Pino Aprile, nel saggio pubblicato da Piemme, svela i soprusi che il Sud subì dopo l’Unità d’Italia.
di Mariella Arcudi
Centocinquant’anni dall’Unità d’Italia e una “questione meridionale” mai risolta. Le incongruenze in questo paese sembrano non avere mai fine. Un secolo e mezzo fa si è combattuta un’estenuante guerra d’unificazione, ma ancora si discute se dividere la nazione in due: l’Italia del Nord e quella del Sud. Discussione più che mai fomentata da una parte della classe politica, la quale, non essendo capace d’interpretare quelle che sono le vere sfide che attendono l’Italia in Europa e nel mondo, spreca tempo prezioso riducendo il dibattito politico a un interminabile conflitto tra “nordisti” e “sudisti”.
Di tutto questo – e di molto altro – parla Pino Aprile, giornalista e scrittore, nel suo incisivo pamphlet Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali” (Piemme, pp. 306, € 17,50), ripercorrendo la storia dell’unificazione senza omettere né motivazioni né fatti che hanno portato al compimento dell’Italia come un solo stato, ma non come un solo popolo.
Le verità rimosse – Nei primi capitoli lo studioso chiarisce preliminarmente quali siano le proprie convinzioni di fondo, asserendo: «Noi siamo per l’Italia una e indivisibile: è nata con i soldi che ci hanno preso e con il nostro sangue. La federazione andava fatta prima, non dopo che ci hanno fregato tutto». Un’affermazione da noi pienamente condivisa! Aprile, aprendo il capitolo Dispari opportunità, scrive che «il Piemonte era pieno di debiti; il Regno delle Due Sicilie pieno di soldi […]. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell’unità d’Italia. La ragione dei pratici; quella dei romantici era un ideale. Vinsero entrambi». Ma a che prezzo? Il Regno di Sardegna aveva appena finito di combattere le due guerre d’indipendenza contro l’Impero austriaco e si ritrovò così con grossi debiti e le casse vuote. Intanto il Regno delle Due Sicilie prosperava sotto i Borboni e gli ideali di una sola Italia, sostenuti soprattutto da Giuseppe Mazzini, incalzavano. Quale migliore combinazione politica ed economica poteva dare inizio alla guerra di “liberazione” del Sud dai Borboni e all’unificazione d’Italia? Sarebbe stato anche storicamente opportuno, se non fosse successo che, come afferma Aprile, «negli stati via via annessi alla nascente Italia, appena arrivavano i Piemontesi, spariva la cassa; ma nulla di paragonabile alle razzie e ai massacri compiuti al Sud» (a tal proposito cfr. Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia, Piemme). Così, i debiti del Nord furono pagati per il 60 per cento dal Regno delle Due Sicilie, solo per il 4 per cento dal Piemonte e appena per l’1 per cento dalla Lombardia.
L’impoverimento del Sud – Per ottenere questo non ci si fece scrupolo di perpetrare ogni sorta di eccidi e distruzioni. Con il sangue degli sconfitti si appagò la sete dei vincitori. Tutto ciò che avvenne da quel momento in poi, con tutti i governi susseguitisi nel tempo (ventennio fascista compreso) fu solo l’impoverimento del Sud e l’arricchimento del Nord. Come ben documenta l’autore, al Settentrione andarono le industrie, le infrastrutture e i soldi, mentre al Sud rimase la povertà e l’immigrazione. Il governo borbonico aveva istituito il pagamento di dazi doganali sui prodotti importati dall’estero; dopo l’unificazione, il governo italiano abolì tutti i dazi, danneggiando l’economia meridionale e determinando così l’impoverimento e il conseguente fenomeno migratorio dei contadini meridionali. Inesorabilmente il Meridione divenne «area geografica per piazzare le merci del Nord e per la fornitura di braccia e clienti» e la sua economia fu subordinata al resto d’Italia (come giustamente sostenuto nel 1930 anche da Antonio Gramsci ne La questione meridionale, Editori Riuniti). Un secolo e mezzo di storia italiana e un paese costruito su queste “basi”, su queste “verità”, hanno provocato il divario odierno tra Settentrione e Meridione: un Sud povero e ozioso, un Nord ricco e operoso, e a ciò quasi tutti, meridionali compresi, sembrano essersi, ormai, assuefatti.
