la sera dovevo ancora andare a letto subito dopo Carosello, tranne il sabato quando io e mia sorella potevamo rimanere a guardare la televisione insieme a tutta la famiglia, soprattutto nei mesi nei quali veniva trasmessa “Canzonissima” o il festival di Sanremo. Già da piccolo ero stonatissimo, ma fermamente convinto di voler fare il cantante da grande e il sabato sera, finita la trasmissione televisiva, si svolgeva una specie di gara canora tra me e mia sorella che, al contrario di me, era bravissima e intonatissima, capace di imitare e interpretare alla perfezione qualsiasi brano. Nella speranza di vincere almeno una volta e pensando che avrei potuto primeggiare nella resistenza grazie al mio fisico, in quelle occasioni tradivo il mio idolo Gianni Morandi e la sua “Non son degno di te” che aveva trionfato nella Canzonissima del 1965 e mi affidavo a “Granada” di Claudio Villa che vinse l’anno successivo. I miei genitori, mia nonna e mia zia erano la giuria. Volevo che prima si esibisse mia sorella che, come tutte le donne già furbissima e smaliziata con solo un anno più di me, sorrideva complice con tutta la famiglia e acconsentiva. La sua esibizione veniva sempre premiata dalla giuria popolare con quattro 10 e poi toccava a me che a quel punto mi aggrappavo alla speranza di poter almeno pareggiare. Arrivato al “di sangueeeeee e di amor” dell’acuto finale facevo durare quella “e” stonata il più possibile e dopo scrosciava l’applauso. I miei genitori e mia nonna, che preferì me come nipote per tutta la sua vita, mi davano un bel 10 e infine mia zia, che viveva in simbiosi con mia sorella, sua “fighiozza”, e ci teneva a votare per ultima, mi dava un 9 che mi faceva inesorabilmente perdere. Ci restavo malissimo anche per le loro risate affettuose, ma non avevo il tempo di protestare perché dovevo immediatamente scappare in bagno in quanto a causa dello sforzo dell’acuto prolungato me la facevo sempre un po’ addosso.
Ma come detto la mia casa era il quartiere. Nella breve Via Regina Elena sul lato di fronte al mio portone si apriva un piccolo slargo rialzato che dava l’accesso a tre diverse abitazioni e dove noi bambini potevamo giocare tranquillamente sotto gli occhi di tutto il vicinato. Subito accanto al mio portone c’era la piccola antica pasticceria delle sorelle Mollica, amiche della mia famiglia e che abitavano nei due piani superiori con i balconi confinanti con i nostri; salendo si trovava il negozio della signorina Battaglia che vendeva guanti, sciarpe, foulard e cappellini; poi la libreria dello zio Tano Pittari e di seguito, alla fine della via, lo stupendo bar “Antico caffè Galante”, che fu anche un importante cenacolo culturale frequentato dagli intellettuali del novecento tra i quali il premio Nobel Salvatore Quasimodo che omaggiò la nostra città scrivendo “Vento a Tindari”. Il bar, in perfetto stile Liberty con delle insegne, vetri, arredi e illuminazioni create da maestri artigiani degli anni 20’, ancora oggi, non più in attività, è tenuto perfettamente bene dai figli e viene visitato e fotografato da numerosi turisti, alcuni dei quali si recano nel mio paese appositamente per ammirarlo.
continua 1
Morire non è nulla; non vivere è spaventoso. (Victor Hugo)
Enzo Russo è nato a Patti (Messina) nel 1959. Laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Medicina Nucleare. Dirige un servizio di Osteoporosi e Malattie metaboliche dello scheletro.
“Soltanto tre cose” è stato il suo primo romanzo. Recentemente si è classificato al 3° posto con “Il sentiero che porta in alto” nella Sezione Narrativa Inedita nell’ Edizione 2021 del Premio Letterario Internazionale “Rocco Carbone”. La foto in copertina si riferisce alla premiazione del concorso Stella & Aratro dove quest’anno si é classificato al primo posto con il romanzo “Il sentiero che porta in alto”.
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