Un regno alquanto ricco – Il re Ferdinando II, oltre la corona, possedeva anche un regno dalla Campania alla Sicilia entro il quale sorgevano industrie tessili e siderurgiche. In particolare, ricordiamo le acciaierie di Mongiana e Ferdinandea in Calabria e di Pietrarsa in Campania, nonché il cantiere-arsenale di Castellammare (dove venne costruita la flotta navale mercantile più importante al mondo). Da Napoli a Palermo fiorivano distese di giardini d’agrumi pregiati ed era florido l’artigianato, tra i più ammirati in Europa. Napoli (ora piena di spazzatura per un’“emergenza rifiuti” che dura da vent’anni e che serve “solo” ai politici per attingere voti) era una delle città europee più belle e progredite, ricca d’arte (vedi il teatro San Carlo) e persino dotata dell’illuminazione a gas delle strade. Il Regno delle Due Sicilie era abbastanza opulento, esportava merci e prodotti industriali (non mafia e spazzatura) e aveva stipulato un proficuo accordo economico con la Francia (cancellato dopo l’Unità e riscritto in favore del Nord): tutto ciò manteneva le casse dello Stato e delle banche piene di oro e denaro! I privilegi dei nobili e dei ricchi erano indubbiamente tanti, e non c’era molta libertà politica, ma la gente che lavorava nelle industrie e nelle campagne meridionali aveva certamente qualcosa da difendere dai suoi “fratelli italiani”.
Garibaldi e i Mille – A differenza di Carlo Pisacane, che nel 1957 aveva tentato di scatenare una rivolta contro i Borboni a Sapri, fallendo nel peggiore dei modi, l’Eroe dei Due Mondi nel 1860 cominciò l’impresa dei Mille dalla Sicilia. Egli, ben coadiuvato dai fedelissimi Giovanni Corrao, Francesco Crispi e Rosolino Pilo, sapeva che in Sicilia Francesco II non era molto amato: qui era più facile organizzare una sommossa, sfruttando il malcontento della popolazione e potendo contare anche sull’aiuto dei “picciotti” del posto, oltre che di alcune nazioni europee avverse ai Borbone. Secondo Aprile, infatti, «la sorte del Regno è stata decisa e preparata da Gran Bretagna, Francia, massoneria […] e Piemonte». L’autore, inoltre, asserisce che, prima dello sbarco dei Mille, «le spie e gli agitatori di Cavour sono già stati in Sicilia e nel Napoletano, hanno allertato idealisti cospiratori e fatto promesse, distribuito soldi, stretto accordi con malavita e possidenti».
La conquista del Sud… – Se Garibaldi riuscì a giungere senza problemi a Marsala fu perché venne protetto dalle navi inglesi e non fu intercettato da quelle borboniche, quasi certamente corrotte: Aprile sostiene, infatti, che diversi generali borbonici furono comprati col denaro piemontese e favorirono la marcia trionfale di Garibaldi. Non si trattò, dunque, di un’impresa eroica, ma di una campagna militare abilmente orchestrata da Cavour! Non a caso, appena Garibaldi giunse a Napoli, Vittorio Emanuele II si affrettò a scendere con l’esercito verso il Mezzogiorno e impedì al generale di proseguire verso Roma, impossessandosi del Regno delle Due Sicilie. Lo stesso Garibaldi, otto anni dopo, si dichiarò in parte pentito di aver “liberato” il Sud, affermando quanto segue: «gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo d’essere preso a sassate».
…e la legittima difesa! – Il Regno delle Due Sicilie si difese strenuamente dai suoi “liberatori”, e non soltanto con l’esercito, ma con ogni mezzo. I pochi briganti che fino al 1860 si aggiravano nel Sud in cerca di ventura dopo l’Unità aumentarono di numero e si trasformarono nei più efficaci difensori del territorio. Aprile ritiene, infatti, che «l’unità d’Italia […] non debellò il “brigantaggio” ma lo generò», sostenendo che, tra il 1861 e il 1865, i briganti furono perlopiù «patrioti e cittadini che non accettarono la fine delle libertà, del benessere e dei diritti». Essi ricevettero presto l’aiuto e il sostegno della gente che li vedeva come liberatori dalla miseria e dall’oppressione, ancor più aumentata con l’arrivo dei “fratelli d’Italia”. La repressione del brigantaggio raggiunse livelli d’iniquità esagerati, anche perché colpì la popolazione civile. Aprile la paragona, non a torto, alle stragi commesse dai nazisti contro gli ebrei e ad altre ancora che i vincitori, in tutte le guerre, hanno compiuto. Quanti di noi, studiando a scuola la Storia, hanno letto cosa avvenne a Bronte, a Casalduni, a Isernia, a Pontelandolfo, a Rionero in Voltura, ecc.? Eccidi, distruzioni, stragi. Ci domandiamo chi fra briganti e piemontesi fosse in fondo peggiore… Come dimenticare l’assedio di Gaeta tra novembre del 1860 e febbraio del 1861 da parte delle truppe sabaude guidate dal generale Enrico Cialdini? L’assedio durò centodue giorni, settantacinque dei quali trascorsi dagli abitanti sotto i bombardamenti. Alla fine si contarono circa milleseicento caduti e ottocento feriti nelle fila dell’esercito borbonico, con oltre cento morti tra la popolazione civile.
La legge Pica – Due anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il parlamento nominò una commissione d’inchiesta per studiare il fenomeno del brigantaggio e chiarirne le cause. La relazione finale, affidata a Giuseppe Massari, propose per l’immediato una legge speciale fortemente repressiva, per debellare ogni sacca di resistenza. Il 15 agosto 1863 venne varata la legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica. Il provvedimento legislativo aveva come titolo Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette (per la prima volta si faceva cenno al fenomeno del camorrismo, associando così i briganti che si opponevano all’esercito piemontese alla criminalità comune) e sospendeva temporaneamente nel Sud i diritti costituzionali previsti dallo Statuto albertino. La competenza di arrestare e giudicare i briganti passò ai tribunali militari: chi fosse stato qualificato come brigante, anche se non c’erano prove certe, poteva essere fucilato; chiunque avesse fatto opposizione armata all’arresto, o fosse solamente sospettato di collaborazione con i briganti, finiva ai lavori forzati; venivano obbligati al domicilio coatto i vagabondi, i nullafacenti e tutti coloro che erano sospettati di simpatizzare per i briganti.
Le cifre delle stragi – Aprile, riportando le cifre ufficiali, ricorda che in soli nove mesi ci furono «quasi novemila fucilati, poco meno di undicimila feriti, oltre seimila incarcerati, quasi duecento preti, frati, donne e bambini uccisi». Il Sud, quindi, «divenne terra desolata: corpi lasciati a imputridire in piazza, altri carbonizzati nelle decine di paesi arsi, colonne vaganti di decine di migliaia di profughi». Almeno quarantuno paesi meridionali furono distrutti dagli invasori. Lo storico Franco Molfese, autore dell’importante Storia del brigantaggio dopo l’unità (Feltrinelli), stima che nel 1865, alla fine della repressione, furono circa quattordicimila i meridionali che complessivamente vennero uccisi, arrestati o che si consegnarono spontaneamente alle autorità di polizia. Un discorso a parte lo merita la storia dei deportati. Essi spesso non erano briganti, ma soldati che avevano militato nell’esercito borbonico e si erano poi rifiutati di arruolarsi con i piemontesi. Il trattamento che fu loro riservato, però, non si rivelò meno indegno. Si diede inizio a una deportazione di massa nei campi di concentramento del Nord, in Emilia, Romagna, Liguria, Lombardia e Piemonte. Il forte di Fenestrelle, a circa settanta chilometri da Torino, divenne una delle principali prigioni, assurgendo a simbolo del martirio imposto agli ex militi borbonici. La fortezza è localizzata sui monti ai confini con la Francia ed è caratterizzata da una lunga schiera di costruzioni separate, che si estendono in Val Chisone a quasi duemila metri d’altezza. Qui ufficiali, sottoufficiali e soldati perirono di fame, freddo e maltrattamenti, come in tanti altri lager sabaudi. Ma le cifre ufficiali dei prigionieri deceduti non si conoscono, perché, come ricorda Aprile, «non li registravano, li facevano sparire e basta (a Fenestrelle, nella calce viva: la vasca è ancora lì, dietro la chiesa)».
Il gioco dei ruoli – Il Sud accettò la sconfitta, e accettò anche di essere sottomesso. Le ragioni? Aprile nel capitolo Educazione alla minorità ne individua molte e si sofferma in particolare sulle tesi avanzate dal saggista, nonché redattore della nostra rivista LucidaMente, Piero Bocchiaro, il quale, nel libro Psicologia del male (Laterza), cerca di spiegare le motivazioni che stanno alla base di taluni incomprensibili comportamenti umani. Lo studioso parla del ruolo che tutti, prima o poi, finiscono con l’accettare e che genera, infine, il loro conseguente contegno. I meridionali hanno accettato ciò che gli è stato imposto, sentendosi subordinati totalmente ai settentrionali: «Il ruolo ha sostituito la persona. Ci sono oppressori e oppressi. Per giustificare i continui abusi, i primi hanno bisogno di vedere gli altri come esseri inferiori». Secondo Aprile, è proprio questo che è accaduto e che ancora accade: il Nord, una volta vinta la guerra, ha assunto il ruolo di “carnefice”, mentre il Sud ha accettato quello di “vittima”. L’autore, inoltre, non tralascia mai di parlare delle responsabilità che la classe politica ha avuto nel generare la “questione meridionale”, raccontando tutto ciò che essa, colpevolmente e consapevolmente, non ha realizzato nel Sud: banche, industrie, ospedali, porti, strade, scuole, tratti ferroviari (solo per citare le infrastrutture che in un paese civile sono davvero essenziali).
Prospettive per il futuro – Aprile ricorda che nel 1950, durante il VI governo De Gasperi, venne fondata la Cassa del Mezzogiorno, l’ente pubblico per lo sviluppo economico del Meridione che avrebbe dovuto colmare l’enorme divario esistente tra due Italie. L’esperimento durò circa quaranta anni, durante i quali venne sperperato un’enorme quantità di soldi pubblici dagli stessi politici meridionali. Essi non seppero realizzare le opere per le quali fu stanziato il denaro, che invece andò a riempire le tasche del malaffare e dell’illegalità (vedi, ad esempio, la costruzione e manutenzione dell’“Autostrada del sole”), mentre la disoccupazione e il lavoro nero raggiunsero percentuali altissime. La Cassa del Mezzogiorno chiuse i battenti nel 1992 e la politica meramente assistenzialistica fallì miseramente per colpa di amministratori collusi con la criminalità organizzata, ma da allora camorra, Cosa nostra e ’ndrangheta continuano a soffocare il Sud, mantenendolo con la paura e la violenza in una condizione di arretratezza che, a sua volta, incrementa la criminalità. Aprile chiude il suo pamphlet ribadendo l’augurio che l’Italia rimanga una e repubblicana, con una classe dirigente degna di questo nome. Tuttavia, nello stesso tempo, sostiene che, anche se essa dovesse in futuro dividersi, il Sud potrebbe comunque risollevarsi, sfruttando le risorse naturali e umane che possiede: terre fertili, natura incontaminata, sbocco sul mare illimitato e tanta gente onesta. L’autore, in conclusione, ricorda con forza la frase che Borsellino pronunciò poco tempo prima di essere ucciso: «Un giorno, questa terra sarà bellissima».(lucidamente)